Smettessimo di guardarla da lontano come una città polveriera – nel senso del veleno e dell’esplosivo – Taranto ci apparirebbe per quel che è: lo specchio, neanche troppo deformato, del degrado in cui sta precipitando l’Italia tutta. Puntuale degenera anche lo scontro istituzionale fra magistratura e governo tecnico, con la Procura che detta tempi ultimativi per lo spegnimento degli altiforni e il ministro Clini che accelera il varo di un’autorizzazione somigliante a una deroga mascherata. E’ proprio quel che speravano i padroni del Nord arricchitisi oltre misura, la famiglia Riva, che non appena la giustizia li ha perseguiti e ha sequestrato loro gli impianti, si sono messi a cavalcare la rivolta operaia. Mai vista prima dell’Ilva una borghesia industriale cimentarsi così sfacciatamente nel paternalismo protestatario. Rifornendo le maestranze impegnate nei blocchi stradali con i viveri dalla mensa aziendale. Chiamando allo sciopero i lavoratori senza tessera sindacale attraverso i capireparto. Facendo pervenire all’esterno i comunicati dei dipendenti asserragliati a 60 metri d’altezza sul nastro di carico dell’Altoforno 5, indovinate da chi? Direttamente dall’ingegnere responsabile della struttura, trasformatosi in portavoce zelante, per non dire in regista dell’azione disperata. Perché l’Altoforno 5 è al tempo stesso il cuore produttivo dello stabilimento e la principale fonte d’inquinamento.
Detenuti agli arresti domiciliari, i Riva sanno di poter contare sull’imbarazzo della classe politica locale, già screditata dagli scandali e dal dissesto finanziario, adeguatasi all’idea che la produzione dell’acciaieria fosse per Taranto la priorità assoluta, e pazienza se ciò comportava di assumere per valide delle normative ambientali fasulle, peraltro cucite su misura da chi stava più in alto di loro, nei ministeri romani.
Con tempismo perfetto, gli scioperi in difesa dell’occupazione sono scattati dal 26 luglio scorso ogni volta che la magistratura tarantina ha fatto capire che questo andazzo illegale non era procrastinabile.
Apriti cielo. Come se non ci fossero di mezzo un’imputazione di disastro ambientale (e un’emergenza sanitaria che l’Ilva continua a negare), perfino i sindacati hanno sposato la linea della deroga a oltranza. Dopo l’adesione iniziale, nel mese d’agosto la Fiom si dissocerà. Ma ormai la comunità operaia è lacerata, anche perché emergono, sebbene minoritarie, le prime voci di dipendenti Ilva che sostengono il sequestro giudiziario della fabbrica, riunite nel Comitato Lavoratori e Cittadini Liberi e Pensanti.
La disparità delle forze in campo è imbarazzante. Da una parte i proprietari del più grande stabilimento industriale italiano (11500 dipendenti più altre migliaia nell’indotto). Un’acciaieria dalle cui forniture dipende il 40% del comparto manifatturiero italiano; senza contare che fermarla significherebbe interrompere le lavorazioni pure negli altri stabilimenti Ilva di Genova e Novi Ligure (o almeno così sostiene la direzione aziendale).
Dall’altra parte ci sono le famiglie degli operai che non troveranno mai un’alternativa occupazionale, ma che già stanno pagando un prezzo altissimo sotto forma di patologie tumorali e malattie respiratorie, pericolose in special modo per i bambini. La città è stritolata da questa tenaglia, le cui leve sono impugnate da mani potenti e lontane.
Al quartiere Tamburi, epicentro popolare di questa Taranto che solo ora riconosce nell’Ilva una madre velenosa, l’indignazione è l’unica merce che si vende a buon mercato. Basta una folata di vento per sollevare la polvere di metallo cumulata a tonnellate nei limitrofi parchi minerali fino a invadere le case, le scuole, i nasi, gli occhi e le orecchie. Ma a chiudere le bocche sopraggiungono anche le dichiarazioni del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che equipara la chiusura dell’Ilva alla perdita di 8 punti di Pil: anche lui parla di “disastro” e invoca il “buonsenso”. Ma quale buonsenso? Non è forse il buonsenso alla base dell’operato della magistratura che, dopo anni di inutili sollecitazioni, preso atto della sordità delle istituzioni e delle inadempienze aziendali, procede nell’azione penale?
