Le aggressive pratiche di
accaparramento delle risorse naturali da parte delle multinazionali tese
alla sottrazione di beni alla collettività per piegarle alle spietate
logiche di mercato, come il land grabbing, sembrano richiamare alla mente gli idilliaci processi
del capitale già denunciati da Marx più di un secolo fa. Di fronte ad
un siffatto scenario la tutela giuridica dei beni comuni potrebbe essere
una rivoluzionaria via d’uscita da un sistema prigioniero dell’asfittica logica binaria pubblico/privato.
di RICCARDO CAVALLO
(Micromega, 26 aprile 2013)
(Micromega, 26 aprile 2013)
Riccardo Cavallo svolge attività didattica e di ricerca
con la cattedra di Filosofia del Diritto presso il Dipartimento
Seminario Giuridico dell’Università degli Studi di Catania. La sua tesi
dottorale si è aggiudicata nel 2005 il Premio di filosofia “Viaggio a
Siracusa”. Tra le sue pubblicazioni più rilevanti le monografie: L’antiformalismo nella temperie weimariana (Giappichelli, 2009) e Le categorie politiche del diritto. Carl Schmitt e le aporie del moderno (Bonanno, 2007).
Beni comuni: tragedia o farsa?
Da ‘acquabenecomune’ campagna portata avanti con successo dal Forum dei movimenti per l’Acqua
contro la privatizzazione delle risorse idriche e conclusasi con la
vittoria referendaria nel 2011 è stato un crescente proliferare di
proclami ‘ariabenecomune’, ‘naturabenecomune’, ‘marebenecomune’, etc.
fino a costituire uno dei punti cardine del ‘soggetto politico nuovo’
ALBA (acronimo per Alleanza, Lavoro, Beni comuni, Ambiente) o culminare
nel motto di una coalizione politica (“Italia. Bene comune”). Il
‘benecomunismo’ come è stato ben presto etichettato sembra dunque essere
diventata una sorta di virus che ha permeato tutti gli aspetti della
nostra società, diventando il vessillo di nuovi movimenti più o meno
politicizzati. Come sempre accade in questi casi, però, quando un
termine viene utilizzato nei contesti più disparati può rimanere
facilmente preda di malintesi, fino alla desemanticizzazione del termine
stesso ‘beni comuni’: se ogni cosa che ci circonda è bene comune nulla
lo è. Per evitare di cadere in pericolose semplificazioni è forse
necessario fare un po’ di chiarezza, cercando innanzitutto di
comprendere se il fenomeno dei beni comuni sia figlio dell’attuale
società globalizzata o se, al contrario, sia qualcosa che affonda le sue
radici in un passato ben più lontano. Non è un caso infatti che ci sia
stato un fiorire di pubblicazioni e dibattiti, sia in ambito accademico
che all’interno delle meno paludate assemblee di partiti e movimenti,
sull’origine dei beni comuni. Mai come in questo caso il crescente
interesse per questa tematica ha dato luogo a una serie eterogenea di
significati e funzioni a volte anche in netta antitesi. Da un punto di
vista filosofico-giuridico, ad esempio, le prime teorizzazione dei beni
comuni vengono fatte risalire sia al diritto romano di epoca
precristiana, sia alla filosofia di tradizione tomistica della ‘Seconda
Scolastica’, o ancora, a quella che viene definita la prima Costituzione
scritta della civiltà occidentale, la Magna Charta del 1215 e la sua meno conosciuta ‘sorella minore’ Charter of the Forest,
che garantiva al popolo il libero accesso alle foreste e ai beni
comuni, fino ad arrivare, con un salto di parecchi secoli, al codice
civile napoleonico del 1804, in cui accanto all’art. 544 che definisce
la proprietà privata, vengono disciplinati con l’art. 542 i beni comuni
intesi come «quei beni la cui proprietà o sui cui frutti gli abitanti
hanno un diritto acquisito». Com’è facile capire dunque, cercando di
ripercorrere la genealogia dei beni comuni ci si può imbattere nei
personaggi più disparati, da Guglielmo da Ockham a Thomas More, passando
per Rousseau ed Hegel, per giungere fino a Toni Negri e Michael Hardt
che elaborano una nuova proposta filosofico-politica tesa alla
riappropriazione del ‘comune’ da parte della moltitudine, depredata dal
sistema economico di stampo capitalistico. Tralasciando per il momento
la questione, non certo dirimente, della derivazione, più o meno
risalente, dei beni comuni, l’idea di sottrarre dei beni alla proprietà
privata per rimetterli a disposizione della collettività, senza tuttavia
che essi ricadano nei beni pubblici o demaniali (da qui lo slogan
