Un tempo si tradiva con coraggio. Si diventava un rinnegato candidamente e decisamente. Si stringeva la mano all’amico, al compagno di fede e poi, senza indugio, lo si andava a vendere come se si trattasse di un atto di onestà. Insomma si diventava Giuda con franchezza.
Uno degli orrori del ventesimo secolo è stato che la canaglia barbarica tradisce con viltà, celandosi dietro le scelte ideologiche, il bene del Popolo, le necessità storiche. Ventisette anni vi sembrano troppi per rendere giustizia per un tradimento consumato in un Paese che si chiama Burkina Faso? Chissà: forse non sono niente. E il guaio è semplicemente che noi uomini non abbiamo pazienza. Bisogna leggere questa storia come un copione shakespeariano, rappresentarla in uno spazio chiuso, un palcoscenico quasi nudo, mobili sgualciti, quelli delle amministrazioni coloniali dopo il ritiro dei padroni bianchi: residuati di prefetture del Poitou o municipi dell’Auvergne finite a morire nei deserti dell’Empire. Poveri «evolué» compilano inutili moduli con bella calligrafia. Si vive con 190 dollari all’anno, quando non si muore di carestia e siccità nell’Alto Volta. Mettete una colonna sonora discreta: un brusio, la folla del mercato di Ouagadougou, affaccendata nei suoi traffici fatti di niente, qualche rumore di auto che hanno già mille volte esalato l’ultimo respiro e che vengono rianimate dalla mani di meccanici con il genio di Leonardo. E campi di cotone, immensi campi di cotone: i padroni francesi hanno detto che quello era il ruolo che dio aveva dato a quella piccola scheggia del loro impero: produrre cotone.
L’eroe rivoluzionario
Entra il primo personaggio. La capacità di dedizione, la forza del sacrificio è, lo ammetto, il mio termine di misura per giudicare gli uomini. Chi lo possiede al più alto livello è più vicino all’eroismo. Per questo ho amato la figura di Thomas Sankara, eroe di una piccola rivoluzione che negli Anni 80 del secolo appena finito, con slancio cieco del cuore che non prevede cosa gli potrà costare, cambiò il destino del Paese, a cui diede persino un nuovo nome: Burkina Faso, terra degli uomini integri. Esempio di devozione permanente, del sacrificio infaticabile che spesso gli africani forniscono, devozione che non si esaurisce nemmeno dell’immolazione della propria vita ma si perpetua di vita in vita, per diverse generazioni: il tesoro dell’eterna giovinezza Sankara è un soldato, un giovane capitano. Il Paese degli uomini integri è indipendente da venti anni, ma senza gloria, senza epopee: giusto un regalo furbo dei dominatori che sono rimasti lì come prima, a scegliere i presidenti. La Francia mangia con le sue gengive consumate di vecchia cocotte il cotone e la poca ricchezza che il Paese produce.
I troppi nemici
Sankara è un golpista di 34 anni, prende il potere con un gruppo di altri giovani ufficiali. I suoi nemici non sono invasori stranieri: sono la carestia, la desertificazione, il morbillo, la meningite, la febbre gialla. Che cosa vuole mai questo ragazzo che suona la chitarra, non si nomina generale, inveisce contro i Grandi dalla tribuna del palazzo di vetro? Semplicemente cambiare il mondo, rimettere il popolo al lavoro, insegnargli a contare solo su se stesso e ridargli la dignità. In tre settimane fa vaccinare il 60 per cento dei bambini, costruisce scuole nelle campagne, ordina a tutti di piantare alberi per fermare il deserto.
Ha nemici potenti, Sankara, il Fondo monetario per esempio: «Ci hanno prestato i soldi gli stessi che ci hanno colonizzato, dopo essere stati schiavi, ora siamo schiavi finanziari. Se non paghiamo, i creditori non moriranno. Ma se paghiamo, moriremo noi». Sankara rifiuta regali, un aereo per esempio da un ricco Paese arabo, viaggia su una scassata Renault 5 o in bicicletta. Abolisce le mercedes ministeriali. Licenzia insegnanti e funzionari fannulloni. Veste con una divisa verde tessuta di cotone locale, quello che non si riesce a vendere se non sottocosto: perché sono i ricchi che impongono i prezzi. Mangia pane di miglio perché il grano bisogna importarlo, lotta contro la corruzione, le bustarelle, i capi tradizionali e il loro potere senza tempo. Si sentiva felice come un contadino che vede al sole il frutto tanto curato.
