domenica 3 dicembre 2023

[IRAN] La lettera del Nobel dal carcere «Perché il mondo resta impassibile?»


Il 10 dicembre non sarà a Oslo, a ricevere il premio Nobel per la pace. Nella storia, era successo solo altre tre volte che il vincitore fosse impossibilitato perché in carcere. Dopo quella del tedesco Von Ossietzky (1935), della birmana Aung San Suu Kyi (1991) e del cinese Liu Xiaobo (2010), sarà la sedia vuota dell’iraniana Narges Mohammadi, anche lei in prigione come i suoi tre predecessori, a segnare la celebrazione. « Non potrà uscire dal carcere di Evin», conferma dall’Italia il movimento Donna Vita Libertà, nato sulla scia dello sdegno per la morte, nel settembre 2022, della giovane Mahsa Amina, arrestata e picchiata perché portava male il velo. Narges non potrà volare in Norvegia non solo perché il regime degli ayatollah, a dispetto dell’invito della presidente del Comitato di Oslo, Berit Reiss Andersen, a « prendere la giusta decisione», non sembra avere la minima intenzione di rilasciarla, ma anche perché le sue condizioni di salute sono precarie. 

Narges Mohammadi, 51 anni, giornalista, scrittrice, attivista per i diritti umani, arrestata 13 volte e condannata 5 per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate a causa del suo impegno per la libertà del popolo iraniano e in particolare delle donne, soffre di gravi patologie cardiache. Nei giorni scorsi le autorità, dopo ripetuti dinieghi perché la prigioniera rifiutava di coprirsi la testa con il velo, l’hanno trasportata in ospedale, ma dopo alcuni veloci esami l’hanno riportata in carcere. « È in pericolo di vita, la sua stessa esistenza è sotto il ricatto di un regime dispotico che le vieta cure adeguate», dice ad Avvenire Parisa Nazari, attivista del Movimento italoiraniano Donna Vita Libertà. 
Alla vigilia della consegna del premio Nobel per la pace, Narges è riuscita comunque a far uscire una sua lettera dal carcere di Evin, a Teheran, che Avvenire ha potuto leggere, in cui si dichiara « profondamente scioccata per il modo in cui il mondo assiste impassibile al massacro e alle esecuzioni del popolo iraniano». La stretta del regime degli ayatollah è impressionante: nei giorni scorsi è stato impiccato l’ottavo manifestante del movimento Donna, Vita, Libertà, Milad Zohrehvand; 24 ore dopo è toccato a un ragazzo di 17 anni. « La macchina delle esecuzioni – scrive Narges – ha accelerato in tutto il Paese (…) È la guerra del regime contro il popolo iraniano oppresso, indifeso e in rivolta».
L’attivista in carcere esprime «grande dolore » per il silenzio del mondo davanti a questa strage: «Che tragica morte è quella nell’oscurità della notte». E poi dalla cella di Evin alza il suo grido: «Chiedo all’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani di intraprendere un’azione urgente e decisiva in nome dell’umanità per fermare le esecuzioni in Iran ».

Un appello che viene rilanciato dalle attiviste iraniane che nel nostro Paese portano avanti il movimento Donna Vita Libertà: al governo italiano e alla Commissione Europea chiedono di fare pressioni sul regime degli ayatollah perché fermino il boia e perché rilascino la premio Nobel. L‘appello è stato già sottoscritto da Maurizio Landini (Cgil), Elly Schlein (Pd) oltre che dalla Casa internazionale delle Donne e da Amnesty. « Il rifiuto delle autorità iraniane di consentire a Narges di ritirare il premio – dichiara Riccardo Noury, portavoce di Amnesty in Italia - e l’ostinazione con cui la tengono in carcere nonostante le precarie condizioni di salute dovrebbero suscitare scandalo e indignazione a livello mondiale. Ogni giorno in più in carcere è un insulto ai diritti umani e un pericolo per la sua vita».
Su questo fronte si registra una ampia mobilitazione: a quella ormai “storica” di Amnesty, si è aggiunta una petizione di Pen International, l’associazione degli scrittori che annovera la Premio Nobel come membro onorario. Decine di intellettuali – da Salman Rushdie a Arundhati Roy - hanno firmato l’appello perché Teheran consenta alla donna di riunirsi al marito e ai suoi due figli, che non vede da 8 anni, e di volare a Oslo il 10 dicembre «dove il suo lavoro giustamente sarà onorato ». 
Ma le speranze sono davvero poche.

