sabato 26 dicembre 2009

AL REVES: venti di guerra sul Continente



La presenza militare Usa in America Latina rilancia la corsa agli armamenti e il rischio di nuovi conflitti.

In America Latina numerosi e importanti processi politici stanno determinando un graduale calo del consenso neoliberale e pro-statunitense. Dal socialismo bolivariano di Chavez in Venezuela al pragmatismo del Brasile di Lula, sono sempre di più i governi dell’area che cercano uno spazio comune di integrazione e una maggiore autonomia, anche grazie al recupero della piena sovranità sulle risorse naturali ed energetiche. La via delle nazionalizzazioni seguita da alcuni governi, la diminuita influenza del Fondo Monetario Internazionale sulle economie degli Stati, il rifiuto dell’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe) stanno a testimoniare come gli Stati Uniti, in appena dieci anni, abbiano perso buona parte della loro leadership sul Nuovo Continente. E per questo - c’è da temere - potrebbero affidarsi a strategie più “efficaci”.
Anche dopo l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca, la politica estera degli Usa nei confronti dell’America Latina ha continuato a rivelarsi ottusa e aggressiva, senza alcuna differenza sostanziale, se non nella forma, rispetto alle tattiche guerrafondaie dell’era di G.W. Bush. Secondo il politologo statunitense Noam Chomsky, “l’unica differenza tra le amministrazioni passate e quella attuale, è lo stile retorico. Obama è politicamente corretto, si rivolge agli altri governanti come a dei leaders, anche se nei fatti continua a trattarli come dei vassalli degli Stati Uniti”.
Il punto più criticabile della nuova “dottrina Obama” è lo sforzo per accelerare una nuova militarizzazione nell’area latinoamericana, partendo dal rafforzamento delle basi militari in Colombia (con il solito pretesto della lotta al narcotraffico) e dal ripristino della IV Flotta, le cui unità da guerra dall’anno scorso hanno ripreso ad incrociare nelle acque dei Caraibi e dell’Atlantico dopo quasi 60 anni di inattività.
La concessione di 7 basi militari colombiane all’esercito degli Stati Uniti ha trasformato il presidente Uribe, il più fedele alleato della zona, in un luogotenente imperiale. Non si deve dimenticare che questo Paese, nell’ambito del Plan Colombia, ha già accumulato in soli dieci anni aiuti militari per più di 6 miliardi di dollari. Ora, in virtù dei nuovi accordi con la Colombia, il South Command (che comprende tutte le forze statunitensi e congiunte nell’area latinoamericana) può contare su 20 basi militari avanzate; inoltre i suoi soldati godono della tutela di una giurisdizione speciale che non li rende responsabili nei casi di lesa umanità o di abusi ai danni delle popolazione civili.
Come era naturale aspettarsi, alla rinnovata ingerenza militarista degli Usa ha fatto seguito un coro di vibrate proteste da parte di Venezuela, Ecuador, Bolivia, Paraguay, Nicaragua, Argentina, Uruguay e Brasile. Il presidente Lula ha incolpato Uribe di aver trasformato le Ande in una polveriera pronta a scoppiare da un momento all’altro; Correa (Ecuador) ha invece affermato – senza mezzi termini – che il presidente colombiano “ha le mani sporche di sangue” (alludendo all’incursione contro l’accampamento delle FARC, compiuta dalle forze speciali colombiane a Sucumbios, in territorio ecuadoriano, lo scorso anno). Gli altri mandatari si sono invece limitati a far osservare che l’installazione di basi straniere nei loro territori equivale ad una grave violazione della sovranità nazionale.
Di fronte alla decisione nordamericana di rafforzare la presenza militare nella regione andina, un po’ tutti i governi della zona hanno reagito aumentando, a loro volta, le spese in armamenti. Negli ultimi 5 anni - oltre alla già citata Colombia - Brasile, Ecuador, Cile e Venezuela sono stati i maggiori compratori di armi e sistemi di difesa. Il Brasile, in particolare, è la nazione che da sola investe in armamenti circa il 50% della spesa complessiva di tutta l’America Latina. Ma se si analizza questo dato in rapporto al PIL, si scopre che il vero primato spetta ad altri. Sono infatti Colombia e Cile a destinare alle spese militari tra il 3 e il 4% del loro Prodotto Interno Lordo (secondi solo agli Usa, con oltre il 4%); mentre il Venezuela chavista, che colombiani e nordamericani considerano un pericolo per la pace e la stabilità della regione, stanzia “solo” l’1,3% del PIL per la difesa del suo territorio.*
Nel corso degli ultimi mesi la tensione tra Colombia (da una parte) e Venezuela ed Ecuador (dall’altra) è salita alle stelle. Esiste il fondato sospetto che funzionari statunitensi dei servizi di sicurezza cospirino per indebolire il governo di Caracas mediante espedienti diplomatici e militari, come l’infiltrazione di agenti segreti e di unità paramilitari nelle zone di frontiera.
Il mese scorso le autorità venezuelane hanno annunciato la cattura di alcuni agenti del DAS (Dipartimento Amministrativo di Sicurezza, il servizio segreto colombiano), inviati nel Paese limitrofo ad effettuare operazioni di ricognizione e di spionaggio sulle Forze Armate Nazionali Bolivariane del Venezuela. Da parte colombiana (e statunitense), l’intento di queste operazioni segrete potrebbe essere quello di saggiare le difese di confine per prepararsi - all’occorrenza - a scatenare un’offensiva militare contro il Venezuela e i suoi alleati dell’ALBA, la pericolosa ”Alleanza Bolivariana per le Americhe”.
Andrea Necciai


