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mercoledì 6 dicembre 2017

Nigeria, "conchiglia" di morte

Amnesty International ha chiesto a Nigeria, Regno Unito e Olanda di aprire indagini sul ruolo avuto dal gigante petrolifero anglo-olandese Shell in una serie di orribili crimini commessi dal governo militare nigeriano nella regione petrolifera dell’Ogoniland negli anni Novanta. 
La richiesta è stata fatta da Amnesty International in occasione del lancio di un suo rapporto che esamina migliaia di pagine di documenti interni della Shell, dichiarazioni di testimoni e denunce presentate, all’epoca dei fatti, dalla stessa organizzazione per i diritti umani.
La campagna del governo militare nigeriano per ridurre al silenzio le proteste degli ogoni contro l’inquinamento prodotto dalla Shell causò gravi e diffuse violazioni dei diritti umani, molte delle quali costituiscono anche precise fattispecie di reato penale.
“Le prove che abbiamo esaminato mostrano che la Shell incoraggiò ripetutamente i militari nigeriani ad affrontare le proteste locali, pur sapendo l’orrore che questo avrebbe procurato: uccisioni illegali, stupri, torture e villaggi dati alle fiamme”, ha dichiarato Audrey Gaughran, direttrice del programma Temi globali di Amnesty International.
“In questa brutale repressione la Shell arrivò persino a fornire ai militari sostegno materiale, come i mezzi di trasporto, e in almeno un caso pagò un comandante militare noto per aver violato i diritti umani. Il fatto che la compagnia petrolifera non sia mai stata chiamata a risponderne è un oltraggio”, ha aggiunto Gaughran.
“Non c’è dubbio che la Shell abbia giocato un ruolo chiave negli eventi che devastarono l’Ogoniland negli anni Novanta. Crediamo che vi siano ragioni per aprire indagini penali. Presentare l’enorme quantità di prove raccolte è stato il primo passo per portare la Shell di fronte alla giustizia. Ora stiamo preparando una denuncia penale da inoltrare alle autorità competenti”, ha spiegato Gaughran.
La campagna del governo nigeriano nell’Ogoniland culminò nell’impiccagione, 22 anni fa, di nove leader ogoni tra cui Ken Saro-Wiwa, lo scrittore e attivista che guidava le proteste. Le esecuzioni, al termine di un processo clamorosamente irregolare, provocarono uno scandalo internazionale. Nel giugno 2017 le vedove di quattro degli impiccati hanno denunciato la Shell alla giustizia olandese, accusando la compagnia petrolifera di complicità nella loro morte.
Un individuo o una compagnia possono essere chiamati a rispondere sul piano penale per un reato che abbiano incoraggiato, favorito, facilitato o esacerbato, pur non essendone stati gli autori materiali. Ad esempio, può comportare una responsabilità penale il fatto di essere consapevoli che la propria condotta o un rapporto di stretta vicinanza con gli autori materiali possano contribuire a un reato. Il nuovo rapporto di Amnesty International, intitolato “Un’impresa criminale?” afferma che la Shell è stata coinvolta con queste modalità nei reati commessi nell’Ogoniland negli anni Novanta.
In quel periodo la Shell era la più importante compagnia petrolifera attiva in Nigeria. Durante la crisi dell’Ogoniland, la Shell e il governo nigeriano operavano come partner in affari e s’incontravano regolarmente per discutere come proteggere i loro interessi.
Memorandum interni e appunti relativi agli incontri mostrano come la Shell abbia fatto pressioni su alti funzionari del governo per ottenere appoggio militare, anche dopo che le forze di sicurezza avevano compiuto uccisioni di massa di dimostranti. Le stesse fonti confermano che la Shell fornì assistenza logistica e finanziaria alle forze armate o alla polizia nigeriana, pur essendo a conoscenza che esse erano coinvolte in assalti mortali contro civili inermi.
La Shell ha sempre negato di essere stata coinvolta in violazioni dei diritti umani ma non c’è mai stata un’indagine sulle accuse nei suoi confronti.

La Shell sapeva

Le proteste contro la devastazione dell’Ogoniland causata dalle fuoriuscite di petrolio dagli impianti della Shell erano guidate dal Movimento per la sopravvivenza del popolo ogoni (Mosop).
Nel gennaio 1993, dopo che il Mosop aveva dichiarato che la Shell non era più benvenuta nella regione, la compagnia sospese temporaneamente le attività adducendo motivi di sicurezza.
Secondo i documenti interni analizzati da Amnesty International, mentre la Shell pubblicamente cercava di minimizzare i danni causati all’ambiente, suoi alti dirigenti riconoscevano che le proteste del Mosop erano legittime ed erano fortemente preoccupati per le cattive condizioni degli oleodotti.
Il 29 ottobre 1990 la Shell chiese a un reparto speciale paramilitare della polizia, chiamato Polizia mobile, “protezione per la sicurezza” dei suoi impianti nel villaggio di Umuechem, dove erano in corso proteste pacifiche. Nel giro di due giorni, la Polizia mobile attaccò il villaggio con fucili e granate, uccidendo almeno 80 persone e dando fuoco a 595 abitazioni. Molti dei corpi vennero gettati in un fiume vicino.
Almeno da quel momento in poi, i dirigenti della Shell sarebbero stati consapevoli dei rischi associati alle richieste d’intervento delle forze di sicurezza. Ciò nonostante, la Shell continuò a invocarlo.
Ad esempio nel 1993, poco dopo aver lasciato l’Ogoniland, la Shell chiese ripetutamente al governo nigeriano di dispiegare l’esercito nella regione per proteggere un nuovo oleodotto che era in corso di realizzazione da parte di un’azienda appaltatrice. Il risultato furono 11 morti il 30 aprile nel villaggio di Biara e un morto il 4 maggio nel villaggio di Nonwa.
Meno di una settimana dopo l’incursione nel villaggio di Nonwa, funzionari della Shell ebbero una serie di incontri con alti funzionari del governo e della sicurezza della Nigeria.
Gli appunti di questi incontri mostrano che, invece di esprimere preoccupazione per l’uccisione di dimostranti inermi, la Shell fece pressioni per poter tornare a operare nell’Ogoniland offrendo in cambio aiuto “logistico”.