di successo ‘al di là del pubblico e del privato’) e di come tali beni
possano materialmente essere fruiti ha dato luogo soprattutto ad un
dibattito sviluppatosi in ambito economico a partire dal noto articolo
del biologo Garrett Hardin The Tragedy of the Commons pubblicato su Science
nel 1968. Tale articolo, il cui titolo è diventato negli anni una sorta
di anatema nei confronti di chi volesse portare avanti politiche di
incentivo dei beni comuni, occupandosi del problema della
sovrappopolazione mondiale mette in evidenza il rapporto direttamente
proporzionale tra la messa a disposizione in maniera illimitata di
risorse in comune (ad esempio, la possibilità di far pascolare un gregge
su un terreno) e la tendenza all’accaparramento di risorse da parte dei
singoli fino all’impoverimento delle stesse. Quello che appariva un
dilemma insanabile è stato risolto con efficacia da Elinor Ostrom, la
quale dimostrando empiricamente come fosse possibile governare i commons
grazie ad una accresciuta capacità di comunicazione tra i consociati,
ha del tutto sovvertito la tesi pessimisticamente sostenuta da Hardin,
con risultati così sorprendenti da farle conquistare il premio Nobel per
l’economia (mai attribuito prima ad una donna) e riportare in auge la
tematica dei beni comuni.
2. La rivoluzione dei beni comuni: il panorama italiano
Tra gli svariati tentativi di tematizzare in maniera più organica un
concetto per sua natura sfuggente e variegato emerge, almeno nel nostro
Paese, l’opera da diversi anni svolta da un gruppo di studiosi, per lo
più giuristi ed economisti, che hanno lavorato in seno alla Commissione
Rodotà con il precipuo scopo di elaborare principi e criteri direttivi
che potessero fungere da base per una modifica radicale delle norme del
codice civile in materia di beni pubblici. La Commissione, istituita
presso il Ministero della Giustizia nel 2007 e presieduta dal noto
civilista Stefano Rodotà, si è posta come obiettivo la regolamentazione,
del tutto inesistente nel nostro codice civile, di determinate
categorie di beni come quelli immateriali che rivestono ormai
nell’attuale sistema economico una rilevanza fondamentale. Ben lungi
dall’essere solo un mera operazione di ‘aggiornamento’ di una disciplina
codicistica ormai per molti versi desueta, trattandosi di un codice
approvato agli inizi degli anni Quaranta del Novecento, in realtà,
l’obiettivo della Commissione Rodotà era molto più ambizioso. Posta la
crescente scarsità di risorse naturali come l’acqua, l’aria e i boschi,
si è ritenuto necessario puntare l’attenzione ad una maggiore tutela
delle stesse mediante l’elaborazione di una nuova categoria di beni
giuridici, per l’appunto quella di ‘beni comuni’ che avessero un nesso
indissolubile con la tutela dei diritti della persona e degli interessi
pubblici sostanziali per come stabiliti dalla nostra Costituzione. Da
qui la definizione, per alcuni rivoluzionaria, per altri, al contrario,
dai contorni troppo incerti, di beni comuni come «quei beni che
esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali
nonché al libero sviluppo». A dispetto di quanto si possa desumere da
una lettura superficiale, non si tratta tanto di una riaffermazione del
‘pubblico’ a dispetto del ‘privato’ in quanto si discute di modificare
il regime di appartenenza del bene, quanto le sue modalità di fruizione
che, nell’ottica della Commissione, va collocata, al di là del pubblico e
del privato. È necessario, quindi, elaborare una nuova categoria che
riesca ad andare oltre le vecchie logiche pubblico/privato
(Stato/mercato) per adeguarla ad un totale cambio di prospettiva che
richiede la tutela dei beni comuni nell’attuale società. Infatti, questi
ultimi dovrebbero rispondere ad una diversa forma di razionalità, in
grado di fronteggiare i cambiamenti profondi che attraversano la
contemporaneità investendo la dimensione sociale, economica, culturale,
politica. In altre parole, occorre abbandonare quella logica che ha
‘condannato’ il nostro diritto a rimanere ancorato ad un sistema
rigidamente binario, poiché, come ha affermato Rodotà già oltre trenta
anni addietro, solo gli interessi collettivi e un’impostazione non
proprietaria possono far «guadagnare al mondo istituzionale una terza
