giovedì 21 giugno 2018

El Salvador, un Paese in mano alle bande criminali

È passato oltre un anno da quando Donald Trump ha cominciato a twittare sui bad hombres della Mara salvatrucha 13 (Ms13). Oggi, grazie a Trump, la banda criminale ha aumentato il suo peso nell’agenda sociopolitica mondiale, mentre il fenomeno delle maras, di cui la Salvatrucha è soltanto un anello, riceve più attenzione che mai da parte della stampa internazionale, degli studiosi e della rete internazionale delle ong.
Assistiamo a qualcosa che fino a dieci anni fa era impensabile: la Ms13 si è inserita prepotentemente in diversi dibattiti elettorali negli Stati Uniti. Ogni giorno che passa, El Salvador e i salvadoregni vengono sempre più associati alla Ms13, così come da decenni ogni colombiano è associato al narcotraffico. Organizzazioni prestigiose come Medici senza frontiere e l’International crisis group hanno cominciato a interessarsi a quello che accade ormai da decenni nel paese “Pollicino d’America”. Se devo essere sincero, non mi stupirei se Netflix stesse già girando una serie tv sulle bande e gli squadroni della morte ambientata a Soyapango, Apopa o un altro quartiere difficile di San Salvador. 
Poliziotto salvadoregno con un uomo sospettato di appartenere a una gang
 Nessuno può negare che da quando Trump ha cominciato a occuparsi della Ms13, nel mondo si parla molto di più delle maras e di conseguenza del Salvador. Ma dubito che il mondo oggi ne sappia di più sulla reale portata del problema che tormenta noi salvadoregni.
Dopo diverse richieste insistenti, un rappresentante della Polizia civile nazionale (Pnc) mi ha consegnato un rapporto con la stima ufficiale del numero di affiliati alle maras in Salvador. Secondo il documento, che comprende informazioni raccolte dalla Pnc e dalla Direzione generale dei centri penali, nel paese vivono 64.587 esponenti delle bande criminali: 41.151 sono in libertà, 21.436 sono in prigione. Il documento riporta la data di giugno 2017.
Spesso le cifre, senza un contesto appropriato, sono soltanto numeri sterili, ma resta il fatto che questi 65mila pandilleros che dopo la sentenza della corte suprema dell’agosto del 2015 sono considerati terroristi a tutti gli effetti, rappresentano l’1 per cento della popolazione del paese. Pensateci, un cittadino su cento.
Ora mi rivolgo a te, amico colombiano che sei arrivato fino a questo punto del mio articolo. Immagina se in Colombia i guerriglieri e i paramilitari fossero stati 500mila. E tu, amica spagnola, pensa se Euskadi Ta Askatasuna avesse mai contato su 460mila gudaris. E voi, amici che mi leggete negli Stati Uniti, cosa pensereste se all’interno del vostro paese ci fossero tre milioni di affiliati di un’organizzazione terrorista? 
Dal punto di vista numerico è questo l’impatto delle maras in Salvador. Ma nella realtà dei fatti il problema è molto più vasto, perché le maras sono una piaga inequivocabilmente sociale, radicata in centinaia, migliaia di comunità impoverite in tutto il territorio. Per ogni activo – quasi tutti uomini – ci sono almeno quattro o cinque persone dipendenti dall’attività criminale: mogli, figli, familiari, simpatizzanti, collaboratori.
Torniamo alla data riportata sul documento: giugno 2017. Al governo salvadoregno, evidentemente, non piace far sapere quali sono le dimensioni del problema. L’effetto della criminalità sulla popolazione benestante o ricca è minore, dunque il governo cerca di dissimulare la realtà attraverso la propaganda. Giornalisti e accademici ripetono da anni che nel paese ci sono 60mila affiliati, ma dal 2012 lo stato non ha più pubblicato alcuna stima ufficiale sulle dimensioni del fenomeno.
Nel 2005 la stima ufficiale era di 11mila activos. Appena sette anni dopo e con un nuovo partito al governo, un rapporto del ministero della pubblica sicurezza fissava la stima in 62mila activos. Poi è arrivata la Tregua, che ha permesso alle maras di assumere il controllo di nuove aree. 
A partire dal gennaio del 2015, il governo del Fronte Farabundo Martí per la liberazione nazionale (Fmln) ha fatto ricorso alla repressione più brutale nel tentativo di controllare le maras, con pratiche carcerarie che violano i diritti umani più basilari e con il tacito assenso alle esecuzioni extra-giudiziarie (la polizia ha comunicato, senza alcun pudore, di aver ucciso 1.400 persone nel corso di presunti scontri con i criminali). Il pugno di ferro seduce l’elettore salvadoregno, ma allo stato ha portato la denuncia di organizzazioni come l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani.
I numeri contenuti nel rapporto che mi è stato consegnato lasciano pensare che nemmeno calpestando i diritti umani (con le relative conseguenze nefaste che queste politiche pubbliche hanno avuto sul prestigio delle istituzioni) il governo è riuscito a fermare la crescita delle maras. Oggi ci sono più affiliati di cinque anni fa. Perché? I motivi sono molti, ma possono essere raggruppati in tre grandi concetti: per prima cosa, essere un pandillero continua a rappresentare un’opzione allettante per migliaia di giovani delle comunità povere ed emarginate; in secondo luogo bisogna considerare il flusso costante di criminali che escono di prigione e non sono riabilitati; infine l’aumento delle vittime generato dalla repressione dello stato è stato compensato da un allentamento del conflitto interno tra gli emeeses (appartenenti alla Ms-13) e i dieciocheros (appartenenti alla mara Barrio 18).
In questi cinque anni, però, le persone rinchiuse nelle carceri sono passate da 27mila a 39mila. El Salvador è uno dei paesi con più alto tasso di incarcerazione e con le carceri più affollate del mondo. Nonostante i tentativi di aumentare la capacità del sistema penitenziario, i posti disponibili nelle 28 strutture carcerarie del paese sono 18mila, meno della metà rispetto ai detenuti. Per non parlare dei 40mila affiliati a piede libero e di tutti quelli che collaborano con loro.
A meno che non si consideri l’ipotesi di un genocidio, la matematica dimostra che la linea repressiva non può essere una soluzione per risolvere il problema delle bande. Anche se lo stato riuscisse a punire efficacemente i crimini, il numero di persone che sarebbe costretto a incarcerare sarebbe insostenibile, soprattutto in un paese dalle risorse limitate e con un sistema penitenziario sull’orlo del collasso.
Davanti all’enormità delle cifre – che, ripeto, sono ufficiali ma vengono nascoste alla popolazione – e davanti alla prova che nemmeno la repressione più brutale può frenare l’espansione delle maras, mi vengono in mente soltanto due alternative: una è quella di andare avanti così, aspirando ogni anno al record di società più violenta del mondo e cercando di limitare l’impatto della criminalità sugli strati sociali più privilegiati; l’altra è quella di scommettere su una soluzione del conflitto attraverso il dialogo, una strada comunque spinosa e dolorosa che obbligherebbe la società salvadoregna a sopportare i terroristi della Ms13 e della Barrio 18 come attori sociali e politici. Tutto il resto, oggi come oggi, è solo un canto delle sirene