Sostegno finanziario

La Shell offrì anche sostegno finanziario. Un suo documento interno mostra che il 3 marzo 1994 la Shell versò oltre 900 dollari all’Istf, un’unità speciale creata per “ripristinare l’ordine” nell’Ogoniland. Solo 10 giorni prima il comandante di quell’unità aveva ordinato di aprire il fuoco contro una manifestazione di fronte al quartier generale della Shell di Port Harcourt. Il documento spiega che quel pagamento era “un segno di gratitudine e di incentivo per una futura attitudine positiva [verso la Shell]”.
“In un certo numero di occasioni, le richieste fatte dalla Shell al governo nigeriano affinché contribuisse ad affrontare quella che la compagnia chiamava ‘la questione degli ogoni’ vennero seguite da una nuova ondata di violazioni dei diritti umani nell’Ogoniland. È difficile non vedere il rapporto causale o immaginare che la Shell non sapesse come le sue richieste in quel periodo sarebbero state interpretate”, ha commentato Gaughran.
“In alcuni casi la Shell ebbe un ruolo più diretto nei bagni di sangue, ad esempio trasportando sui suoi mezzi le forze armate nei luoghi ove erano in corso proteste, persino quando divenne chiaro quali sarebbero state le conseguenze di tale comportamento. Questo equivale chiaramente a rendere possibili o facilitare i crimini orribili che ne seguirono”, ha aggiunto Gaughran.

Indicare le comunità delle proteste

Il 13 dicembre 1993, poco dopo il colpo di stato che aveva portato al potere il generale Sani Abacha, la Shell scrisse al nuovo amministratore militare dello Stato dei Fiumi, facendo i nomi delle comunità in cui erano in corso le proteste contro la compagnia e richiedendo assistenza.
Un mese dopo, nel gennaio 1994, il governo istituì l’Istf. Nel corso dell’anno la violenza contro gli ogoni raggiunse picchi terrificanti e l’Istf si rese responsabile di raid nei villaggi ogoni, arresti, stupri, torture e uccisioni.
Secondo un rapporto di Amnesty International pubblicato il 24 giugno 1994, in quel periodo vennero attaccati oltre 30 villaggi e “più di 50 membri del gruppo etnico ogoni furono vittime di esecuzioni extragiudiziali”. Il comandante dell’Istf si vantò in televisione di queste operazioni, che ebbero dunque una notevole risonanza. Nel luglio dello stesso anno l’ambasciatore olandese fece sapere alla Shell che l’esercito aveva ucciso circa 800 ogoni.

Ken Saro-Wiwa nel mirino

I documenti interni mostrano che nel 1994-95, proprio al culmine della crisi degli ogoni, l’allora presidente della Shell in Nigeria, Brian Anderson, ebbe almeno tre incontri col generale Sani Abacha. Il 30 aprile 1994 Anderson sollevò “il problema degli ogoni e di Ken Saro-Wiwa”, descrivendo i riflessi economici derivanti alla compagnia dalle attività portate avanti dal Mosop.
Ken Saro-Wiwa era già nel mirino del governo e, parlando di lui nel corso di quell’incontro, Anderson incoraggiò irresponsabilmente un’azione contro di lui. Anderson riferì di essere uscito da quell’incontro con la sensazione che Abacha “[sarebbe intervenuto] o con l’esercito o con la polizia”.
Infatti, nel giro di un mese Ken Saro-Wiwa e altri leader del Mosop vennero arrestati e accusati, senza alcuna prova, di partecipazione all’omicidio di quattro noti leader tradizionali. Vennero posti in isolamento e torturati, per poi essere sottoposti a un processo-farsa e impiccati nel novembre 1995.
I documenti analizzati da Amnesty International mostrano che la Shell sapeva che sarebbe stato assai probabile che Ken Saro-Wiwa venisse giudicato colpevole e messo a morte. Tuttavia, continuò a discutere col governo su come affrontare “la questione degli ogoni”. È davvero difficile immaginare che la Shell non abbia incoraggiato, e persino condiviso, l’azione del governo contro Ken Saro-Wiwa e gli altri leader ogoni.
Amnesty International chiede che le indagini siano avviate nelle tre giurisdizioni competenti: in Nigeria, dove si verificarono i reati, e in Gran Bretagna e Olanda, dove la Shell ha sede.
“Nelle sue parole finali di fronte al tribunale che lo aveva condannato a morte, Ken Saro-Wiwa ammonì che un giorno sarebbe stato il turno della Shell a essere processata. Vogliamo che ciò accada”, ha annunciato Gaughran.
“Giustizia dev’essere fatta: per Ken Saro-Wiwa e per le migliaia di altre persone le cui vite sono state rovinate dalla distruzione dell’Ogoniland da parte della Shell”, ha concluso Gaughran.
Ulteriori informazioni
I documenti interni della compagnia – tra cui fax, lettere ed e-mail tra i suoi vari uffici – evidenziano che le responsabilità per l’operato della Shell durante la crisi degli ogoni non riguardarono solo il personale presente in Nigeria e che in ogni momento i vertici della Shell all’Aja e a Londra erano pienamente a conoscenza di quanto stesse accadendo nel paese africano.
Un memorandum fa riferimento all’approvazione da parte dei vertici di una dettagliata strategia elaborata nel dicembre 1994 dalla Shell Nigeria su come rispondere alle critiche dopo le proteste degli ogoni. Nel marzo 1995 i vertici della Shell di Londra ebbero un incontro con un rappresentante dell’esercito nigeriano, concordando di “vedersi periodicamente” per scambiare informazioni.
Amnesty International ha chiesto alla Royal Dutch Shell e alla Shell Nigeria di commentare le sue conclusioni. Questa è la risposta della Shell Nigeria:
“Le denunce citate nella vostra lettera sono false e prive di merito. [La Shell Nigeria] non ha colluso con le autorità militari per sopprimere le proteste delle comunità e non ha in alcun modo incoraggiato o invocato l’uso di qualsivoglia atto di violenza in Nigeria. La compagnia ritiene che il dialogo sia il mezzo migliore per risolvere le dispute. Abbiamo sempre respinto tali denunce, nel modo più netto possibile”.