dimensione, nella quale si muovono a disagio i cultori della geometria
istituzionale piana». La battaglia portata avanti da Rodotà non è
rimasta tuttavia confinata nell’alveo delle mere teorizzazioni
giuridiche ricevendo persino l’avallo delle Sezioni Unite della
Cassazione Civile (SSUU 14.02.2011, n. 3665) che con una decisione
relativa alla proprietà delle valli da pesca della laguna di Venezia, ha
affermato «oggi non è più possibile limitarsi all’esame della normativa
codicistica del 1942, risultando indispensabile integrare la stessa
specificamente con le norme costituzionali» che vengono individuate
nell’articolo 2 (diritti della persona, intesa non solo singolarmente ma
nelle formazioni sociali dove sviluppa la personalità), art. 9 (tutela
del paesaggio) e art. 42 (proprietà pubblica e privata, di cui bisogna
assicurare la finalità sociale). Da tali richiami la Suprema Corte
esprime «l’esigenza interpretativa di “guardare” al tema dei beni
pubblici oltre una visione patrimoniale-proprietaria per approdare ad
una prospettiva personale-collettivistica» a partire, cioè, dal «dato
essenziale della centralità della persona da rendere effettiva, oltre
che con il riconoscimento di diritti inviolabili anche mediante
l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale». Da tali premesse arriva la conclusione che laddove «un bene
immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue
intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e
paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale, come
sopra delineato, detto bene è da ritenersi “comune” vale a dire,
prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato agli
interessi di tutti i cittadini». Forte di questa vittoria la Commissione
non sembra essersi fermata tant’è che è di questi giorni la notizia
relativa alla sua ripresa dei lavori: dismessi i panni più prettamente
istituzionali essa diviene “aperta” ed “itinerante”, quasi volendo anche
nella forma incarnare lo spirito della tanto auspicata ‘rivoluzione dei
beni comuni’. Composta in maniera più fluida da accademici afferenti a
diverse discipline e attivisti dei movimenti sociali, essa procederà
facendo tappa nei luoghi più significativi della battaglia per i beni
comuni come il Teatro Valle Occupato, che il giurista Ugo Mattei, uno
degli esponenti di punta di questo movimento, ha definito vera e propria
«esperienza di legalità costituente».
3. Il futuro alle nostre spalle
Ma se si mettono per un attimo da parte sia l’entusiasmo movimentista
degli ultimi anni, sia l’ambizioso tentativo di enucleare un concetto
di beni comuni necessariamente agganciato alla tutela dei diritti
fondamentali, non si può non scorgere nell’idea di ‘riappropriazione’ a
beneficio dei consociati sottesa al ‘benecomunismo’ attuale – nonostante
la complessità della tematica dei beni comuni e le ovvie diversità di
contesto storico-sociale – gli echi di quanto già affermato da Karl Marx
nei suoi scritti giovanili da sempre ritenuti, forse a torto ‘minori’
e, in particolare, quelli riguardanti i dibattiti della Dieta renana
sulla legge contro i furti di legna. Il filosofo di Treviri, all’epoca
caporedattore della Rheinische Zeitung, incomincia a misurarsi
con i conflitti economico-sociali che caratterizzano la società tedesca
dell’Ottocento come si evince dalla lettura di questi articoli
pubblicati nell’autunno del 1842. Con la consueta prosa ironica Marx si
avventura nei meandri della scienza giuridica, schierandosi a difesa del
diritto consuetudinario dei non proprietari. La forza ermeneutica del
suo discorso sta nella capacità di svelare l’arcano che si nasconde
dietro il paravento giuridico dove si celano dei veri e propri rapporti
di forza tra classi antagoniste. Difatti, la legge che estende la
qualifica di furto alla raccolta di legna, fino allora considerata del
tutto legittima in base agli usi civici consolidatisi nel tempo come
diritto consuetudinario, era in realtà una sorta di grimaldello
utilizzato dai possidenti per scardinare il diritto consuetudinario al
fine di sanzionare, addirittura con i lavori forzati, il comportamento
della plebe che in stato di necessità, a causa della crescente povertà,
si procurava la legna necessaria al soddisfacimento dei bisogni primari.
