domenica 12 febbraio 2023

Regeni, il processo non si farà

Al rientro dalla sua visita al governo egiziano, il ministro degli Esteri Tajani si è detto rassicurato dal presidente al-Sisi sulla disponibilità a collaborare alle indagini sulle torture e sull'uccisione di Giulio Regeni nel gennaio 2016. Sono passati sei anni e la collaborazione non c'è mai stata. Ci sono invece stati sviamenti e rifiuti, fino a che la Procura generale egiziana ha dichiarato che non c'è più nulla da fare per identificare i responsabili e che il procedimento in corso in Italia è privo di basi. Le indagini in Italia si sono svolte tra enormi difficoltà, ma hanno portato comunque la Procura della Repubblica di Roma a identificare alcuni funzionari di uno dei Servizi di sicurezza egiziani, che sono stati rinviati a giudizio davanti alla Corte d'Assise. Ma il processo non ha potuto aver luogo perché non è stato possibile notificare l'atto di accusa agli imputati in Egitto, con la data e luogo dell'udienza e gli avvisi stabiliti dalla legge. Una impossibilità che deriva dall'ostruzionismo delle autorità egiziane, insuperabile da parte italiana. Ora la Corte di cassazione ha confermato che senza quelle notificazioni agli imputati non è possibile in Italia procedere al giudizio, che deve svolgersi secondo le regole del giusto processo stabilite dalla legge in uno Stato di diritto.

Poiché le rassicurazioni di cui il ministro degli Esteri si è fatto portavoce non hanno alcuna credibilità, è molto probabile che quel processo, "che non s'ha da fare", effettivamente non si faccia mai. Vi sono in Italia i genitori di Giulio Regeni che fin da subito si battono perché la verità venga accertata in giudizio. Vi è anche un generale diritto alla verità, che è stato riconosciuto a livello internazionale, in casi gravi come quello di cui Regeni è stato vittima. Il governo italiano è tenuto a proteggere i propri cittadini all'estero, cosicché oggi è obbligato ad agire perché i responsabili siano identificati e puniti. L'uccisione di Regeni mentre era nelle mani dei Servizi di sicurezza egiziani e il rifiuto delle autorità egiziane di collaborare con quelle italiane sono causa di responsabilità verso l'Italia. Poiché è ora di smettere di far finta di credere alle rassicurazioni egiziane, spetta al governo italiano ricorrere alle istanze internazionali competenti: in questo caso la Corte internazionale di giustizia. Dal 2016 si sono succeduti i governi Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi e ora, da poco, il governo Meloni. L'Italia con tutti i suoi governi ha ricevuto assicurazioni, seguite dalla umiliazione del rifiuto di collaborazione. Si tratta di un diritto stabilito dalle Convenzioni internazionali che legano sia l'Italia che l'Egitto. Anche il Parlamento europeo è intervenuto denunciando le prassi egiziane e sollecitando sanzioni contro i funzionari egiziani responsabili.

Ma la responsabilità primaria è dell'Italia. Il conflitto è palesemente ormai tra Stati. Purtroppo, dopo la dichiarazione sopra riportata della Procura generale egiziana, il ministero degli Esteri ha dimostrato la volontà di sottrarsi al conflitto, riportando il contrasto al livello delle due magistrature. Ma ora non è più possibile farlo, continuando a perdere tempo e a illudere, forse, i genitori di Regeni e l'opinione pubblica italiana (ed anche indebolendo la credibilità internazionale dello Stato). Da tempo la via da imboccare è stata identificata e segnalata. Ne ho dato conto in un articolo su questo giornale del 3 gennaio 2021, due anni orsono. Ne ha indicato la necessità la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Regeni nella unanime sua relazione finale del 1° dicembre 2021. Nello stesso senso si è espressa la Società italiana di diritto internazionale. Ora la Corte di cassazione scrive che la soluzione dello stallo cui si è giunti non è risolubile a livello giudiziario; incombe invece sul governo anche alla luce degli obblighi di assistenza e cooperazione discendenti dalle Convenzioni internazionali, come quella contro la tortura del 1984, ratificata dall'Italia nel 1988 e dall'Egitto nel 1984.

Cosa ci vuole di più perché il governo accetti la realtà di un conflitto tra Stati? Con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura gli Stati si sono impegnati ad impedire che atti di tortura siano commessi nel proprio territorio; essi si sono anche obbligati e svolgere indagini efficaci e indipendenti e darsi la più ampia assistenza giudiziaria in qualsiasi procedimento penale relativo alla tortura, comunicandosi tutti gli elementi di prova. È ormai sicura la violazione di quegli obblighi internazionali da parte dell'Egitto. Il governo italiano dovrebbe attivare subito gli strumenti previsti dalla Convenzione contro la tortura. Essa prevede che una controversia sulla sua interpretazione o applicazione, non risolvibile tramite negoziazione, sia sottoposta ad arbitrato. Se le parti non giungono ad un accordo sull'organizzazione dell'arbitrato, ciascuna di esse può sottoporre la controversia alla Corte Internazionale di Giustizia. Si tratta della Corte delle Nazioni Unite che decide le controversie internazionali. Qui non c'è soltanto da far valere la ragione italiana in un caso di omicidio e tortura di cui è stato vittima un suo cittadino. 


La tortura è un crimine contro l'umanità. La comunità internazionale, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, ha preso su di sé l'onere di far tutto il possibile per prevenire, far cessare e reprimere ogni fatto di tortura. Il governo italiano, membro della comunità internazionale, attivando i meccanismi della Convenzione contro la tortura, può dimostrare che essa esprime un impegno serio. I rapporti economici e politici tra Italia ed Egitto (gas, forniture militari, contrasto al terrorismo, migranti, Libia) sono molto importanti. È questo che spiega la ritrosia del governo italiano? Recentemente, per assicurarsi le necessarie forniture di energia, l'Italia ha sottoscritto accordi con alcuni Paesi più che problematici sul piano del rispetto dei diritti fondamentali. Se l'Italia con l'Egitto si dimostra debole e rassegnata, la sicurezza dei suoi cittadini anche in quei Paesi è messa a rischio. Non dovrebbe passare l'idea che "con l'Italia si può fare".

Vladimiro Zagrebelsky,
LaStampa 12.04.2023

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