Il rapporto “Un’impresa criminale?” è disponibile online all’indirizzo:
https://www.amnesty.org/en/documents/AFR44/7393/2017/en/

domenica 1 ottobre 2017

Thomas Sankara, il fratello giusto che voleva cambiare l’Africa

Ci sono rivoluzionari che sono diventati, loro malgrado, icone globali. Volti da stampare sulle magliette. Ce ne sono altri invece che sulle t-shirt non ci finiranno mai, forse perché il loro insegnamento può essere ancora pericoloso. A questi ultimi appartiene il Che Guevara d’Africa oppure, semplicemente come ancora oggi lo chiamano i suoi conterranei, Le frère juste, il fratello giusto

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"... e quel giorno uccisero la felicità "
[Silvestro Montanaro,
RAI3]

Thomas Sankara nacque in un piccolo villaggio di nome Yako, in quello che allora si chiamava Alto Volta, il 21 dicembre 1949, terzo di dieci figli. Suo padre era un militare e pure lui ne seguì le orme, fino a diventarne in pochi anni ufficiale di grande popolarità grazie al suo carisma innato. Divenne primo ministro nell’agosto del 1983, in seguito a quello che sui libri viene definito un colpo di stato militare, ma che ebbe successo grazie all’appoggio della popolazione, stanca delle miserie e delle sopraffazioni subite dal governo fantoccio imposto fino ad allora all’ex colonia dalla Francia.
Una mano oscura gli concesse solo quattro anni. Un tempo brevissimo per la politica, sufficiente a Sankara per rivoluzionare il suo Paese. A cominciare dal nome: Alto Volta era un nome deciso a tavolino dalle potenze coloniali, venne cambiato in Burkina Faso, letteralmente La patria degli uomini integri. Il giovane militare ribelle si trova a governare un paese in ginocchio. Una terra di sette milioni di uomini il 98% dei quali non sa leggere né scrivere, dove 1 bambino su 5 muore prima di compiere cinque anni, con un solo medico ogni 50mila abitanti e un reddito pro capite che non arriva a 100 dollari l’anno. Il 4 ottobre 1984 si presenta per la prima volta all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, di fronte a lui i leader dell’ex oppressore francese, dei paesi occidentali che con le loro politiche e le loro multinazionali affamano l’Africa e molti altri Paesi del sud del mondo che nulla fanno per i loro cittadini, intenti solo a dividersi le ricchezze. Mentre lo guardano stupiti annuncia il suo programma e li accusa tutti quanti allo stesso tempo: «Abbiamo dovuto indirizzare la rivolta delle masse urbane prive di lavoro, frustrate e stanche di vedere le limousine guidate da élite governative estraniate che offrivano loro solo false soluzioni concepite da cervelli altrui. Abbiamo dovuto dare un’anima ideologica alle giuste lotte delle masse popolari che si mobilitavano contro il mostro dell’imperialismo. Abbiamo scelto di rischiare nuove vie per giungere alla felicità, respingendo duramente ogni forma di diktat esterno, al fine di creare le condizioni per una dignità pari al nostro valore. Finora abbiamo porto l’altra guancia, gli schiaffi sono raddoppiati. Ebbene, i nostri occhi si sono aperti alla lotta di classe, non riceveremo più schiaffi».
Felicità, giustizia sociale, sviluppo economico, benessere e salvaguardia ambientale. Obiettivi che sembrano impossibili da garantire a tutti i cittadini anche nelle nazioni più ricche, da perseguire in una delle nazioni più povere al mondo. «La causa della nostra malattia è politica, quindi politica deve essere la soluzione», sostiene il presidente rivoluzionario. Per prima cosa vuole avvicinare la classe politica alla popolazione: Sankara si percepisce un figlio del popolo e tutti i suoi ministri devono esserlo; vende le costose auto del vecchio governo e le sostituisce con delle Renault 5, livella gli stipendi suoi e dei collaboratori al livello di un operaio specializzato, mentre continua ad abitare nella vecchia casa di famiglia insieme alla madre e ai fratelli. Due chitarre sono i suoi unici averi.
Le sue ricette politiche sono semplici quanto coraggiose, come il suo modo di parlare di fronte ai grandi della terra: terre e miniere sono gestite da compagnie straniere e non portano ricchezza alla nazione? La risposta è nazionalizzarle e metterle al servizio della ricchezza popolare. La mancanza di istruzione rende i cittadini incapaci di perseguire i propri diritti? La scuola diventa obbligatoria, gratuita per tutti e diffusa anche nelle zone più remote del paese. I cittadini muoiono per diarrea, febbre e altre patologie facilmente curabili? Si costruiscono presidi sanitari in ogni villaggio per garantire le cure di base. Ad ogni domanda di base si cercano risposte mirate. Per far fronte alla carenza idrica e all’erosione del territorio causata dalla desertificazione si piantano migliaia di alberi e si costruiscono nuove reti per ottimizzare l’approvvigionamento idrico, per distribuire terre ai contadini si attua la riforma agraria, per far progredire il commercio e la mobilità si inaugura il primo sistema di trasporti pubblici urbani dell’Africa francofona e per migliorare la condizione delle donne, si sancisce la parità tra i sessi e si vieta la pratica dell’infibulazione. In soli quattro anni di governo Sankara migliora l’economia della nazione e garantisce a ogni cittadino istruzione, cure di base, due pasti al giorno e cinque litri di acqua potabile. Un successo straordinario e senza uguali nell’Africa nera. Ottenuto con la ricetta base del socialismo, arricchito da misure concrete per far entrare la popolazione nel processo decisionale della politica tramite esperimenti concreti di democrazia diretta, come l’istituzione nelle province dei Consigli dei contadini, ai quali vengono concessi poteri decisionale in materia di organizzazione del lavoro sui campi, o dei tribunali popolari, dove i lavoratori si trasformano in giudici autorizzati a processare i rappresentanti politici accusati di corruzione.