Antonella Mariani
Avvenire 03.12.23 


venerdì 3 novembre 2023

All'Iran la presidenza del Forum sociale del Consiglio dei Diritti Umani ONU

Giovedì è toccato all’Iran presiedere il Forum sociale 2023 del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite (Unhrc) che si svolge a Ginevra fino al 3 novembre. La scelta di nominare Ali Bahreini, ambasciatore della Repubblica islamica e rappresentante permanente presso le Nazioni Unite, non è passata inosservata e ha scatenato una campagna di protesta internazionale da parte degli attivisti per i diritti umani ma anche da parte del mondo politico. Il contesto internazionale in seguito all’attacco del 7 ottobre di Hamas a Israele aggiunge benzina sul fuoco.
Rispondendo a un’interrogazione dell’Europarlamentare della Lega e del gruppo Identità e Democrazia, Gianna Gancia, che parlava “di uno schiaffo in faccia” data la situazione dei diritti umani della maggior parte degli iraniani, in particolare delle donne, “e le ripetute esecuzioni a seguito delle proteste in corso nel paese”, l’Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell si era difeso sottolineando a fine luglio che la nomina di Bahreini era legata ad una questione di rotazione regionale “in linea con le procedure stabilite delle Nazioni Unite” e ribadendo che l’Ue ha intrapreso “azioni diplomatiche per condannare fermamente le violazioni dei diritti umani da parte delle autorità iraniane e la repressione dei manifestanti da parte delle autorità iraniane all’indomani della morte di Mahsa Amini in custodia della polizia”.

L’Ong Un Watch, l”organizzazione non governativa con sede a Ginevra la cui missione dichiarata è ‘monitorare le prestazioni delle Nazioni Unite sulla base della propria Carta’, contesta la linea di Borrell spiegando che “il gruppo asiatico, a cui appartiene l’Iran, ha ricoperto la posizione quattro volte negli ultimi sei anni, negando rotazioni a diversi altri gruppi regionali”. La nomina dell’Iran, sostiene il direttore esecutivo dell’Ong, Hillel Neuer, “può essere annullata da una riunione speciale del Consiglio prima di giovedì”. La campagna di protesta di Un Watch è accompagnata da una petizione globale che è stata firmata da oltre 90 mila persone che chiedono all’Onu di recovare la presidenza iraniana del forum sociale.
“Chiediamo al signor Borrell di agire. È tempo che tutte le democrazie alle Nazioni Unite smettano di legittimare regimi assassini, in violazione dei principi fondanti dell’organismo mondiale, e inizino invece a chiamare i responsabili a risponderne”, spiega ancora Neuer. “Il regime omicida di Teheran è responsabile di un’impennata delle esecuzioni, applicate in modo sproporzionato alle minoranze, e dell’oppressione di donne e ragazze. La recente morte della sedicenne Armita Geravand, dopo essere stata aggredita in metropolitana dalla polizia morale iraniana per non aver indossato l’hijab obbligatorio, ci ricorda che si tratta di un regime crudele che non appartiene a nessun organismo delle Nazioni Unite per i diritti umani, figuriamoci come presidente”.
Per Neuer “è inimmaginabile che giovedì al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il rappresentante dell’ayatollah Khamenei terrà il martelletto, al fianco dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volcker Turk”. “Questa scelta invia il messaggio sbagliato al momento sbagliato, consentendo alla Repubblica islamica dell’Iran – che sponsorizza le atrocità di Hamas – di pavoneggiarsi sulla scena internazionale come un attore rispettato e influente”.

Il Centro per i Diritti Umani in Iran (Chri) a maggio aveva accolto la nomina di Bahreini considerandola un “oltraggio” e chiedendo l’immediato ritiro. “La nomina di un funzionario iraniano a presiedere un organo dell’Unhrc, mentre il Consiglio sta indagando sul massacro di centinaia di manifestanti pacifici da parte della Repubblica islamica, riflette una scioccante cecità etica”, aveva affermato Hadi Ghaemi, direttore del Chri.
Il Social Forum 2023 dell’Unhrc si concentrerà sul contributo della scienza, della tecnologia e dell’innovazione alla promozione dei diritti umani, anche nel contesto della ripresa post-pandemia. “Date le gravi violazioni dei diritti umani della Repubblica islamica e la sua gestione catastrofica e politicizzata della pandemia di Covid-19, in cui il suo rifiuto di importare vaccini occidentali è costato centinaia di migliaia di vite, è inspiegabile che il presidente di turno dell’Unhrc, l’ambasciatore ceco Vaclav Balek scelga l’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite”, aveva sottolineato il Chri.
Anche l’europarlamente Gancia aveva evidenziato “la gestione catastrofica e politicizzata della pandemia di Covid-19” da parte dell’Iran, “quando il suo rifiuto di importare vaccini occidentali è costato centinaia di migliaia di vite”. (Adnkronos)