Ha nemici potenti Sankara, la Francia e gli Stati Uniti per esempio. E amici discutibili: regimi radicali come Ghana e Benin e, soprattutto, Gheddafi che deluso dai fratelli arabi comincia a cercare un grottesco «impero» nell’Africa dei miserabili. Commette errori Sankara, e tanti. Spedisce i notabili e i ministri a zappare il deserto e costruire una inutile ferrovia, squinterna, licenzia, reprime quando non è obbedito subito, vuole una Africa che si liberi da sola; ma i tempi sono logori, i padri della patria in Africa sono già diventati despoti, il terzomondismo ha le vele sgonfie. Radicale, populista, impertinente, impaziente, utopico, anche demagogo, ha creduto di potere tutto, anche di sopprimere il tempo con la grandezza della sua volontà. Ma qui non è come in guerra: il tempo non si lascia sopprimere, pesa, la lotta è dura e si prolunga fra l’usura che il tempo accumula e la forza dell’uomo che declina. Ebbe tutti contro di sé, necessariamente, tutte le cose del passato. Dovettero precipitarsi naturalmente contro di lui e sopra di lui, come innumerevoli torrenti attratti da un unico abisso. Le cose gli obbedirono meno degli uomini. Ebbe il disinteresse del vero soldato che esegue una consegna pericolosa. Ma tutte le forze vecchie e nuove stavano contro di lui. Come i criminali contro il giustiziere delle loro opere. Non fatevi ingannare: quando parla gli scherani, sempre più affezionati, gli fanno corona e protezione in un vocio e accapigliamento che ricorda qualche rivoluzione napoletana. Ma Sankara lo immagino solo, terribilmente solo e la sua solitudine ha un aspetto di eternità. Senza compagni che lo capissero, o lo assistessero, senza angeli visibili e forse anche senza Dio. Ma questo chi può saperlo?
Il golpe
Lo ammazzarono il 15 ottobre del 1987, nella presidenza, un golpe di vecchi compagni, camerati, fratelli: Giuda stavolta si chiamava Blaise Compaoré, capitano pure lui, un mediocre, grigio come sono sempre gli assassini. Parlò alla radio banalmente, copiature di altri tradimenti: «Sankara era un rinnegato che ha sviato la rivoluzione dell’83 … lavorava incessantemente al ripristino dell’ordine borghese reazionario ... la rivoluzione continua». Non trascina, non dimostra, insinua e il suo metodo scialbo e incolore non può riuscire che con uomini della sua risma, intriganti, accessibili alle ragioni, politici. Ho fatto a tempo a incontrare alcuni anni fa uno degli assassini, un militare dal dolce nome di Hyachinte. Faceva parte del commando che doveva arrestarlo (o ucciderlo subito). Gli amici di Sankara lo indicavano come l’uomo che gli aveva sparato in testa. Nel 1996, accusato di un tentato golpe da Campaoré, era fuggito nelle Filippine: tornò nel 2001 con il «perdono», era diventato deputato: non perdeva tempo a rievocare «la rivoluzione», non cambiava tono, ed era già molto se si sorprendeva tra le sue ciglia l’estremo orlo delle pupille grige.
La nascita del mito
Il 18 ottobre venne proclamata festa nazionale, il corpo di Sankara fu gettato in una fossa comune nel cimitero della capitale, solo un pezzo di carta scritto a mano: «Capitano Sankara». Qui cominciò, subito, la sua immortalità. E la punizione dell’assassino. La gente si mise in fila davanti alla tomba: il suo silenzio parlava. Sankara non è mai morto: nei mercati d’Africa, 27 anni dopo, trovi le magliette con il suo nome, ragazzi che lo conoscono solo sui libri di storia o nei racconti dei padri piangono se ne evochi il sacrificio. C’è una generazione Sankara che come per Mandela o il Che ne celebra gli anniversari su Internet. È questa vita di semplicità quasi di infanzia, di bontà e di santità in cui tutti cercheranno, sempre, una specie di rigenerazione morale. La sua biografia resterà il tesoro del mondo e l’eterna festa del cuore. Campaoré è rimasto al potere 27 anni, si è fatto rieleggere con i brogli per due, tre volte. Tutto cambiava intorno, il deserto si animava di nuovi fanatismi, ma il Burkina Faso restava uno dei Paesi più poveri del mondo e lui presidente. In due giorni lo hanno spazzato via con clamore giacobino decine di migliaia di giovani della generazione Sankara, indignati dalle trame per una ennesima rielezione. Campaoré è fuggito in Costa d’avorio, ora la transizione è confusa, ma emerge tra i pescecani del continuismo, generali obbedienti per trent’anni, un giovane colonnello, Isaac Zida: lo appoggiano i rivoltosi di Ouagadougou. Assomiglia, per molti, a Sankara. Nella capitale ronde festose puliscono le strade.
Riapertura dell’inchiesta sull’assassinio del presidente Thomas Sankara e richiesta di estradizione di Blaise Compaoré, costretto alla fuga dalle manifestazioni popolari del mese scorso: sono le ultime misure annunciate dal colonnello Isaac Zida, primo ministro “di transizione” del Burkina Faso.
RispondiEliminaLa richiesta di estrazione sarà notificata al Marocco, il paese dove Compaoré è giunto dopo un breve soggiorno in Costa d’Avorio. Quanto alla riapertura dell’indagine sulla morte di Sankara, assassinato durante il golpe che nel 1987 aveva portato al potere proprio Compaoré, dovrebbero essere autorizzati la riesumazione delle spoglie e prelievi di Dna.
Il colonnello Zida ha anche annunciato una ripresa dell’inchiesta sull’assassinio del giornalista Norbert Zongo, ucciso nel 1998.