Per tutti i burkinabè quel giovane militare comunista diventa il fratello giusto, ma fuori dai confini della nazione il numero dei suoi potenti nemici cresce di pari passo con l’aumentare della sua fama tra i poveri di tutta l’Africa. Le élite politiche dei paesi vicini temono che l’esempio del povero Burkina Faso possa sobillare le masse, dimostrando a tutto il continente che la povertà non è un destino immutabile, mentre le grandi potenze – in primis l’ex padrone francese e gli Usa – non possono tollerare che un paese povero si permetta di alzare la testa facendo perdere profitti alle proprie aziende con le nazionalizzazioni, denunciando i crimini del neocolonialismo e stringendo accordi con i nemici giurati dell’Occidente ai tempi della guerra fredda: l’Urss e la Cuba di Fidel Castro. Secondo i potenti del mondo l’Africa deve continuare ad essere un paese povero e soggiogato, da spremere in cambio di materie prime a basso costo.

 
 OUA (Organizzazione per l’Unità Africana),
Addis Abeba, Luglio 1987

Il 29 luglio 1987 Sankara si trova ad Addis Abeba, all’incontro tra i leader dei paesi africani. Decide di denunciare quello che secondo lui è il più brutale dei meccanismi attraverso cui i paesi occidentali tengono sotto scacco l’Africa: il debito. Milioni di dollari da rimborsare ogni anno ai paesi ricchi, i quali concedono dilazioni e sconti solo in cambio di misure politiche gradite, come le privatizzazioni. Prende il microfono e dice: «Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano le nostre economie. Noi non c’entriamo niente con questo debito. Dicono che pagarlo è un obbligo morale, ma invece è non pagandolo che facciamo giustizia. Quelli che ci hanno condotto all’indebitamento hanno giocato come al casinò. Finché guadagnavano non c’era nessun problema, ora che perdono esigono il rimborso. No signori, non funziona così. Hanno giocato, hanno perduto, è la regola del gioco». Poi invita tutti i leader africani ad unirsi a lui e rifiutare di pagare il debito, utilizzando i soldi pubblici per avviare progetti in favore della popolazione, perché se non ci sarà unità tra i Paesi africani e solo il Burkina Faso rifiuterà di pagare il debito «non credo che io sarò qui alla prossima conferenza». La platea ride, la prende come una battuta di spirito, ma è l’ammissione profetica di un rivoluzionario che ha capito perfettamente di aver toccato un tasto che lo addita a nemico numero uno delle grandi potenze mondiali.
Passano tre mesi appena e il 15 ottobre Thomas Sankara viene ucciso. Il probabile esecutore materiale è il suo stesso vice, Blaise Compaoré, che tutto l’Occidente si affretterà a riconoscere come nuovo presidente e a sostenere al potere per i successivi 27 anni. Le riforme di Sankara vengono revocate, il Burkina Faso torna ad essere uno dei paesi più poveri al mondo, mentre i suoi politici ricominciano a viaggiare in limousine e le multinazionali straniere tornano a realizzare profitti con le miniere e il cotone. Tutto, insomma, torna al suo posto. Dove si trova ancora oggi.
Si potrebbe pensare che ricordare un personaggio come Sankara a 30 anni dalla morte possa essere solo un’opera storica. Tutt’altro. Proprio in questi tempi di “emergenza rifugiati” significa fare un passo nella comprensione delle ragioni endemiche della povertà dell’Africa e, quindi, dell’emigrazione di massa.

Fiorella Mannoia
"
Thomas SANKARA. Il Presidente del futuro"


Ogni possibile Sankara nel terzo mondo è stato sistematicamente eliminato, sempre con la partecipazione diretta o indiretta delle ex potenze coloniali. Ogni riforma che voleva redistribuire le ricchezze tra la popolazione sottraendole alle grandi aziende straniere è stata soffocata con l’arma del debito. «Aiutiamoli a casa loro», si sente dire spesso oggi: il primo passo per farlo sarebbe quello di benedire la nascita di ogni possibile Thomas Sankara, anziché approvarne (e probabilmente pianificarne) l’uccisione. La storia insegna che fino ad ora i nostri governi si sono impegnati per impedire all’Africa di aiutarsi da sola, costringendo un intero continente a sottostare alle necessità geopolitiche occidentali in cambio di un tozzo di pane sotto forma di aiuti umanitari. Ciò che avviene oggi ne è la conseguenza.


venerdì 30 dicembre 2016

Burkina Faso, bye bye al cotone della Monsanto

Nel 2009, il Burkina Faso aveva riposto tutte le sue speranze nel cotone OGM. Le promesse erano state straordinarie: meno lavoro, più rendimenti e profitti. La coltura transgenica era arrivata a coprire l’80 per cento della produzione nazionale, la seconda risorsa del Paese dopo l’oro. Poi, nel 2012, era cominciata la crisi, perché la qualità del raccolto era scarsa, le fibre non abbastanza lunghe. Il cotone burkinabè non era più competitivo e la crisi dilagava. Con la fine della dittatura. appoggiata dalle potenze occidentali, i produttori hanno trovato il coraggio di abbandonare l’opzione Ogm per tornare ai metodi tradizionali. L’ultimo raccolto è stato ottimo, sia dal punto di vista quantitativo che per la qualità  del prodotto. Il business della multinazionale acquisita dalla Bayer si è così dissolto e il governo democratico eletto in Burkina chiede al colosso Ogm un risarcimento per il danno subito che l’Association interprofessionnelle du coton quantifica in circa 74 milioni di euro. 