* Fonte: Istituto di Ricerca Internazionale per la Pace di Stoccolma (dati 2007/2008).

venerdì 31 luglio 2009

AL REVES: Honduras, un golpe alla democrazia



Una breve analisi degli avvenimenti, ad un mese dal Colpo di Stato

L’Honduras, con più di sette milioni di abitanti e un tasso di povertà assoluta che raggiunge il 66 per cento della popolazione, è il paese del Centroamerica che più di tutti presenta ancora oggi gravi condizioni di disuguaglianza e di immobilismo sociale. 

1. I fatti
Domenica 28 giugno, il presidente Manuel “Mel” Zelaya Rosales, eletto democraticamente nel 2005, viene prelevato con la forza dalla sua abitazione da un commando militare e “trasferito” in Costa Rica. Ha inizio il colpo di stato in Honduras.
L’ordine di destituire il presidente legittimo era partito dal Congresso Nazionale (il Parlamento honduregno) con il sostegno “legale” della Corte Suprema di Giustizia, entrambi controllati dall’oligarchia economica e dalla classe politica conservatrice che ha ideato e messo in atto il golpe.
Subito dopo, lo stesso Congresso Nazionale  si affretta a nominare un presidente “de facto”, l’ex presidente del Parlamento Roberto Micheletti. Da questo momento in tutto il Paese è decretato lo “stato d’assedio” e imposto il “toque de queda” (coprifuoco), ma soprattutto viene introdotta una sorta di legge marziale che, di fatto, sospende le libertà e i diritti individuali garantiti dalla Costituzione honduregna, aprendo la strada ad una feroce repressione da parte dell’Esercito e delle Forze di Sicurezza nei confronti degli oppositori al nuovo regime.