giovedì 5 ottobre 2023

[IRAN] Ancora polizia morale

Ridotta in fin da vita dalla polizia morale iraniana perché non indossava il velo. 
Sta facendo il giro del mondo il caso di Armita Garawand, una giovane di origini curde di 16 anni, che sarebbe stata attaccata dalle forze dell'ordine del regime mentre si trovava in metropolitana a Teheran senza indossare l'hijab. Il caso, denunciato dalle organizzazioni di resistenza iraniane e diffuso dall'organizzazione norvegese per i diritti umani Hengaw, ricorda molto il caso di Mahsa Amini, la giovane donna che lo scorso anno ha perso la vita dopo essere stata arrestata perché non indossava correttamente il velo.
Armita proviene dalla città di Kermanshah, nell'Iran occidentale popolato prevalentemente da curdi, ma attualmente è residente a Teheran. Secondo Hengaw, attenta alle questioni del popolo curdo, la giovane è stata vittima di "gravi abusi fisici" da parte della polizia morale nella metropolitana. L'incidente sarebbe stato causato da una violazione del rigido codice di abbigliamento islamico, che questa estate è stato rafforzato con pene più severe. Sempre secondo l'organizzazione norvegese, la studentessa liceale si trova attualmente in coma e sotto sorveglianza in un ospedale militare. I media locali sostengono invece che la ragazza è stata portata in ospedale dopo aver perso conoscenza in metropolitana a causa della "pressione bassa" e per "aver sbattuto la testa contro una sbarra di metallo". I suoi amici l'hanno fatta scendere dal treno e hanno chiamato i servizi di emergenza.


I media statali hanno diffuso un breve video del servizio di sorveglianza della stazione della metropolitana che mostra un gruppo di donne che estraggono da un vagone della metropolitana una persona priva di sensi. Secondo le accuse, non si tratterebbe di amici della giovane, ma di poliziotte. Secondo due fonti, riportare dal sito IranWire, la giovane donna è ricoverata ora sotto stretta sicurezza presso l'ospedale Fajr di Teheran, è in coma e "al momento non sono consentite visite alla vittima, nemmeno da parte della sua famiglia". A seguito dell'incidente la giornalista Maryam Lotfi, del quotidiano Shargh, si è recata presso l'ospedale nel tentativo di visitare la ragazza, ma è stata immediatamente arrestata, per essere in seguito rilasciata. Sui social media si è scatenata un'ampia discussione su un presunto video dell'incidente che secondo alcuni mostra l'adolescente, con gli amici e apparentemente senza velo, mentre viene spinta nella metropolitana da agenti di polizia donne. Masood Dorosti, amministratore delegato della metropolitana di Teheran, ha negato che ci sia stato "qualsiasi conflitto verbale o fisico" tra la studentessa e "i passeggeri o i dirigenti della metropolitana". "Alcune voci su uno scontro con gli agenti della metropolitana... non sono vere e le riprese delle telecamere a circuito chiuso smentiscono questa affermazione", ha detto Dorosti all'agenzia di stampa statale Irna. Siti di opposizione al regime accusano le autorità di stare insabbiando il caso per evitare una nuova ondata di proteste, dopo quelle esplose nel paese dopo la morte di Mahsa Amini, avvenuta mentre era in custodia presso la polizia morale di Teheran.
(Today.it)

sabato 3 giugno 2023

Siamo tante e non abbiamo paura, la dittatura morde ma ha le ore contate

Se siamo vive? Se, pur non andando più in piazza tutti i giorni, noi iraniane e i compagni che resistono al nostro fianco siamo ancora vivi? Certo che lo siamo, la rivoluzione ha cambiato forma ma continua. 

L'ultima volta che l'ho toccato con mano è stato mercoledì sera, saranno state le dieci, l'aria era calda, appiccicosa. Dovevo prendere la metropolitana che da Teheran mi riportava a casa, a Karaj, ma ero in ritardo e l'ho persa. Così sono rimasta tre quarti d'ora ad aspettare il treno successivo. E il futuro era lì, sulla banchina. Gruppi colorati di giovani cantavano allegri, tante ragazze come me non indossavano l'hijab, non si respirava paura né tensione, nonostante la repressione continui a decimarci. I mercenari della Repubblica islamica, con il solito sguardo torvo e la mano sullo sfollagente, sorvegliavano la scena a distanza, senza intervenire, quasi rassegnati. E' la nostra nuova dimensione, la messa a terra di "Donna, vita, libertà", la rivoluzione che è uscita dalle piazze e ha invaso il quotidiano. Non saprei quasi più dire bene come fosse fino a un anno fa, prima dell'assassinio di Mahsa Amini e dei giorni della rabbia. Se parlo con le mie amiche, nessuna oggi pensa più che sia possibile tornare indietro, che il regime riesca a rimettere l'hijab a tutte noi, imbavagliandoci di nuovo come se nulla fosse successo. Siamo tante, troppe, siamo come gli uomini e non abbiamo paura di quelli di loro che anziché sostenerci ci minacciano. 