Razzismi

Tornando a correre, dopo tanto tempo che non lo facevo per piccoli problemucci fisici, questa mattina, in quella splendida condizione di apertura mentale che la serotonina in circolo m'induce, mi è venuta questa riflessione sul razzismo che vorrei condividere con i 12 lettori che avranno la bontà di leggermi.

Ritengo che esistano solo 2 forme di razzismo “dirette” e 2 forme – molto più gravi e pericolose – di razzismo indiretto. Le ho chiamate:
razzismo RETTILE
razzismo dell'IGNORANZA
razzismo dell'OPPORTUNISMO
razzismo dell'INDIFFERENZA

Il primo, il razzismo rettile, è quello legato al funzionamento meccanico della parte più antica del nostro cervello. Non mi dilungo molto su questa tema, ma ci sono esperimenti scientifici che dimostrerebbero in modo abbastanza incontrovertibile che a livello irrazionale abbiamo una tendenza piuttosto chiara di avversione verso ciò che ci appare diverso.
La parte superiore del nostro cervello serve proprio a correggere gli errori che la parte antica commette su molti altri aspetti che coinvolgono le nostre relazioni con persone e situazioni nelle società moderne.
Qui arriviamo al razzismo dell'ignoranza, quando anche la parte superiore del cervello commette errori. Si può essere razzisti solo se si è profondamente ignoranti sui fatti che coinvolgono episodi di razzismo. L'ultimo esempio relativo al presunto “censimento dei ROM" è solo uno dei tanti. Solo una persona profondamente ignorante (nel senso che non è a conoscenza dei fatti) può essere d'accordo con il concetto di “censimento dei ROM”. L'ignoranza può assumere moltissime forme. Si può essere ignoranti su ciò che effettivamente s'intende per “censimento”. Si può essere ignoranti sulla realtà dei ROM rispetto ai campi nomadi (solo un quinto dei ROM vive nei campi nomadi, quanti lo sanno?). Si può essere ignoranti circa la legislazione attuale. Si può essere ignoranti circa la differenza fra un “censimento dei ROM” ed un'indagine statistica sul fenomeno dei campi nomadi (cosa che è già stata fatta più volte, senza, ovviamente suscitare scandalo). Insomma, mille forme d'ignoranza inducono a convinzioni sostanzialmente razziste. Spesso il razzista ignorante non si crede razzista: l'ultima e più beffarda manifestazione della sua ignoranza.
 