Fonte: redazione greenreport.it

La raccolta di cotone nel Burkina Faso, uscito da poco una dittatura trentennale appoggiata dall’Occidente, era in crisi e con un prodotto di scarsa qualità e alla fine i produttori di cotone burkinabé hanno avuto un’idea: farla finita con le sementi OGM del cotone BT di Monsanto e la cosa ha funzionato splendidamente. Non solo il raccolto è stato ottimo, ma il prodotto è di eccellente qualità, si vende bene e a un maggior prezzo. Insomma è stato un ritorno indietro, salvifico, al tempo del Burkina Faso socialista di Thomas Sankara.
Infatti – come spiega Axel Leclercq su Positvr – «il matrimonio tra Monsanto e il Burkina Faso risale al 2009. Àll’epoca questo Paese (che è annoverato tra i più poveri del nostro pianeta) aveva posto tutte le sue speranze nel cotone OGM dalle promesse straordinarie: meno lavoro, più rendimenti, più profitti. Grosso modo, Monsanto voleva cambiare la vita del Paese». Ma i produttori di cotone molto presto hanno capito che c’era qualcosa che non funzionava: il cotone BT Ogm non era di buona qualità e si vendeva male. Alla fine è arrivato il divorzio dalla multinazionale degli Ogm appena acquisita dalla Bayer.
Monsanto risponde che in Burkina Faso è stata fatta un «cattivo utilizzo del prodotto», ma gli agricoltori burkinabé non rimpiangono il cotone Ogm e sono convinti che il ritorno alle sementi tradizionali sarà seguito daglui altri produttori africani. Bruttissime notizie per Monsanto/Bayer che guardava all’Africa come la terra promessa degli Ogm: la spettacolare marcia indietro del Burkina Faso ha avuto un clamoroso successo e in molti pensano di cacciare Monsanto dai loro campi per tornare al cotone non OGM.
La fibra del cotone BT Monsanto è troppo corta e la lunghezza della fibra è il primo criterio di qualità del cotone, quindi i produttori burkinabé hanno pagato duramente sul mercato la fiducia riposte nelle promesse del governo golpista e nella Monsanto. Ora il nuovo governo nato dalla rivoluzione e dalle elezioni democratiche chiede addirittura un risarcimento alla multinazionale degli OGM e lAssociation interprofessionnelle du coton du Burkina (Aicb) quantifica il danno subìto in 50 miliardi di franchi Cfa, circa 74 milioni di euro.
E’ dal 2012 che il calo di qualità del cotone OGM si è fatto sentire con il calo delle entrate delle compagnie cotoniere: il cotone burkinabè perdeva colpi sul mercato mondiale rispetto agli altri cotoni dell’Africa occidentale, ma per le compagnie cotoniere burkinabè era difficile rinunciare dall’oggi al domani al cotone BT che era diventato popolare tra gli agricoltori perché richiedeva meno pesticidi e che all’inizio sembrava aver aumentato sensibilmente i rendimenti, cosa che era piaciuta molto ai contadini meno formati professionalmente.
Quando sono cominciate le difficoltà, Monsanto si era impegnata a rivedere le sue sementi, ma senza grande successo. Anno dopo anno le compagnie cotoniere hanno quindi richiesto sempre meno il cotone OGM, che ormai si coltivava nell’80% del territorio destinato a cotone. Quest’anno è stato chiesto agli agricoltori di non piantare cotone transgenico e di seminare quello tradizionale. Il nuovo direttore generale della Sofitex, una delle principali compagnie cotoniere, ha fatto il bilancio di danni prodotti dal cotone BT della Monsanto: da 20 a 30 franchi Cfa in meno per libbra di cotone, un danno non solo economico, ma anche morale e di immagine per il cotone burkinabè, l’oro bianco del Paese, la seconda risorsa del Burkina Faso dopo l’oro vero, ha perso la sua reputazione.
Per questo l’Aicb, dopo trattative discrete con Monsanto, ora reclama apertamente risarcimenti multimilionari in euro. L’Aicb ricorda che la ragione principale per la quale è stato adottato il cotone Ogm era la lotta ai bruchi che distruggevano i raccolti, ma «otto anni dopo, il Burkina Faso attualmente incontra problemi con questa speculazione, perché essendo corta la lunghezza della fibra gli stakeholder non sono più molto interessati». Insomma, le promesse del cotone Ogm di evitare i maggiori danni alle coltivazioni prodotte dagli insetti diventati resistenti ai pesticidi, accrescere la produzione, diminuire la quantità di insetticidi sparsi e i costi di produzione e la fatica nei campi, le ragioni che hanno portato ufficialmente il governo a dare il via libera a Monsanto, si sono trasformate negli anni in perdite finanziarie e in un abbassamento della qualità del cotone, fino a che, l’Aicb non ha inviato a Monsanto un memorandum e, 10 mesi dopo, si sono tenuti a Ouagadougou diversi incontri tra cotonieri Burkinabé e la multinazionale che non ha mostrato di recepire le ragioni dell’Aicb  che, appoggiata dal nuovo governo, ha quindi deciso di produrre il 100% di cotone tradizionale nella stagione 2016/2017.
La Sofitex, che ha un bel po’ di colpe in questo disastro, non se le assume e avverte furbescamente che «il ritorno al cotone convenzionale non è un rifiuto del cotone OGM, ancor meno della partnership con Monsanto, ma piuttosto un ripiegamento tattico, vale a dire “tornare indietro per saltare meglio”, attendendo che il marchio Monsanto continui le ricerche in collaborazione con l’Inera in vista di migliorare la lunghezza della fibra del cotone OGM che attualmente è controversa sul mercato mondiale e che comporta delle perdite enormi per la filiera cotoniera del Burkina Faso».
Ma sarà molto difficile che gli agricoltori Burkinabè, i quali, visto pur in una situazione ambientale e climatica difficile, si godono un raccolto mai visto credano ancora alle promesse di Monsanto e dei suoi complici burkinabé. Infatti è la stessa Sofitex ad ammettere che «il ritorno alla coltura del cotone geneticamente modificato di Monsanto o di qualsiasi altro marchio che sviluppi delle tecnologie similari potrà essere preso in considerazione dall’Association interprofessionnelle du coton du Burkina (Aicb) solo quando saranno attuati i lavori di recupero delle caratteristiche del label coton burkinabé». Cosa che, come hanno dimostrato i fatti, sembra impossibile con il “metodo” Monsanto, che forse ha meno amici nel Burkina Faso dove è tornata la democrazia.

domenica 16 novembre 2014

Burkina Faso, rivive l’utopia del presidente-eroe amato dal popolo


Un tempo si tradiva con coraggio. Si diventava un rinnegato candidamente e decisamente. Si stringeva la mano all’amico, al compagno di fede e poi, senza indugio, lo si andava a vendere come se si trattasse di un atto di onestà. Insomma si diventava Giuda con franchezza.