2. Gli interessi in gioco
Il “pomo della discordia” che ha scatenato la reazione violenta delle classi dominanti honduregne contro il presidente Zelaya è stato il referendum popolare (che avrebbe dovuto svolgersi lo stesso giorno in cui è stato deposto) per decidere se convocare o no l'elezione di un'Assemblea Costituente, un primo passo per avviare una serie di riforme istituzionali ed economiche per far cambiar volto ad uno dei paesi più poveri e disastrati di tutta l’America latina.
Quella per l'Assemblea Costituente sarebbe stata la "quarta urna", una svolta che secondo i sondaggi è voluta da almeno l'85% degli hoduregni, ma indesiderata dalle élite tradizionali, dal sistema dei partiti (incluso quello di Zelaya, il Partito Liberale) dalla Chiesa e dai mass media che in Honduras, come nel resto del continente, sono dominio esclusivo del potere economico. Ma queste compagini non vogliono una nuova Costituzione né - tantomeno - accettano di verificare se la maggioranza della popolazione la desidera.
In questi quattro anni di governo “Mel” Zelaya, membro di una tra le più ricche famiglie di allevatori e candidato per il centro-destra, aveva già fatto abbastanza per inimicarsi i “poteri forti” del suo Paese: l’ingresso nell’ALBA (Alternativa Bolivariana per le Americhe) e la conseguente “sterzata a sinistra” verso l’asse “chavista” con la firma dell’accordo energetico “Petrocaribe”; l’intenzione di convertire in aeroporto civile l’attuale Base militare statunitense di Palmerola (sempre nell’ambito degli accordi dell’ALBA); i decreti esecutivi a favore delle classi meno abbienti (come la legge sull’aumento del salario minimo). Queste ed altre azioni di governo promosse da Zelaya hanno provocato nel tempo una profonda “frattura” con la classe dirigente hoduregna.   

3. I registi del Golpe
Le forze coinvolte o implicate in diversa misura nell’organizzazione e nell’attuazione del Colpo di Stato in Honduras si possono individuare nelle seguenti “aree di interesse”:

Economia
Il Consejo de la Impresa Privada (la Confindustria locale); la FENAGH (l’associazione di latifondisti e allevatori) contraria al miglioramento delle condizioni di lavoro dei braccianti e alla “riforma agraria”; le imprese importatrici di petrolio, danneggiate dall’acquisto di carburanti a basso prezzo dal Venezuela di Chavez (accordi “Petrocaribe”); e poi ancora il settore finanziario (banche ed assicurazioni), industrie farmaceutiche e i mezzi di comunicazione (emittenti televisive e radio di proprietà delle stesse classi dirigenti).

Politica interna
I partiti politici ostili a Zelaya: Democrazia Cristiana, PINU, alcuni settori dello stesso partito del presidente legittimo (il Partito Liberale) come l’ala più conservatrice capitanata da Carlos Flores Facusse, ex presidente della Repubblica.

Altre istituzioni
Altre istituzioni come la Chiesa Cattolica e quella Evangelica, il Ministerio Publico, la Corte Suprema de Justicia e persino il Comisionado Nacional de Derechos Humanos, tutti compromessi con gli interessi dell’ex Presidente della Repubblica Facusse e attuale Presidente dell’Associazione dei Mezzi di Comunicazione.

Multinazionali e corporations straniere
Con il graduale allontanamento del governo honduregno dalle politiche neoliberiste di stampo nordamericano (Trattato di Libero Commercio, Plan Mérida etc…), corporations statunitensi ed altre imprese transnazionali – prima tra tutte la United Brands (ex United Fruit Co/Chiquita), ma pure le spagnole Union Fenosa (energia elettrica) e Movistar (telecomunicazioni) – hanno cominciato a preoccuparsi della minaccia di una possibile “deriva socialista”, a causa delle riforme democratiche e dell’entrata dell’Honduras nell’ALBA.