Poi arriviamo alle forme più vili, infingarde e dannose di razzismo.
Il razzismo dell'opportunismo è quello di chi sfrutta le prime due forme di razzismo per trarne qualche utilità. L'opportunista non crede veramente in ciò che dice. In genere sono persone senza convinzioni, ma piene di convenienze. Salvini è solo l'ultimo esempio di questi tentativi malriusciti di essere umani. Il razzismo è una merce estremamente remunerativa proprio perché esiste in noi il seme del razzismo rettile e l'ignoranza è la cosa più diffusa nella nostra società. Spacciare razzismo è un'operazione con un tasso di rendimento molto elevato e pressoché certo. Per farlo è “solo” necessario inibire tutto ciò che ci rende profondamente esseri umani. Se si è disposti a pagare questo prezzo, si può aspirare a diventare uno dei tanti “Salvini” che la storia ha tristemente archiviato, avendo grandi vantaggi immediati e provocando devastanti danni a lungo termine a sé stessi ed alla società.
Infine arriviamo alla forma più dannosa di razzismo, il razzismo dell'indifferenza. Gli opportunisti possono svolgere il loro redditizio, quanto ignobile, business non solo grazie alle prime due forme di razzismo, ma anche grazie alla decisiva ignavia di coloro che non sono d'accordo ma hanno timore ad esporsi. Una parte di queste persone sono dei razzisti utilitaristi “latenti”, nel senso che magari non ne traggono vantaggi nel momento, ma potrebbero oppure non vogliono rischiare di perdere dei vantaggi che sentono di avere in questo momento. Altri sono dei deboli, altri ancora dei rassegnati che temono che sia tutto inutile.
Quest'ultima forma di razzismo è la più subdola perché spesso non c'è neppure la condanna né della propria coscienza, né del resto della società non ancora infetta dal morbo del razzismo, ma è una dei fattori principali grazie ai quali prospera la mala-pianta del razzismo.
Il razzismo rettile è il seme di questa pianta, l'ignoranza è il terreno nel quale il seme può dischiudersi e radicarsi, l'opportunismo è il concime e le sostanze chimiche che l'alimenta, l'indifferenza sono le condizioni ambiantali indispensabili: la pioggia, il giusto clima e le “cure” che la fanno prosperare.
Questo è il momento in cui chi non vuole essere razzista, in qualche sua forma, ha il dovere morale di fare qualcosa di concreto per porre un argine al razzismo strisciante ed esplicito che in modo incontrovertibile sta infettando le nostre società e qui in Italia abbiamo dei fatti così eclatanti che tacerli può significare solo che si è appartenenti ad una delle 4 forme di razzismo che ho appena delineato. E il momento di fare qualcosa. Non si può stare in silenzio a guardare.

venerdì 15 giugno 2018

[Iran] Siamo campioni insieme


Lo dico con orgoglio perché mi sento fiera!
In una delle piazze più importanti di Tehran era stato messo un grandissimo billboard per i mondiali, con l'immagine degli uomini di tutte le razze e minoranze etniche che vivono in Iran, però nel disegno c'erano solo gli uomini. Nessuna donna!!!

Abbiamo firmato una petizione (con le attiviste ancora in circolo della campagna un milione di firme), abbiamo scritto tante lettere al parlamento e abbiamo fatto girare la cosa sui social fino alla nausea, ed ha funzionato!!!!!!

Hanno cambiato l'immagine del billboard con una foto di uomini e donne iraniane che cantano l'inno prima della partita (con la scritta: با هم قهرمانیم, siamo campioni insieme. یک ملت یک ضربان: un popolo un battito)
Ed è gooooooooooooooooooal!

1-0 per noi!
Non posso più scrivere #mainagioia
forse almeno oggi: #soddisfazioni


Jass.