Uno degli orrori del ventesimo secolo è stato che la canaglia barbarica tradisce con viltà, celandosi dietro le scelte ideologiche, il bene del Popolo, le necessità storiche. Ventisette anni vi sembrano troppi per rendere giustizia per un tradimento consumato in un Paese che si chiama Burkina Faso? Chissà: forse non sono niente. E il guaio è semplicemente che noi uomini non abbiamo pazienza. Bisogna leggere questa storia come un copione shakespeariano, rappresentarla in uno spazio chiuso, un palcoscenico quasi nudo, mobili sgualciti, quelli delle amministrazioni coloniali dopo il ritiro dei padroni bianchi: residuati di prefetture del Poitou o municipi dell’Auvergne finite a morire nei deserti dell’Empire. Poveri «evolué» compilano inutili moduli con bella calligrafia. Si vive con 190 dollari all’anno, quando non si muore di carestia e siccità nell’Alto Volta. Mettete una colonna sonora discreta: un brusio, la folla del mercato di Ouagadougou, affaccendata nei suoi traffici fatti di niente, qualche rumore di auto che hanno già mille volte esalato l’ultimo respiro e che vengono rianimate dalla mani di meccanici con il genio di Leonardo. E campi di cotone, immensi campi di cotone: i padroni francesi hanno detto che quello era il ruolo che dio aveva dato a quella piccola scheggia del loro impero: produrre cotone.

L’eroe rivoluzionario
Entra il primo personaggio. La capacità di dedizione, la forza del sacrificio è, lo ammetto, il mio termine di misura per giudicare gli uomini. Chi lo possiede al più alto livello è più vicino all’eroismo. Per questo ho amato la figura di Thomas Sankara, eroe di una piccola rivoluzione che negli Anni 80 del secolo appena finito, con slancio cieco del cuore che non prevede cosa gli potrà costare, cambiò il destino del Paese, a cui diede persino un nuovo nome: Burkina Faso, terra degli uomini integri. Esempio di devozione permanente, del sacrificio infaticabile che spesso gli africani forniscono, devozione che non si esaurisce nemmeno dell’immolazione della propria vita ma si perpetua di vita in vita, per diverse generazioni: il tesoro dell’eterna giovinezza Sankara è un soldato, un giovane capitano. Il Paese degli uomini integri è indipendente da venti anni, ma senza gloria, senza epopee: giusto un regalo furbo dei dominatori che sono rimasti lì come prima, a scegliere i presidenti. La Francia mangia con le sue gengive consumate di vecchia cocotte il cotone e la poca ricchezza che il Paese produce.

I troppi nemici
Sankara è un golpista di 34 anni, prende il potere con un gruppo di altri giovani ufficiali. I suoi nemici non sono invasori stranieri: sono la carestia, la desertificazione, il morbillo, la meningite, la febbre gialla. Che cosa vuole mai questo ragazzo che suona la chitarra, non si nomina generale, inveisce contro i Grandi dalla tribuna del palazzo di vetro? Semplicemente cambiare il mondo, rimettere il popolo al lavoro, insegnargli a contare solo su se stesso e ridargli la dignità. In tre settimane fa vaccinare il 60 per cento dei bambini, costruisce scuole nelle campagne, ordina a tutti di piantare alberi per fermare il deserto.
Ha nemici potenti, Sankara, il Fondo monetario per esempio: «Ci hanno prestato i soldi gli stessi che ci hanno colonizzato, dopo essere stati schiavi, ora siamo schiavi finanziari. Se non paghiamo, i creditori non moriranno. Ma se paghiamo, moriremo noi». Sankara rifiuta regali, un aereo per esempio da un ricco Paese arabo, viaggia su una scassata Renault 5 o in bicicletta. Abolisce le mercedes ministeriali. Licenzia insegnanti e funzionari fannulloni. Veste con una divisa verde tessuta di cotone locale, quello che non si riesce a vendere se non sottocosto: perché sono i ricchi che impongono i prezzi. Mangia pane di miglio perché il grano bisogna importarlo, lotta contro la corruzione, le bustarelle, i capi tradizionali e il loro potere senza tempo. Si sentiva felice come un contadino che vede al sole il frutto tanto curato.

Ha nemici potenti Sankara, la Francia e gli Stati Uniti per esempio. E amici discutibili: regimi radicali come Ghana e Benin e, soprattutto, Gheddafi che deluso dai fratelli arabi comincia a cercare un grottesco «impero» nell’Africa dei miserabili. Commette errori Sankara, e tanti. Spedisce i notabili e i ministri a zappare il deserto e costruire una inutile ferrovia, squinterna, licenzia, reprime quando non è obbedito subito, vuole una Africa che si liberi da sola; ma i tempi sono logori, i padri della patria in Africa sono già diventati despoti, il terzomondismo ha le vele sgonfie. Radicale, populista, impertinente, impaziente, utopico, anche demagogo, ha creduto di potere tutto, anche di sopprimere il tempo con la grandezza della sua volontà. Ma qui non è come in guerra: il tempo non si lascia sopprimere, pesa, la lotta è dura e si prolunga fra l’usura che il tempo accumula e la forza dell’uomo che declina. Ebbe tutti contro di sé, necessariamente, tutte le cose del passato. Dovettero precipitarsi naturalmente contro di lui e sopra di lui, come innumerevoli torrenti attratti da un unico abisso. Le cose gli obbedirono meno degli uomini. Ebbe il disinteresse del vero soldato che esegue una consegna pericolosa. Ma tutte le forze vecchie e nuove stavano contro di lui. Come i criminali contro il giustiziere delle loro opere. Non fatevi ingannare: quando parla gli scherani, sempre più affezionati, gli fanno corona e protezione in un vocio e accapigliamento che ricorda qualche rivoluzione napoletana. Ma Sankara lo immagino solo, terribilmente solo e la sua solitudine ha un aspetto di eternità. Senza compagni che lo capissero, o lo assistessero, senza angeli visibili e forse anche senza Dio. Ma questo chi può saperlo?