L’argomentazione di Marx risulta sorprendente per la sua abilità
nell’utilizzare le conoscenze giuridiche a sostegno della propria tesi.
Come in un’ideale aula di giustizia Marx veste i panni di un beffardo
avvocato che riesce a demolire la tenuta giuridica della legge sui furti
di legna, evidenziando l’insostenibilità della nuova fattispecie di
reato. Ad esempio Marx contestava come fosse impossibile equiparare due
fatti materiali del tutto diversi come l’asportazione o raccolta di
legna caduta dagli alberi alla sottrazione furtiva di legna verde dagli
alberi (c.d. taglio furtivo di piante). I sostenitori di tale
equiparazione, con la conseguente criminalizzazione di condotte prima
consentite, affermavano che fosse necessario porre un argine al
comportamento doloso che molti ‘raccoglitori’ erano soliti porre in
essere: intaccare gli alberi verdi per farli perire e, successivamente,
trattare il legname da essi derivato come ‘legna caduta’. A tale
obiezione che lo stesso Marx giudica ‘acuta’, oppone un altro argomento
difficile da contestare: se si pongono sul piatto della bilancia la
salute di ‘giovani alberi’ e quella degli uomini chi è necessario
salvare? Marx ovviamente non ha dubbi sul suo propendere a favore di
questi ultimi e inveisce con vivo sarcasmo: «trionfino gl’idoli di legno
e cadano le vittime umane!». Già da tali riferimenti è facile intuire
come nelle sue parole fosse racchiuso il dilemma che avrebbe
arrovellato, a distanza di più di secolo, economisti e giuristi di ogni
parte del globo: la ben nota tragedia dei beni comuni e il suo
interconnesso problema del rapporto tra sostenibilità ambientale e
sostentamento dell’uomo. Nonostante la costante causticità, Marx sembra
ben comprendere qual è la posta in gioco, anche in una questione
limitata territorialmente come quella degli usi civici del legnatico
nella Renania. Ben prima che i tempi fossero maturi per poter sviluppare
una vera e propria coscienza ecologista, egli aveva colto che il
rapporto tra natura e uomo non poteva che svolgere un ruolo cruciale,
malgrado egli scelga di propendere per quest’ultimo, cosa che alle
nostre menti ormai avvezze alle battaglie ambientaliste può apparire
come un tragico errore (del resto erano ancora inimmaginabili i danni
che la deforestazione selvaggia o le piogge acide avrebbero prodotto in
futuro ma erano, al contrario, ben evidenti le miserrime condizioni
degli uomini e, in particolare, dei lavoratori appartenenti al gradino
più basso della scala sociale). È chiaro allora che l’obiettivo di Marx
non era (non poteva esserlo!) quello di uno ‘sviluppo sostenibile’ ma di
una lotta senza remore non alla proprietà privata tout court ma a quella borghese troppo idealizzata ed idolatrata, come si evince dalla lettura del Manifesto
dove la sua critica assurge a vero e proprio tratto portante della
teoria comunista. Quello che viene prima solo abbozzato (la
riappropriazione di qualcosa che spetta ai consociati liberamente) viene
ribadito con forza nelle taglienti pagine del capitolo XXIV del Capitale sulla cosiddetta accumulazione originaria. Qui Marx intende confutare ab imis
gli ‘idilliaci processi’ che hanno caratterizzato l’accumulazione
originaria, cioè la tanto celebrata accumulazione primitiva intesa come
frutto del lavoro e del risparmio dei lavoratori. Non c’è nulla di
‘idilliaco’ afferma Marx con fermezza, portando alla luce una realtà ben
diversa da quella descritta dagli economisti classici (e, in
particolare da Adam Smith): «il furto dei beni ecclesiastici,
l’alienazione fraudolenta dei beni dello Stato, il furto della proprietà
comune, la trasformazione usurpatoria, compiuta con un terrorismo senza
scrupoli, della proprietà feudale e della proprietà dei clan in
proprietà privata moderna». In altri termini, una storia violenta di
soprusi perpetrati da chi si è arricchito a dismisura nei confronti
degli ‘spossessati’. Le espropriazioni forzate delle terre a danno della
popolazione rurale e, più in generale, la pratica delle enclosures,
ovvero la recinzione delle terre comuni destinati al pascolo a favore
dei proprietari terrieri, comportavano l’arricchimento dei proprietari e
l’impoverimento dei contadini non proprietari, costretti alla fame e
ben presto trasformati nella forza lavoro salariata. «Questi metodi –
sottolinea Marx – conquistarono il campo all’agricoltura capitalistica,
incorporarono la terra nel capitale e crearono all’industria delle città
la necessaria fornitura di proletariato eslege».
