Uscire dalla crisi significa riscoprire per chi e per cosa vivere:
i progetti, gli obiettivi, le aspirazioni che rendono la vita personale
degna di essere vissuta e quella collettiva generatrice di speranza e
di futuro. Significa ridare valore ai rapporti sociali e all’etica della
corresponsabilità, e al tempo stesso restituire alla politica la
trasparenza e la visione, senza le quali si riduce ad opportunità di far
carriera in modo ambiguo e subalterno. Significa ridare un nome e una
dignità alle persone più deboli e meno tutelate – le donne, gli anziani,
gli immigrati, i disoccupati, le persone segnate da una qualche
fragilità – messe ai margini, mercificate o colpevolizzate da un sistema
che ha predicato la disuguaglianza come una sconfitta personale e
sociale a cui è impossibile sottrarsi. Significa ridurre le distanze non
solo economiche ma sociali, dando a ciascuno la possibilità di
sviluppare i propri talenti e di vederli riconosciuti. Significa rompere
i monopoli, i privilegi e le corporazioni che impediscono all’economia
di servire alla collettività e alle persone di vivere non schiacciate
dalle logiche del profitto. Significa ristabilire la demarcazione fra il
pubblico e il privato per impedire che beni comuni ed essenziali, come
l’acqua, vengano mercificati. Significa assumere il rispetto
dell’ambiente e delle altre specie viventi come il paradigma di un nuovo
umanesimo, ecologico e solidale. Significa restituire tutela e dignità
al lavoro, attraverso politiche che mettano soprattutto i giovani nelle
condizioni di vivere ciò
che hanno imparato, perché è quello che essi chiedono. Significa
promuovere la cultura come il bene più importante, perché il materiale e
lo spirituale sono complementari, e pienamente umani sono solo quei
contesti capaci di liberare dai bisogni e al tempo stesso di nutrire i bisogni
di conoscenza e di libertà che ci realizzano come persone. Significa
non rinchiudersi negli egoismi nazionali, diventare davvero cittadini
del mondo, cogliere che i problemi di chi sta peggio di noi sono i nostri problemi,
lanciare ponti verso tutti i popoli, le religioni, le culture,
respingendo la logica secondo cui le controversie internazionali si
risolvono con le guerre (che sono sempre operazioni di morte e non di
vita). Significa, in ultima anlaisi, lasciarsi alle spalle la “società
dell’io”: una società virtuale, dominata dalla superficialità, dal
ciniscmo e dall’indifferenza. Società che ha sostituito il pensiero
complesso delle “cose pubbliche” con quello sbrigativo di
un mercato che spaccia il superfluo come essenziale, inducendo il
consumatore a credere che nell’apparire, nel possedere e nell’esibire
possa esaurirsi il senso di un’esistenza.
Luigi Ciotti, La speranza non è in vendita
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