Se è troppo presto per cantare vittoria? Lo è. Purtroppo lo è. Il regime ha capito di avere le ore contate e sta rispondendo con l'artiglieria pesante, tanto su fronte esterno che su quello interno. Da una parte ha intrecciato alleanze vecchie e nuove con i peggiori dittatori, a cominciare dalla Cina e dall'Arabia Saudita, per fare fronte comune contro quell'occidente al cui sistema valoriale ci ispiriamo noi, i ribelli. Dall'altra stringe la morsa sugli attivisti. Ci sono arresti ogni giorno, e ci sono condanne a morte. Il caso delle due giornaliste che per prime hanno raccontato la fine di Mahsa Amini, Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi, è in mano al Tribunale Rivoluzionario e questa è una forzatura giuridica fuori misura perfino per la distorta legislazione della Repubblica islamica che, di norma, affida le procedure contro la stampa ai magistrati ordinari e non chiama a rispondere i cronisti bensì i direttori o gli editori. Niloofar e Elaheh sono simboli, per questo si trovano in stato di detenzione temporanea da quasi otto mesi laddove sarebbero previste al massimo 48 ore. E poi ci sono tutte le altre, violate, accecate, umiliate pubblicamente. E tutti gli altri. Quelli ammazzati, come Majid Kazemi, Saleh Mirhashemi e Saeed Yaghoubi, i tre giovani attivisti impiccati due settimane fa a Isfahan perché giudicati colpevoli di "guerra contro Dio", e prima di loro Mohammad Mehdi Karami, Seyed Mohammad, Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard. E ci sono quelli che aspettano il loro turno sulla forca, come Mohammad Ghobadloo. Ho visto in questi mesi scene che non avrei immaginato possibili, coraggio, violenza, solidarietà, incoscienza, resilienza e poi, nonostante il sangue, noi che andavamo avanti senza cadere e toglievamo l'hijab e continuavamo ad andare avanti. Avevo undici anni nel 2009 e, sebbene bambina, ricordo intorno a me l'entusiasmo, il sospetto, il terrore, la depressione. Ci ho ripensato tanto quando abbiamo cominciato a protestare, alla fine dello scorso settembre, mi chiedevo quanto ci sarebbe voluto perché l'onda ci travolgesse, lo slogan "Donna, vita, libertà" si strozzasse in gola e provassimo quello che avevano provato le nostre sorelle maggiori. L'abbiamo provato ma siamo qui. Da quando non indosso più l'hijab in strada ad ogni passo che faccio avverto lo sguardo della polizia sulle spalle ma non mi volto. 

*Mahin, 

nome di fantasia di una storia vera raccolta da Francesca Paci su LaStampa

martedì 9 maggio 2023

Patrick Zaki. Nuovo, ennesimo rinvio

«Decima udienza, non perdiamo la speranza», aveva scritto questa mattina in un post su Facebook Patrick Zaki auspicando una «fine del continuo stato di attesa. Devo discutere la mia tesi di laurea all’università di Bologna a metà luglio, e quello è il giorno più importante per ogni studente di master in generale, e per me in particolare».
«È difficile per me completare i miei studi; ma con l'aiuto dell'università e della professoressa, sono riuscito a finire la maggior parte degli esami del master», ha aggiunto lo studente egiziano accusato di aver pubblicato notizie false. «Spero che quando arriva giugno sarò a Bologna, tra i miei colleghi, a festeggiare la fine della mia tesi magistrale come una persona normale».

Nonostante la scarcerazione avvenuta l’8 dicembre del 2021 dopo quasi due anni di detenzione, Patrick Zaki rimane imputato «per «diffusione di notizie false e diffusione di terrore tra la popolazione» riguardo a un articolo pubblicato nel 2019 sui cristiani copti in Egitto perseguitati dall’Isis e discriminati da frange della società musulmana. Il processo però è ancora in corso ma ogni volta le udienze vengono rinviate. Una strategia sistemica adottata dal governo egiziano contro detenuti politici, giornalisti e attivisti scomodi al regime.
Il prossimo appuntamento è stato fissato al 18 luglio dopo che nel tribunale di al Mansoura il giudice titolare del processo oggi ha deciso di non presentarsi. A comunicarlo è lo stesso studente egiziano dell’università di Bologna, che è stato rilasciato dal carcere l’8 dicembre del 2021.