4. Contro nuovi idilliaci processi
Le enclosures tuttavia non sono da relegare ad un passato
ormai lontano, poiché oggi stiamo assistendo a nuovi e forse ancora più
devastanti fenomeni di recinzione, come il c.d. land grabbing
(incetta di suoli o furto della terra). Si tratta di un processo in
forte espansione messo in atto da multinazionali, fondi immobiliari e
persino governi dei Paesi economicamente più forti (si pensi alla Cina e
alla Corea del Sud) che hanno iniziato a comprare enormi estensioni di
suoli fertili e le relative risorse idriche ed energetiche a prezzi
risibili dai Paesi più poveri dell’Africa, dell’Asia e dell’America
Latina. Ad esempio, solo in Madagascar la metà dei terreni agricoli del
Paese, cioè circa 1.300.000 ettari, è stata acquistata dalla Corea del
Sud che destinerà queste terre alla coltivazione di mais e altri
prodotti da esportazione. Queste spregiudicate operazioni hanno portato
alla sottrazione ‘legale’ di milioni di ettari di terreni, destinati ad
una forma di agricoltura industrializzata ed intensiva a discapito delle
popolazioni locali che avevano in quelle terre le loro uniche fonti di
sostentamento. Invero chi compra queste terre non è minimante
interessato alla sorte di chi ci vive da sempre che, nei paesi più
poveri sono addirittura privi di qualunque documento legale che comprovi
la loro proprietà. La vendita avviene in questi casi a livello
governativo e dunque all’insaputa dei suoi abitanti che si ritrovano
improvvisamente spossessati e scacciati dalle proprie terre mentre i più
‘fortunati’ vengono assunti come bracciati a bassissimo costo nelle
stesse. Il land grabbing si può considerare come una vera e
propria forma di ‘rapina’ del mondo ‘ricco’ nei confronti di quello
‘povero’. Allo stesso modo, anche le legislazioni di alcuni Paesi
operano contro i loro stessi abitanti con il risultato di favorire un
saccheggio di terre e risorse senza fine. È il caso delle Cina, dove
negli ultimi decenni più di settanta milioni di contadini hanno subito
gli effetti di una privatizzazione selvaggia dei loro terreni agricoli,
destinati dal governo ad opere di urbanizzazione. Un quadro ancora più
sconsolante è quello presentatosi in Messico, dove grazie ad una
modifica legislativa agli inizi degli anni Novanta è stato eliminato il
sistema delle terre comuni (ejjdos), prima garantite
addirittura dalla Carta costituzionale, in quanto ritenute poco
redditizie, con il risultato di ‘sfrattare’ milioni di contadini a
vantaggio di una privatizzazione sfrenata che ha favorito solo
investitori stranieri senza scrupoli. Non si può non scorgere pertanto
nell’accumulazione di risorse nelle mani di pochi e nella conseguente
sempre maggiore pauperizzazione di intere masse, la stessa logica
criminale denunciata, a suo tempo, da Marx. Anzi attualmente quegli
effetti deleteri che egli metteva in evidenza non possono che risultare,
in una società globale, amplificati fino a raggiungere proporzioni, a
dir poco, allarmanti, tali da far assumere ad un fenomeno ristretto come
quello delle recinzioni verificatosi originariamente in Inghilterra
dimensioni mondiali. È proprio la globalizzazione e la logica di
profitto sfrenato ad essa sottesa imposta dalle multinazionali a
concepire l’intero pianeta in termini di proprietà privata da sfruttare
fino al collasso. Le privatizzazioni e le ‘nuove recinzioni’ effettuate
più o meno legalmente dalle multinazionali dell’agrobusiness
stanno non solo mettendo in ginocchio intere popolazioni ma stanno
distruggendo ogni forma di diversità, sia biologica che culturale,
finendo col trasformare, come ha efficacemente osservato Vandana Shiva,
il mondo in un «gigantesco supermercato, in cui beni e servizi prodotti
con costi ecologici, economici e sociali estremamente alti vengono
rivenduti a prezzi stracciati». Le nuove forme di enclosures of the commons
figlie della ‘filosofia di morte’ dell’economia neoliberista conducono
non solo ad una sorta di neocolonialismo che trasforma in merce ogni
risorsa, ma ad un impoverimento oltre che di tipo strettamente economico
anche culturale e politico. Per tale ragione è più che mai necessario
non sprecare l’occasione offertaci dalla possibilità di tutelare i beni
comuni. Sarà possibile farlo proseguendo il percorso più che virtuoso,
ma anche irto di pericoli, della Commissione Rodotà? Molti sono ancora i
nodi irrisolti, ad esempio: se sia possibile muoversi dentro la
tradizione giuridica occidentale utilizzando le categorie della
tradizione romanistica (come l’actio popularis o la res communis omnium) o se sia necessario elaborare delle categorie ex novo.