4. Le Forze Armate honduregne 
Nel periodo degli anni ’60 e ’70 l’Honduras ha conosciuto dittature militari tra le più repressive che nell’arco di due decadi sono confluite nei cosiddetti governi “democratici” degli anni ’80 e ’90 (o meglio nelle “democrature”, come le definisce correttamente Galeano). Tuttavia, l’influenza e il potere della casta militare si sono sempre mantenuti inalterati nel tempo.
Le F.F.A.A. dell’Honduras sono, a tutti gli effetti, una “creatura” del Pentagono. Fanno parte infatti della “Forza Congiunta Bravo” (JTF-B) dell’Esercito degli Stati Uniti, un contingente costituito da effettivi dell’esercito, dell’aviazione, delle forze di sicurezza congiunte (reparti di intelligence e di polizia militare) e dal 1/228 Reggimento dell’Aviazione militare statunitense.
Il leader dei generali golpisti è proprio il Capo di Stato Maggiore della Forza Congiunta, Gen. Romeo Vazquez Velazquez, destituito da Zelaya per aver disobbedito ai suoi ordini (si era infatti rifiutato di provvedere alle operazioni di allestimento dei seggi referendari), mentre il “numero due” è il Gen. Luis Price Suazo, Comandante in Capo dell’Aviazione. Si tratta quindi dei più alti ufficiali in comando, entrambi formati e laureati presso la tristemente nota “Scuola delle Americhe”, l’accademia militare Usa che ha “sfornato”, nel suo mezzo secolo di storia, buona parte dei futuri dittatori dell’America latina (come Pinochet, Rios Montt, DAubuisson, Stroessner etc…) e che ha sede a Fort Benning, nella Georgia.

5. Il ruolo degli Stati Uniti
Al di là delle dichiarazioni iniziali del presidente Obama e della Segretaria di Stato Hillary Clinton, favorevoli al presidente legittimo e malgrado il non-riconoscimento del governo golpista “de facto”da parte dell’ONU, dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) e di tutta la comunità internazionale (con l’eccezione di Israele), “Mel” Zelaya non è riuscito a rientrare nel suo Paese (rischierebbe l’arresto immediato) e a riprendere le redini del governo, mentre esercito e polizia continuano ad attuare una feroce repressione contro i suoi sostenitori rimasti in patria. 
Ufficialmente, la Casa Bianca non ha ancora dichiarato il caso honduregno un “Colpo di Stato”, forse perché questo farebbe scattare la legge del Congresso che prevede la sospensione degli aiuti economico-militari all’Honduras.
Né Obama né la Clinton hanno chiesto ai generali del Pentagono di interrompere i loro rapporti con i generali golpisti, loro sottoposti perché inferiori di grado. E neppure hanno osato richiamare da Tegucigalpa il loro ambasciatore, Hugo Llorens (tra l’altro, un esperto di guerra fredda e di operazioni di controinsorgenza): sarebbe stata la mossa più logica per significare la rottura delle relazioni diplomatiche. Al contrario il Dipartimento di Stato continua a prendere tempo, alla luce del fallimento della mediazione del presidente costaricense Oscar Arias (personaggio assai chiacchierato e “pedina”  degli Usa nella regione), forse con l’obiettivo di arrivare - alla fine - a legittimare il governo di fatto dell’Honduras, una volta terminata questa situazione di stallo che potrebbe durare fino alle prossime elezioni di novembre.
Se Zelaya non potrà più correre, allora i due candidati delle destre si disputeranno il potere con l’avallo dei golpisti e degli Stati Uniti. E addio riforme democratiche…
 Andrea Necciai


“Nessuno deve obbedienza a un governo usurpatore né a coloro che assumano funzioni o incarichi pubblici mediante l’uso della forza oppure usando mezzi che contrastino o disconoscano ciò che questa Costituzione e le sue leggi stabiliscono. Gli atti verificati da tali autorità sono pertanto nulli. Il popolo ha il diritto di ricorrere all’insurrezione in difesa dell’ordine costituzionale”.
Articolo 3 della Costituzione dell’Honduras.

sabato 27 giugno 2009

AL REVES: Bolivia, chi si nasconde dietro ai complotti per rovesciare Evo Morales



La vocazione golpista della “Mezzaluna”