«Processo Zaki: stamattina il giudice non si è neanche presentato. Ora Patrick resta in attesa che qualcuno gli dica cosa succederà. Un'ennesima prova del disprezzo per i diritti umani da parte della magistratura egiziana», ha scritto Amnesty International Italia su Twitter.
Sul caso è intervenuto anche il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury: «Il fatto che il giudice neanche si sia presentato, oggi, per la decima udienza del processo è un segno di gradasso disprezzo per i diritti umani da parte della magistratura egiziana. Siamo di fronte a un altro rinvio abnorme di oltre due mesi. Patrick trascorrerà il suo 32º compleanno, il quarto consecutivo, ancora privo della completa libertà. La sua speranza di poter tornare a Bologna, a metà luglio, per prendere finalmente la laurea svanisce anche questa volta. È un accanimento assurdo del quale bisogna che le istituzioni italiane chiedano conto al governo del Cairo».


venerdì 31 marzo 2023

[IRAN] appello

Al segretario generale delle Nazioni Unite
Allo Special Rapporteur sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie
Al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Ecosoc)
Al Parlamento europeo

Rivolgiamo
il nostro accorato appello a che si intervenga con estrema urgenza e con azioni concrete sulla tragedia dell’annientamento della libertà e dei diritti umani civili e politici in atto nella Repubblica islamica dell’Iran.

Lì, con feroce oscurantismo, anche in queste ore, si annientano i diritti fondamentali e il diritto delle donne a disporre della propria libertà e del proprio inviolabile corpo.

Dal 16 settembre larghi strati della popolazione iraniana stanno manifestando in ogni angolo del paese, con grande coraggio, al grido di “Donne, Vita, Libertà”, il loro dolore, la loro rabbia, il loro orgoglio; manifestano in maniera del tutto pacifica contro la violenza di un regime responsabile della morte della giovane ventiduenne iraniana Mahsa Amini, massacrata di botte dalla “Gasht-e Ershad”, la cosiddetta “polizia morale” di Tehran dopo essere stata arrestata per aver osato mostrare una ciocca dei propri capelli.

Sono già centinaia le vittime colpite dalla feroce repressione in corso dal 16 settembre e migliaia sono gli arresti di donne e uomini poi sottoposti a detenzioni arbitrarie e a torture per aver manifestato contro l’obbligo per le donne di indossare l’hijab come prescritto dalle oscure leggi islamiche vigenti.

Secondo l’Iran Human Rights con sede a Oslo, almeno 76 persone (purtroppo il dato è in continuo aggiornamento, NdR) sono state uccise da colpi d’arma da fuoco delle forze di sicurezza iraniane.

L’hijab è lo strumento che il regime usa per controllare e sottomettere le donne e, nel contempo, l’insieme della società iraniana.

Poco dopo la sua elezione, il presidente dell’Iran, Ibrahim Raisi, il 15 agosto 2022, ha firmato un decreto imponendo una nuova serie di restrizioni ai costumi delle donne, l’osservanza delle quali è controllata da telecamere di videosorveglianza installate in ogni angolo delle strade delle principali città iraniane. Le trasgressioni vengono punite con pesanti sanzioni e pene detentive.

Condannare e colpire con durezza e intransigenza la barbarie di questo regime che da un antro buio della storia pretende di oscurare la civiltà umana, con la sua espressione e valorizzazione suprema del diritto naturale storicamente acquisito di ciascun individuo alla libertà e alla democrazia, significa salvaguardare quella stessa civiltà in Europa e in tutto il mondo.

Significa dunque salvare la suprema espressione della vita umana, quella autenticamente religiosa che aborrisce ogni forma di violenza nel segno, appunto, nella nonviolenza, dell’amore e del dialogo.

Per questi motivi

Chiediamo che ognuno dei soggetti in indirizzo intervenga, per quanto di propria competenza, presso il Governo iraniano per porre fine alla repressione in atto e per sanzionare i responsabili di questi odiosi crimini.

In difetto di risposta positiva entro un termine congruo, si invita la comunità internazionale a considerare complici dei responsabili anche i decisori politici iraniani che si dimostrano incapaci o non desiderosi di impedire le violenze.



PER SOTTOSCRIVERE L'APPELLO
Clicca qui (Partito Radicale)

venerdì 10 marzo 2023

[IRAN] Donna, vita, libertà

L' Associazione Culturale Italia-Iran di Torino, in collaborazione con il MAU - Museo di Arte Urbana, ha organizzato la mostra
 
Donna, Vita, Libertà:
Sette artiste iraniane

 
che verrà inaugurata sabato 11 marzo alle 16:00 presso la Casa del Conte Verde a Rivoli, Via Fratelli Piol 8.
La mostra è un omaggio a chi ha lottato in passato, ai/alle caduti/e della libertà negli ultimi quattro decenni e a chi sta lottando tuttora rischiando la propria vita.

La mostra è patrocinata da: Regione Piemonte, Consiglio Regionale del Piemonte, Comitato Regionale per i Diritti Umani e Civili,
Città Metropolitana di Torino, Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà.


La mostra sarà aperta al pubblico dall'11 marzo al 8 aprile 2023


Il 16 settembre 2022 si è aperto un nuovo capitolo nella storia politica e sociale dell’Iran. La morte tragica di Mahsa (Jina) Amini ha unito tutte le forze dell’opposizione non solo in Iran ma anche all’estero. La storia contemporanea dell’Iran è colma di pagine buie, di giovani che non hanno temuto il regime dittatoriale e hanno lottato fino all’ultimo. La memoria è un atto di resistenza. Noi non siamo indifferenti e vogliamo ricordare per sempre i volti e le storie di chi ha combattuto per una società libera ed equa. In questa battaglia l’Arte ha sempre avuto un ruolo importante per dare voce a chi non l’ha mai avuta e di gridare al posto dei caduti.