E ancora: come risolvere le questioni relative alle decisioni
sull’erogazione di una risorsa e la distribuzione dei costi del suo
utilizzo e mantenimento? In ogni caso, la strada da percorrere è ancora
lunga e per andare avanti sarà necessario operare un cambio radicale di
paradigma che implichi una reale alternativa alla deriva neoliberista.
Per fare ciò è necessario non dimenticare la lezione di Marx: mettendo
da parte le implicazioni più smaccatamente ideologiche, sarebbe
opportuno oggi riprendere in mano le ‘armi del diritto’, come fece egli
stesso utilizzando il diritto consuetudinario contro il diritto
dei ‘potenti’. Per porre in essere una chiara inversione di tendenza
alle logiche di mercato e alla ‘dittatura proprietaria’, tuttavia, non è
più possibile utilizzare il diritto consuetudinario che, come abbiamo
visto nei casi di land grabbing risulta, nient’altro che
un’arma spuntata rispetto al diritto ‘forte’ delle multinazionali. Il
diritto del resto, come si evince non solo da questi recenti fenomeni di
‘espropriazione legale’ delle terre, ma anche dalla lettura dello
stesso Marx, è un’arma a doppio taglio utilizzabile in senso regressivo o progressivo, per consolidare le pretese dei ‘forti’ o per tutelare le istanze dei più ‘deboli’. I tempi sono ormai maturi affinché un uso alternativo del diritto
nel campo dei beni comuni possa imporre un reale cambiamento riuscendo
ad incanalare positivamente la ‘violenza creatrice del diritto’ di cui
parlava Walter Benjamin a favore della collettività e non delle logiche
di mercato.
Bibliografia minima di riferimento
AA.VV., Oltre il pubblico e il privato, a cura di M.R. Marella, Ombre Corte, Verona 2012;
AA.VV., La società dei beni comuni, a cura di P. Cacciari, Ediesse, Roma 2010;
AA.VV., Lessico marxiano, Manifestolibri, Roma 2008;
AA.VV., L’uso alternativo del diritto, a cura di P. Barcellona, Laterza, Roma-Bari 1973;
D. Bensaïd, Gli spossessati, Ombre Corte, Verona 2009;
A. Ciervo, I beni comuni, Ediesse, Roma 2012;
A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Laterza, Roma-Bari 2013;
D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007;
S. Liberti, Land grabbing, Minimum Fax, Roma 2011;
P. Linebaugh, M. Rediker, I ribelli dell’Atlantico, Feltrinelli, Milano 2004;
K. Marx, Scritti politici giovanili, Einaudi, Torino 1975;
K. Marx, Il Capitale, La Città del Sole, Napoli 2011;
U. Mattei, Beni Comuni, Laterza, Roma-Bari 2011;
U. Mattei, L. Nader, Il saccheggio, Bruno Mondadori, Milano 2010;
E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia 2009;
S. Rodotà, Il terribile diritto, Il Mulino, Bologna 1981;
S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012;
S. Settis, Azione popolare, Einaudi, Torino 2012;
V. Shiva, Il bene comune della Terra, Feltrinelli, Milano 2006.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.