Il golpe
Lo ammazzarono il 15 ottobre del 1987, nella presidenza, un golpe di vecchi compagni, camerati, fratelli: Giuda stavolta si chiamava Blaise Compaoré, capitano pure lui, un mediocre, grigio come sono sempre gli assassini. Parlò alla radio banalmente, copiature di altri tradimenti: «Sankara era un rinnegato che ha sviato la rivoluzione dell’83 … lavorava incessantemente al ripristino dell’ordine borghese reazionario ... la rivoluzione continua». Non trascina, non dimostra, insinua e il suo metodo scialbo e incolore non può riuscire che con uomini della sua risma, intriganti, accessibili alle ragioni, politici. Ho fatto a tempo a incontrare alcuni anni fa uno degli assassini, un militare dal dolce nome di Hyachinte. Faceva parte del commando che doveva arrestarlo (o ucciderlo subito). Gli amici di Sankara lo indicavano come l’uomo che gli aveva sparato in testa. Nel 1996, accusato di un tentato golpe da Campaoré, era fuggito nelle Filippine: tornò nel 2001 con il «perdono», era diventato deputato: non perdeva tempo a rievocare «la rivoluzione», non cambiava tono, ed era già molto se si sorprendeva tra le sue ciglia l’estremo orlo delle pupille grige.

La nascita del mito
Il 18 ottobre venne proclamata festa nazionale, il corpo di Sankara fu gettato in una fossa comune nel cimitero della capitale, solo un pezzo di carta scritto a mano: «Capitano Sankara». Qui cominciò, subito, la sua immortalità. E la punizione dell’assassino. La gente si mise in fila davanti alla tomba: il suo silenzio parlava. Sankara non è mai morto: nei mercati d’Africa, 27 anni dopo, trovi le magliette con il suo nome, ragazzi che lo conoscono solo sui libri di storia o nei racconti dei padri piangono se ne evochi il sacrificio. C’è una generazione Sankara che come per Mandela o il Che ne celebra gli anniversari su Internet. È questa vita di semplicità quasi di infanzia, di bontà e di santità in cui tutti cercheranno, sempre, una specie di rigenerazione morale. La sua biografia resterà il tesoro del mondo e l’eterna festa del cuore. Campaoré è rimasto al potere 27 anni, si è fatto rieleggere con i brogli per due, tre volte. Tutto cambiava intorno, il deserto si animava di nuovi fanatismi, ma il Burkina Faso restava uno dei Paesi più poveri del mondo e lui presidente. In due giorni lo hanno spazzato via con clamore giacobino decine di migliaia di giovani della generazione Sankara, indignati dalle trame per una ennesima rielezione. Campaoré è fuggito in Costa d’avorio, ora la transizione è confusa, ma emerge tra i pescecani del continuismo, generali obbedienti per trent’anni, un giovane colonnello, Isaac Zida: lo appoggiano i rivoltosi di Ouagadougou. Assomiglia, per molti, a Sankara. Nella capitale ronde festose puliscono le strade. 

giovedì 6 novembre 2014

Burkina Faso, la faticosa transizione

Tre presidenti africani sono in viaggio verso Ouagadougou con un messaggio chiaro da consegnare al nuovo ‘uomo forte’ del Burkina Faso, il luogotenente colonnello Yacouba Isaac Zida: consegnare il potere ai civili entro 15 giorni per evitare sanzioni da parte dell’Unione Africana. Previsto per oggi l’incontro tra Zida e il capo di Stato del Ghana, John Dramani Mahama, in qualità di presidente di turno della Comunità economica dei paesi dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas), accompagnato dal suo omologo nigeriano Goodluck Jonathan e dal senegalese Macky Sall. Una visita già preparata dagli emissari della ‘troika’ Unione Africana, Onu e Cedeao, finalizzata anche alla preparazione del vertice dell’organizzazione dell’Africa occidentale in agenda per domani ad Accra, al centro del quale ci sarà la crisi in Burkina Faso.
Una minaccia di sanzioni presa sul serio a Ouagadougou per il potenziale rischio di isolamento sulla scena continentale ed internazionale e per le possibili ripercussioni negativi in termini economici e di aiuti allo sviluppo da parte dei “donors”, il cui contributo è cruciale a sostegno di uno dei paesi meno sviluppati del pianeta. Ieri sera il Canada ha annunciato la sospensione della cooperazione umanitaria con il Burkina Faso. “Alla luce della situazione attuale, non è più possibile fornire assistenza allo sviluppo versando direttamente i fondi al governo burkinabe in quanto non abbiamo alcuna garanzia che verranno spesi in conformità con gli impegni presi” ha detto il ministro canadese per lo Sviluppo internazionale, Christian Paradis. Tra il 2012 e il 2013 il Canada ha versato aiuti al paese africano per circa 35,6 milioni di dollari. “I fondi saranno nuovamente versati quando il governo di Ottawa sarà sicuro che il potere verrà restituito ad un’autorità civile e legittima” ha aggiunto Paradis. In base alla Costituzione del Burkina Faso, in caso di dimissioni del capo dello Stato è la seconda carica istituzionale, cioè il presidente dell’Assemblea nazionale (parlamento), a dover assumere la guida del paese.
A poche ore dall’arrivo dei tre presidenti africani e dopo due giorni di consultazioni con tutte le ‘forze vive’ della nazione – partiti politici di maggioranza e opposizione, società civile, capi tradizionali e sindacati – il luogotenente colonnello Zida si sarebbe impegnato a “consegnare il potere ai civili entro due settimane”. Una garanzia data durante i colloqui avuti col capo dei Mossi, la principale comunità del paese, ma anche col presidente della confederazione dei sindacati, Joseph Tiendrebeogo. Dopo l’incontro con Zida, il re dei Mossi ha dichiarato di aver chiesto ai militari di “fare tutto il possibile per avviare un processo di pace nel paese poiché tutti vogliono la pace”.
Il nuovo ‘uomo forte’ ha anche ricevuto l’imam Sana Aboubacar, capo della comunità musulmana, e l’arcivescovo di Ouagadougou, il cardinale Philippe Ouédraogo, che ha già indetto una novena di preghiera “per la pace, la riconciliazione e la giustizia in Burkina Faso” fino al 9 novembre. In una speciale preghiera il cardinale chiede a Dio di “accordare al nostro paese delle istituzioni che garantiscano il benessere, la libertà e la pace”. Dalle dimissioni del presidente Blaise Compaoré, rimasto al potere per 27 anni, nessun leader religioso si era finora espresso pubblicamente. Già nel 2013, con una lunga lettera pastorale indirizzata a Compaoré, i vescovi del Burkina Faso criticavano un “governo sempre più sconnesso dalla realtà e dall’etica sociale”. Lo scorso gennaio, dopo essere stato creato cardinale, in un’intervista alla MISNA monsignor Ouédraogo aveva auspicato che in Burkina Faso “come già avvenuto in Senegal, possa essere avviato un processo di alternanza politica nella pace e senza spargimento di sangue”.