La vittoria del SI al referendum costituzionale di inizio anno ha confermato il sostegno della maggioranza dei boliviani al progetto riformista dell’indio Evo Morales e del suo governo.
La nuova Costituzione ha sancito - per la prima volta - come diritti fondamentali l’acqua, i servizi di base, la salute, l’istruzione e le risorse fondamentali dello Stato. Una novità non da poco, dal momento che tutti questi diritti sono stati fino ad oggi considerati in Bolivia – e, in generale, in tutto il continente latinoamericano – come semplici merci da sottoporre alle regole della domanda e dell’offerta.
Dopo le dure lotte sostenute dagli indios negli ultimi decenni contro l’ignoranza e il razzismo di una società “bianca” arricchitasi grazie ad immense rendite economico-finanziarie, ora finalmente “vengono riconosciute diverse forme di economia, come quella pubblica e comunitaria e non solo quella di mercato. Si garantiscono i diritti collettivi e storici dei popoli originari (quechua ed aymaras), sterminati per 500 anni e trattati come figli minori da governi che esercitavano la legge sui luoghi dove da millenni i popoli indigeni avevano edificato cultura e armonia”. *
Ma il presidente boliviano, che prima del referendum aveva già incassato un altro importante successo elettorale nell’agosto 2008, ottenendo il 63% dei consensi alla riconferma del suo mandato, si trova ancora alle prese con le velleità secessioniste delle ricche circoscrizioni orientali (la cosiddetta “Mezzaluna”), i cui prefetti, spalleggiati dall’oligarchia imprenditoriale, non solo si oppongono al nuovo dettato costituzionale ma continuano a reclamare l’autonomia. Non a caso nella Mezzaluna, macroregione comprendente i dipartimenti di Tarija, Santa Cruz, Beni e Pando (situati a nord e a est del Paese), si concentrano le maggiori ricchezze economiche (imprese e siti produttivi) e grandi riserve energetiche e naturali (acqua, gas e idrocarburi), da decenni oggetto di sfruttamento selvaggio da parte dei governi corrotti e delle compagnie multinazionali.
Dal gennaio del 2006, anno in cui Morales ha assunto l’incarico presidenziale, l’azione delle forze dell’opposizione non si è affatto limitata alle critiche o all’ostruzionismo politico, nella logica del confronto civile, ma è stata spesso condotta con mezzi illegali e violenti. Grazie al lavoro della magistratura boliviana, che sta indagando sul conto di alcune organizzazioni paramilitari, è stata recentemente scoperta una cospirazione per destabilizzare l’attuale governo in carica, con la complicità di alcuni influenti “attori” internazionali.
Tutto ha inizio il 16 aprile quando in un lussuoso hotel di Santa Cruz (nell’omonimo distretto) tre sospetti malviventi sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia locale. Qualche ora più tardi, nei magazzini della fiera campionaria che si tiene della stessa città, la Fexpocruz, la polizia scopriva un nascondiglio di armi ed esplosivi, impiegati con ogni probabilità per compiere attentati.
A capo della cellula terrorista c’era Eduardo Rozsa Flores, uno degli uomini morti nella retata dell’hotel. Membro del partito ungherese neonazista “Jobbik”, Rozsa prestò servizio nelle milizie croate durante la guerra nella ex Iugoslavia, prima di essere assunto sotto falsa identità dall’impresa COTAS (Cooperativa Telefonica di Santa Cruz), di proprietà di vari dirigenti del Comitato Civico Pro Santa Cruz (uno dei più accaniti gruppi separatisti) e dell’organizzazione razzista Nación Camba.
Alcuni giorni dopo la sua morte, la stampa rendeva pubblica un’intervista nella quale Rozsa dichiarava che “il Consiglio Dipartimentale di Santa Cruz ha deciso la creazione di un corpo di sicurezza regionale [milizia armata, ndr]” e in un’altra aggiungeva “dichiareremo l’indipendenza e creeremo un nuovo Paese!”. Secondo altre fonti, questo mercenario di origine magiara avrebbe mantenuto strette relazioni con alti funzionari della sede boliviana dell’ente newyorkese “Human Right Foundation” (HRF) e con alcuni delegati dell’organizzazione di estrema destra “UnoAmérica”.
Di recentissima creazione la UnoAmérica, formata da militari ultranazionalisti e da paramilitari provenienti da El Salvador, Colombia, Argentina e Venezuela, riceve sostanziosi finanziamenti dall’Agenzia Internazionale per lo Sviluppo (USAID) e dal National Endowment of Democracy (NED), lo stesso ente nordamericano che sostiene dal 2005 anche il Comitato Civico Pro Santa Cruz. Secondo la studiosa Eva Golinger, dal 2002 USAID avrebbe destinato ben 97 milioni di dollari ai gruppi della destra autonomista boliviana, per il finanziamento di programmi atti a favorire la “decentralizzazione” (o meglio, la “balcanizzazione”) del paese andino. Il presidente di UnoAmérica è Alejandro Peña Esclusa, un politico venezuelano antichavista che alle ultime elezioni politiche tenutesi nel suo paese ha ottenuto 2.424 voti, pari allo 0,04%.
Sul conto della HRF, conosciuta per i suoi legami con la CIA, si può osservare come dal 2005 (anno della fondazione) questo ente “benefico” abbia cominciato ad interessarsi seriamente alla realtà sociale (e politica) latinoamericana tanto da creare nuove filiali in Bolivia (2007), Ecuador (2008) e prossimamente, secondo quanto ammesso dagli stessi dirigenti, anche in Nicaragua.
Solo pochi mesi fa, l’interferenza degli Usa negli affari interni della Bolivia e la loro complicità nel fomentare la secessione dei dipartimenti “ribelli” aveva indotto il governo di La Paz ad espellere dal paese l’ambasciatore statunitense Philip Goldberg, un vero e proprio esperto di “balcanizzazione” avendo lavorato dal 1994 al 1996 in Kosovo. Evidentemente, buttare giù il governo di Evo Morales non è solo l’obbiettivo dell’oligarchia della “Mezzaluna”.