La sproporzione si misura nelle cifre dei bilanci: oltre quattro miliardi di utili hanno realizzato i Riva da quando, 15 anni fa, acquisirono la proprietà dell’ex Italsider. Da imprenditori capaci, hanno modernizzato gli impianti e migliorato le condizioni di lavoro, investendo nell’acciaieria, ricavandone utili straordinari. Evidentemente hanno speso per incrementare la produzione senza porsi il problema di una bonifica, come se la disastrosa situazione pregressa che avevano ereditato dall’Italsider li esentasse da questa responsabilità. Patetica è apparsa la sequenza delle cifre che, solo in seguito al sequestro, i Riva si sono dichiarati disposti a elargire: prima 90 milioni, poi 146, infine 400 “trattabili”. Gli esperti sostengono che tale somma non basterebbe neppure per la copertura dei parchi minerali da cui si sprigiona lo spolverio incivile su Tamburi.
Sicché viene il dubbio: può darsi un capitalismo al tempo stesso pulito e redditizio nel Mezzogiorno d’Italia, o invece la siderurgia deve per forza imporsi come colonizzazione?
Taranto specchio d’Italia rivela così gli effetti di una politica corrotta o sottomessa. A chi dovrebbero rivolgersi i cittadini spaventati che ora acclamano i magistrati e i pediatri, ma che domani potrebbero maledire con la stessa foga chi provocasse la chiusura dell’Ilva?
Incontrarli in piazza Gesù Divin Lavoratore, di fronte alla parrocchia, con sullo sfondo le ciminiere fumanti, significa immergersi in una catastrofe antropologica di rancori e sospetti. I politici locali sono tutti sospettati di aver nascosto la verità per convenienze inconfessabili. C’è chi fischia i sindacalisti accusati di essersi venduti e chi ce l’ha con le donne ambientaliste portatrici di miseria. Un’apocalisse culturale in cui sguazza da sempre la malavita organizzata.
Taranto, Italia appunto. Perché il contraltare dell’indignazione non è altro che il cinismo, quando la situazione appare senza vie d’uscita. Un cinismo che si manifesta a voce bassa nell’attesa del solito, classico, italianissimo conflitto d’attribuzione sintetizzato dalle due parole chiave incombenti su Taranto: bonifica o autorizzazione? E’ presto detto: la magistratura impone la bonifica come priorità assoluta, incompatibile con il prosieguo dell’attività produttiva. Autorizzazione invece è la parola magica che l’Ilva, ma non solo l’Ilva, confida sia rilasciata entro la settimana dal Ministero dell’Ambiente. Si chiama Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale) il provvedimento che il ministro Clini intende varare d’intesa con la Regione Puglia, entrando in rotta di collisione con il decreto del gip Todisco. Ma pesa come un macigno l’esperienza dell’Aia precedente, varata dal ministro Prestigiacomo nell’agosto 2011 quando Clini era direttore generale dell’Ambiente (lui assicura di non averci avuto personalmente a che fare). Si trattò di un provvedimento elastico che consentì ai Riva di continuare a produrre inquinando, con forzature imposte da periti riconosciuti inesperti. Oggi a Taranto quell’Aia-beffa viene additata come il premio ottenuto dai Riva per aver sottoscritto 120 milioni nella cordata Alitalia voluta da Berlusconi (“sappiamo bene che non ci guadagneremo”, dichiarò allora il patriarca della dinastia).
Licenziato in fretta e furia il direttore delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà, celebre a Taranto per le buste di “beneficenza” con cui riscuoteva il consenso necessario (pochi spiccioli se comparati ai miliardi di profitti), la famiglia Riva si è affidata alle arti diplomatiche del prefetto Bruno Ferrante. Il nuovo presidente si è fatto fotografare al fianco degli operai che protestano. Ha negato di avere organizzato le forniture di vettovaglie ai blocchi stradali, incassando però una pubblica smentita corale dei diretti interessati. Non c’è classe che tenga, tra i fumi di questa Taranto disperata: la comunità operaia diviene massa di manovra e strumento di pressione. Mentre col contagocce trapelano le statistiche sull’incidenza delle leucemie e dell’asma.
Quella che fu la prima città industriale del Sud si avvicina al punto di rottura senza averne tratto neanche briciole di benessere.