MISNA -
Missionary International Service News Agency

giovedì 10 gennaio 2013

Naciribwa, la bella nascosta

Questa favola è narrata alla sera attorno al fuoco nei villaggi karimojong (popolazione di pastori del nord-est dell’Uganda). Traspaiono da essa il piacere del narrare, la fantasia e la ricchezza dei dettagli, ma anche alcuni valori caratteristici come la fede nel trionfo del bene sul male.
MISNA, Racconti

C’era una volta una ragazza che si chiamava Naciribwa; il suo secondo nome era Kiyo. Il suo corpo era splendido e la pelle era bronzea e liscia. Gli occhi erano di un nero splendente, bellissimi a vedersi. Vestiva una pelle adornata di magnifiche perline. Il suo capo era adorno di fili multicolori di perline e attorno al collo portava una collana di bianche scaglie di uova di struzzo. Naciribwa era ricca e sana.Un giorno venne data una grande festa e tutti correvano per parteciparvi. Naciribwa vi si recò col fratello. Si pettinò magnificamente e mise un campanellino alla caviglia destra. Lungo la strada si divertì tantissimo in compagnia delle altre ragazze che andavano alla festa. A sera, i giovani del posto cominciarono a corteggiare le ragazze, cercando tra loro la più bella. Ma nessuna eguagliava in bellezza Naciribwa che conquistò tutti, compreso il fratello. Tornato a casa, il ragazzo raccontò ai genitori come erano andate le cose e come anch’egli si fosse innamorato pazzamente della sorella al punto di volerla in moglie. A sentire questo, tutti rimasero male e Naciribwa andò fuori di sé dalla vergogna. Decise di scappare di casa e la sua amica del cuore andò con lei.
Pur slanciata e di un bel colore nero, l’amica non era bella come Naciribwa e, temendo che i nemici si sarebbero interessati solo di lei, magari battendosi tra loro per averla, cercò di trovare una soluzione al problema. Mentre stava pensando a ciò, s’imbatterono in una femmina d’elefante che stava partorendo. L’amica prese la placenta dell’ animale e con essa rivestì Naciribwa che divenne sporca e brutta. Ora, l’amica pareva veramente bella. Trovarono un tamarindo e lo salirono portando con sé la zucca d’acqua. I nemici si stavano avvicinando e vennero a sedersi proprio sotto l’albero. Naciribwa sputò di sotto e uno degli uomini guardò in su ma non vide le ragazze che erano salite molto in alto.
Naciribwa sputò di nuovo e l’uomo pensò che fosse lo spirito e lo disse agli amici. Mentre tutti guardavano in su, le ragazze lasciarono cadere la zucca dell’acqua. Grande fu lo spavento degli uomini che ben presto si accorsero delle ragazze. Naciribwa, con la placenta secca addosso, appariva veramente brulla e gli uomini si dettero ben presto da fare per raggiungere l’amica.
Uno di loro riuscì a prenderla, mentre gli altri decisero di ammazzare Naciribwa tanto era brutta. Ma uno ebbe compassione di lei e volle tenerla con sé per custodire il bestiame. Furono condotte al kraal di quella gente. L’amica di Naciribwa trovò tutti i favori di questo mondo, mentre Naciribwa fu considerata come una schiava. Il suo lavoro consisteva nel badare alle vacche assieme ad un  pastore e si cibava di ciò che veniva gettato ai cani.
Quando andava a fare il bagno, Naciribwa si toglieva la placenta di dosso . Un giorno il pastore la vide e rimase incantato dalla sua bellezza. Nel kraal non c’era nessuna ragazza che potesse starle alla pari. La sera stessa il giovane corse dal padre e raccontò il fatto, ma nessuno gli credette. Mentre Naciribwa stava mangiando con i cani, il giovane improvvisò un canto per declamarne la bellezza: a Kiyo vien dato da mangiare con cani, Kiyo! a Naciribwa Kiyo con i cani, Kiyo! Kiyo dai bianchi denti, con i cani, Kiyo! Kiyo dalle belle mani, con cani, Kiyo! A Kiyo vien dato da mangiare con i cani, Kiyo!
Il ragazzo ripeté la cosa al padre che finalmente si decise ad andare a vedere con i suoi occhi. Naciribwa andò a bagnarsi, si tolse le pelli di placenta e incominciò a versarsi acqua sul corpo. Mentre stava per rimettersi la pelle della placenta, il padre del ragazzo corse verso di lei e riuscì a trattenerla. Era certamente la più bella ragazza che si fosse mai vista. Venne portata al kraal e tutti rimasero meravigliati della storia. Da quel momento non dovette più mangiare con i cani perché tutti le volevano bene. Sposò il giovane che l’amava ed ebbe figli bellissimi.