La mostra “Donna, Vita, Libertà. Sette artiste iraniane” è un omaggio a chi ha lottato in passato, ai/alle caduti/e della libertà negli ultimi quattro decenni e a chi sta lottando tuttora rischiando la propria vita.
 
 
 
 
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ogni giorno un'artista in esposizione,
oggi vi presentiamo Bahar Heidarzadeh.

Bahar Heidarzade nasce a Teheran nel 1981, pochi anni dopo la Rivoluzione che impone al popolo iraniano il passaggio dalla monarchia alla Repubblica islamica sciita. Di carattere introverso e taciturno, sin da piccola preferisce esprimere i propri sentimenti e sensazioni attraverso l'arte, la pittura e il disegno, cosa che continua a fare tutt'oggi. Già adolescente, sogna la fuga da quel Paese che impone un ruolo limitato soprattutto della figura femminile e ne limita la libertà di espressione, ma non le è permesso andarsene. Si iscrive così all'Università frequentando un corso di studi d'Arte, senza poter mai realmente esprimere la propria creatività e adeguando la produzione ai dictat del governo attraverso una pittura prettamente figurativa. Nel tentativo di esprimere le proprie idee e rivendicare la perduta identità femminile delle donne iraniane, viene più volte arrestata anche solo per il suo modo di vestire, truccarsi o indossare l'hijab lontano dalle convenzioni.
Nel 2013 si trasferisce a Torino: la scelta ricade su questa città non troppo caotica e vicina a quelle montagne che tanto le ricordano la sua infanzia. Frequenta l'Accademia Albertina con indirizzo pittura prima e scultura poi per ampliare le sue conoscenze dei diversi linguaggi espressivi: è nella città sabauda che inizia a ideare e realizzare, oltre a tele, anche performances e installazioni che trova particolarmente idonee per la condivisione del suo impegno politico. Da nove anni non torna in Iran, dove potrebbe rischiare l'arresto o sparire come già successo a tanti suoi connazionali.
 

domenica 12 febbraio 2023

Regeni, il processo non si farà

Al rientro dalla sua visita al governo egiziano, il ministro degli Esteri Tajani si è detto rassicurato dal presidente al-Sisi sulla disponibilità a collaborare alle indagini sulle torture e sull'uccisione di Giulio Regeni nel gennaio 2016. Sono passati sei anni e la collaborazione non c'è mai stata. Ci sono invece stati sviamenti e rifiuti, fino a che la Procura generale egiziana ha dichiarato che non c'è più nulla da fare per identificare i responsabili e che il procedimento in corso in Italia è privo di basi. Le indagini in Italia si sono svolte tra enormi difficoltà, ma hanno portato comunque la Procura della Repubblica di Roma a identificare alcuni funzionari di uno dei Servizi di sicurezza egiziani, che sono stati rinviati a giudizio davanti alla Corte d'Assise. Ma il processo non ha potuto aver luogo perché non è stato possibile notificare l'atto di accusa agli imputati in Egitto, con la data e luogo dell'udienza e gli avvisi stabiliti dalla legge. Una impossibilità che deriva dall'ostruzionismo delle autorità egiziane, insuperabile da parte italiana. Ora la Corte di cassazione ha confermato che senza quelle notificazioni agli imputati non è possibile in Italia procedere al giudizio, che deve svolgersi secondo le regole del giusto processo stabilite dalla legge in uno Stato di diritto.

Poiché le rassicurazioni di cui il ministro degli Esteri si è fatto portavoce non hanno alcuna credibilità, è molto probabile che quel processo, "che non s'ha da fare", effettivamente non si faccia mai. Vi sono in Italia i genitori di Giulio Regeni che fin da subito si battono perché la verità venga accertata in giudizio. Vi è anche un generale diritto alla verità, che è stato riconosciuto a livello internazionale, in casi gravi come quello di cui Regeni è stato vittima. Il governo italiano è tenuto a proteggere i propri cittadini all'estero, cosicché oggi è obbligato ad agire perché i responsabili siano identificati e puniti. L'uccisione di Regeni mentre era nelle mani dei Servizi di sicurezza egiziani e il rifiuto delle autorità egiziane di collaborare con quelle italiane sono causa di responsabilità verso l'Italia. Poiché è ora di smettere di far finta di credere alle rassicurazioni egiziane, spetta al governo italiano ricorrere alle istanze internazionali competenti: in questo caso la Corte internazionale di giustizia. Dal 2016 si sono succeduti i governi Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi e ora, da poco, il governo Meloni. L'Italia con tutti i suoi governi ha ricevuto assicurazioni, seguite dalla umiliazione del rifiuto di collaborazione. Si tratta di un diritto stabilito dalle Convenzioni internazionali che legano sia l'Italia che l'Egitto. Anche il Parlamento europeo è intervenuto denunciando le prassi egiziane e sollecitando sanzioni contro i funzionari egiziani responsabili.