Andrea Necciai


Note:
* “Ecuador e Bolivia: la natura nella Costituzione” di Giuseppe De Marzo, in “Latinoamerica” n°105 (04/2008).

giovedì 30 aprile 2009

AL REVES: il FMLN vince le elezioni presidenziali in Salvador



La sconfitta della paura
 
Dopo due decenni di guerra civile e di governi dispotici, in Salvador il bastione di una delle oligarchie più reazionarie dell’intero continente latinoamericano si è finalmente sgretolato. Alle elezioni presidenziali tenutesi il mese scorso il candidato del Fronte Farabundo Martì (FMLN), Mauricio Funes, si è imposto con il 51% dei suffragi sul candidato della destra nazionalista dell’Alleanza Repubblicana Nazionalista (ARENA), espressione di un regime ventennale solo formalmente “democratico” ma nella sostanza repressivo e sanguinario.

La storica affermazione elettorale del FMLN, il partito nato dalla guerriglia che negli anni 80 e 90 seppe tener testa al più potente e meglio armato esercito salvadoregno, testimonia che il Salvador è finalmente riuscito a “vincere la paura”. La paura delle possibili rappresaglie di Washington in caso di una svolta “a sinistra” di questo piccolo Paese dove 2 milioni di lavoratori emigrati negli Stati uniti contribuiscono attraverso le loro “remesas” in denaro a tenere a galla la sua fragile economia; ma soprattutto la paura di non farcela, anche questa volta, a vincere il confronto elettorale con ARENA, dopo le precedenti “sonore” sconfitte segnate da brogli clamorosi e da campagne di terrore montate dall’oligarchia salvadoregna, sempre con il supporto finanziario e propagandistico degli Stati uniti.