Ma la responsabilità primaria è dell'Italia. Il conflitto è palesemente ormai tra Stati. Purtroppo, dopo la dichiarazione sopra riportata della Procura generale egiziana, il ministero degli Esteri ha dimostrato la volontà di sottrarsi al conflitto, riportando il contrasto al livello delle due magistrature. Ma ora non è più possibile farlo, continuando a perdere tempo e a illudere, forse, i genitori di Regeni e l'opinione pubblica italiana (ed anche indebolendo la credibilità internazionale dello Stato). Da tempo la via da imboccare è stata identificata e segnalata. Ne ho dato conto in un articolo su questo giornale del 3 gennaio 2021, due anni orsono. Ne ha indicato la necessità la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Regeni nella unanime sua relazione finale del 1° dicembre 2021. Nello stesso senso si è espressa la Società italiana di diritto internazionale. Ora la Corte di cassazione scrive che la soluzione dello stallo cui si è giunti non è risolubile a livello giudiziario; incombe invece sul governo anche alla luce degli obblighi di assistenza e cooperazione discendenti dalle Convenzioni internazionali, come quella contro la tortura del 1984, ratificata dall'Italia nel 1988 e dall'Egitto nel 1984.

Cosa ci vuole di più perché il governo accetti la realtà di un conflitto tra Stati? Con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura gli Stati si sono impegnati ad impedire che atti di tortura siano commessi nel proprio territorio; essi si sono anche obbligati e svolgere indagini efficaci e indipendenti e darsi la più ampia assistenza giudiziaria in qualsiasi procedimento penale relativo alla tortura, comunicandosi tutti gli elementi di prova. È ormai sicura la violazione di quegli obblighi internazionali da parte dell'Egitto. Il governo italiano dovrebbe attivare subito gli strumenti previsti dalla Convenzione contro la tortura. Essa prevede che una controversia sulla sua interpretazione o applicazione, non risolvibile tramite negoziazione, sia sottoposta ad arbitrato. Se le parti non giungono ad un accordo sull'organizzazione dell'arbitrato, ciascuna di esse può sottoporre la controversia alla Corte Internazionale di Giustizia. Si tratta della Corte delle Nazioni Unite che decide le controversie internazionali. Qui non c'è soltanto da far valere la ragione italiana in un caso di omicidio e tortura di cui è stato vittima un suo cittadino. 


La tortura è un crimine contro l'umanità. La comunità internazionale, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, ha preso su di sé l'onere di far tutto il possibile per prevenire, far cessare e reprimere ogni fatto di tortura. Il governo italiano, membro della comunità internazionale, attivando i meccanismi della Convenzione contro la tortura, può dimostrare che essa esprime un impegno serio. I rapporti economici e politici tra Italia ed Egitto (gas, forniture militari, contrasto al terrorismo, migranti, Libia) sono molto importanti. È questo che spiega la ritrosia del governo italiano? Recentemente, per assicurarsi le necessarie forniture di energia, l'Italia ha sottoscritto accordi con alcuni Paesi più che problematici sul piano del rispetto dei diritti fondamentali. Se l'Italia con l'Egitto si dimostra debole e rassegnata, la sicurezza dei suoi cittadini anche in quei Paesi è messa a rischio. Non dovrebbe passare l'idea che "con l'Italia si può fare".

Vladimiro Zagrebelsky,
LaStampa 12.04.2023

sabato 4 febbraio 2023

"Incapaci di ottenere 4 indirizzi"

Sono trascorsi sette anni, ma la sofferenza resta invariabilmente intensa. E la rabbia anche.

Ieri, in occasione del settimo anniversario del ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, su una strada tra Il Cairo e Alessandria, i suoi genitori Claudio e Paola hanno scritto un post su Facebook, insieme alla loro avvocata Alessandra Ballerini, per esprimere tutta la loro frustrazione e amarezza. 
«Chissà cos'hanno tutti da nascondere - si domandano retoricamente - per ostacolare la verità con tanta oltraggiosa determinazione. Abbiamo i nomi, abbiamo i volti di quattro tra i molti artifici di "tutto il male del mondo". Ci manca la loro elezione di domicilio per celebrare finalmente un processo in Italia».
Dalle indagini svolte dai carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco, coordinati dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, è emerso che il ricercatore friulano è stato torturato e ucciso dopo esser stato segnalato come spia alla National Security dal sindacalista degli ambulanti, Mohammed Abdallah, con il quale era entrato in contatto per i suoi studi. Sotto accusa ci sono gli ufficiali della National Security egiziana Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Rispondono tutti di sequestro di persona, e Abdelal Sharif anche di lesioni e concorso nell'omicidio.
Ma purtroppo il processo ai quattro è sospeso: il nodo restano le mancate notifiche agli imputati, dei quali le autorità egiziane non hanno mai fornito gli indirizzi di domicilio, bloccando, di fatto, il procedimento.
Ma com'è possibile che i politici italiani non riescano a fare pressione sul governo di Al Sisi? È questo l'interrogativo che tormenta Claudio e Paola Regeni.

Scrivono infatti: «Chi, ad ogni gita al Cairo, dopo i selfie e i salamelecchi di rito, si riempie la bocca di "collaborazione" dovrebbe spiegare agli italiani perché tornano a casa sempre a mani vuote, incapaci di farsi dare anche solo 4 indirizzi. Sarebbe più dignitoso tacere. A furia di stringere le mani (e vendere armi) ai dittatori si rischia di trovarsi insanguinate anche le proprie. E di offendere la nostra dignità».
Anche il collettivo "Giulio siamo noi" ribadisce la richiesta di verità. «La verità - si legge sul profilo Facebook - è un diritto inviolabile. Dopo sette anni la pretendiamo per Giulio, per tutti noi. Basta parole vuote, strette di mano e passerelle offensive»


Grazia Longo, LaStampa

venerdì 20 gennaio 2023

Aida, massacrata dal regime, danza senza tempo


Le poetiche giravolte di Aida Rostami sotto le fronde di un albero, su un tappeto autunnale di foglie e frutti caduti, sono l'ennesima sfida non violenta del movimento delle proteste al regime degli ayatollah. Nel 40esimo giorno dalla morte della giovane dottoressa che prestava soccorso clandestino ai manifestanti contro il governo, danza senza sosta la ragazza coraggiosa, nei feed dei canali social.

La famiglia della 36enne, scomparsa il 12 dicembre dopo essersi allontanata dall'abitazione di un manifestante per procurarsi ulteriore materiale medico e mai più tornata viva a casa, ha raccontato alla testata Iran International di aver ricevuto forti pressioni dalle autorità iraniane per non riunirsi al cimitero per onorare la memoria di Aida al termine del periodo di lutto. All'epoca della sua scomparsa, una fonte vicina alla famiglia aveva rivelato al sito anti regime IranWire che una stazione di polizia locale aveva chiamato i parenti per comunicare che la donna era morta in un incidente stradale durante la notte. Qualche giorno dopo, l'agenzia di stampa Mizan, l'organo d'informazione del sistema giudiziario della Repubblica islamica, aveva rettificato la notizia offrendo un racconto completamente diverso delle circostanze della morte del giovane medico. I media statali avevano anche pubblicato il video di un uomo che, nell'anonimato, affermava di essere l'amante di Aida e dichiarava che la ragazza si era gettata da un ponte, dopo che lui l'aveva lasciata. Ma la famiglia, che era riuscita a recuperare il cadavere solo grazie a insistenti richieste, si era trovata d'avanti un corpo che riportava segni di pesanti torture, il volto tumefatto e un occhio fuori dall'orbita, entrambe le mani fratturate e ferite alla parte inferiore del busto.

Da copione in questa ondata di proteste in Iran, la morte di chi si è schierato dalla parte dei manifestanti diventa oggetto di controversia tra una versione ufficiale (un suicidio o un incidente) e quella della famiglia che denuncia invece: «l'hanno uccisa». E, sempre da copione, le autorità cercano di impedire e soffocare le commemorazioni delle vittime, temendo nuovi focolai di rivolta. Per tutta risposta, la testata britannica anti-regime Iran International ha pubblicato il video di Aida Rostami, che danza felice e a capo scoperto, con i capelli scuri sciolti e lunghi fino in fondo alla schiena, dando vita a una cerimonia virtuale globale.

Negli ultimi quattro mesi, secondo la denuncia dell'associazione internazionale dei medici iraniani, almeno altri quattro operatori sanitari, oltre a Rostami, sono stati uccisi per mano della Repubblica islamica: la chirurga Parisa Bahmani, l'infermiera Maedeh Javanfar e 2 studenti di medicina Aylar Haghi e Ghazal Amiri. E mentre la presidente dell'Eurocamera, Roberta Metsola, ribadisce in un tweet che «l'Iran deve fermare l'oppressione e abolire la pena di morte», nel giorno dopo l'emendamento approvato dal Parlamento europeo con cui si chiede l'inserimento del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione nella lista dei terroristi dell'Ue, lo Stato Maggiore delle Forze Armate iraniane mette in guardia l'istituzione europea sulle conseguenze di tale decisione.

Fabiana Magrì (LaStampa, 20.01.23)