La vittoria della sinistra salvadoregna giunge nel momento in cui in tutta la “Patria grande” soffiano venti di cambiamento. Trascinate dall’esempio del Venezuela di Hugo Chavez e dal suo progetto di  “Alternativa Bolivariana per le Americhe” (ALBA), che parla finalmente di autonomia e di integrazione per tutti i Paesi dell’America latina, le forze progressiste guadagnano terreno ora anche in Centroamerica, da sempre considerato il “cortile di casa” degli Stati uniti, vale a dire terra di sfruttamento, di golpes e di “repubbliche delle banane” amministrate dai soliti dittatori-fantoccio.

L’affermazione del FMLN è anche il frutto di un ventennio di lotte che ebbero il loro apice tra il 1980 e il 1992, l’epoca del conflitto armato che provocò almeno 75.000 vittime tra combattenti e civili, e che vide parte della popolazione imbracciare le armi come estremo gesto di ribellione alla miseria e alle ingiustizie sociali.

Dopo la firma degli Accordi di Pace del 1992, il FMLN è diventato per tutti i Paesi dell’area un solido punto di riferimento per la lotta contro le politiche neoliberiste, miranti a facilitare la privatizzazione di imprese e servizi sotto l’egida dei governi filoamericani e sotto la protezione degli apparati di sicurezza locali. In questa difficile tappa i dirigenti e i militanti farabundisti, nonostante molti dissidi interni ed alcuni errori strategici, hanno saputo sviluppare un’indubbia maturità politica e, dopo aver subito non poche batoste elettorali, sono infine riusciti a rafforzare il loro legame con le fasce più deboli della popolazione, sostenendone istanze e diritti.

Così, dopo i successi alle ultime elezioni amministrative dello scorso gennaio, il FMLN centra finalmente l’obiettivo delle Presidenziali e si propone come nuova forza di governo per il prossimo quinquennio. Il presidente eletto Mauricio Funes, che inizierà il suo mandato a giugno, si impegnerà a mettere in pratica un ambizioso programma frutto di mesi di consultazioni con le basi popolari e con gli altri settori della società salvadoregna. Il progetto di Funes è incentrato sulla “responsabilità dello Stato nell’assicurare il diritto del popolo all’istruzione, alla salute, alla cultura, al cibo e alla parità dei sessi; anche l’economia sarà orientata al conseguimento di questi obbiettivi. Nel suo programma si legge chiaramente la volontà di rivendicare i diritti delle popolazioni indigene, la priorità della creazione di nuovi posti di lavoro grazie al sostegno alle piccole e medie imprese, la ferma opposizione a nuove privatizzazioni nel settore dei servizi pubblici e la lotta alla corruzione.”*

Realizzare tutti questi propositi richiederà uno sforzo straordinario in termini di mobilitazione di tutte le parti sociali, ma anche – e soprattutto – di negoziazione con le altre forze politiche e imprenditoriali. Un’altra debolezza è rappresentata dal fatto che il FMLN non possiede la maggioranza in parlamento (cosa che potrebbe, in taluni casi, mettere a rischio la governabilità del Paese). Per di più la destra, sebbene sia uscita sconfitta dalle elezioni, è ancora in grado di “influenzare” il sistema giudiziario e mantiene saldamente il controllo delle Forze armate, della Polizia e di gran parte degli apparati burocratici statali. A tutto ciò si deve aggiungere che l’economia del Salvador dipende quasi totalmente da quella statunitense - a causa dei Trattati di Libero Commercio imposti sotto le ultime legislature di ARENA - e dalle “rimesse” dei lavoratori emigrati negli States.

Il compito è davvero improbo, in una realtà dove la miseria, la disuguaglianza e la violenza, vale a dire le tre maggiori piaghe del “Pollicino d’America”, rappresentano i veri nemici da combattere. Il popolo salvadoregno ha scelto per il cambiamento, ora tocca al nuovo governo fare la sua parte.

Andrea Necciai


Note
* Da “El Salvador: la esperanza venció al miedo” – La Jornada, Angel Guerra.