Detenuti agli arresti domiciliari, i Riva sanno di poter contare sull’imbarazzo della classe politica locale, già screditata dagli scandali e dal dissesto finanziario, adeguatasi all’idea che la produzione dell’acciaieria fosse per Taranto la priorità assoluta, e pazienza se ciò comportava di assumere per valide delle normative ambientali fasulle, peraltro cucite su misura da chi stava più in alto di loro, nei ministeri romani.
Con tempismo perfetto, gli scioperi in difesa dell’occupazione sono scattati dal 26 luglio scorso ogni volta che la magistratura tarantina ha fatto capire che questo andazzo illegale non era procrastinabile.
Apriti cielo. Come se non ci fossero di mezzo un’imputazione di disastro ambientale (e un’emergenza sanitaria che l’Ilva continua a negare), perfino i sindacati hanno sposato la linea della deroga a oltranza. Dopo l’adesione iniziale, nel mese d’agosto la Fiom si dissocerà. Ma ormai la comunità operaia è lacerata, anche perché emergono, sebbene minoritarie, le prime voci di dipendenti Ilva che sostengono il sequestro giudiziario della fabbrica, riunite nel Comitato Lavoratori e Cittadini Liberi e Pensanti.
La disparità delle forze in campo è imbarazzante. Da una parte i proprietari del più grande stabilimento industriale italiano (11500 dipendenti più altre migliaia nell’indotto). Un’acciaieria dalle cui forniture dipende il 40% del comparto manifatturiero italiano; senza contare che fermarla significherebbe interrompere le lavorazioni pure negli altri stabilimenti Ilva di Genova e Novi Ligure (o almeno così sostiene la direzione aziendale).
Dall’altra parte ci sono le famiglie degli operai che non troveranno mai un’alternativa occupazionale, ma che già stanno pagando un prezzo altissimo sotto forma di patologie tumorali e malattie respiratorie, pericolose in special modo per i bambini. La città è stritolata da questa tenaglia, le cui leve sono impugnate da mani potenti e lontane.
Al quartiere Tamburi, epicentro popolare di questa Taranto che solo ora riconosce nell’Ilva una madre velenosa, l’indignazione è l’unica merce che si vende a buon mercato. Basta una folata di vento per sollevare la polvere di metallo cumulata a tonnellate nei limitrofi parchi minerali fino a invadere le case, le scuole, i nasi, gli occhi e le orecchie. Ma a chiudere le bocche sopraggiungono anche le dichiarazioni del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che equipara la chiusura dell’Ilva alla perdita di 8 punti di Pil: anche lui parla di “disastro” e invoca il “buonsenso”. Ma quale buonsenso? Non è forse il buonsenso alla base dell’operato della magistratura che, dopo anni di inutili sollecitazioni, preso atto della sordità delle istituzioni e delle inadempienze aziendali, procede nell’azione penale?
La sproporzione si misura nelle cifre dei bilanci: oltre quattro miliardi di utili hanno realizzato i Riva da quando, 15 anni fa, acquisirono la proprietà dell’ex Italsider. Da imprenditori capaci, hanno modernizzato gli impianti e migliorato le condizioni di lavoro, investendo nell’acciaieria, ricavandone utili straordinari. Evidentemente hanno speso per incrementare la produzione senza porsi il problema di una bonifica, come se la disastrosa situazione pregressa che avevano ereditato dall’Italsider li esentasse da questa responsabilità. Patetica è apparsa la sequenza delle cifre che, solo in seguito al sequestro, i Riva si sono dichiarati disposti a elargire: prima 90 milioni, poi 146, infine 400 “trattabili”. Gli esperti sostengono che tale somma non basterebbe neppure per la copertura dei parchi minerali da cui si sprigiona lo spolverio incivile su Tamburi.
Sicché viene il dubbio: può darsi un capitalismo al tempo stesso pulito e redditizio nel Mezzogiorno d’Italia, o invece la siderurgia deve per forza imporsi come colonizzazione?
Taranto specchio d’Italia rivela così gli effetti di una politica corrotta o sottomessa. A chi dovrebbero rivolgersi i cittadini spaventati che ora acclamano i magistrati e i pediatri, ma che domani potrebbero maledire con la stessa foga chi provocasse la chiusura dell’Ilva?
Incontrarli in piazza Gesù Divin Lavoratore, di fronte alla parrocchia, con sullo sfondo le ciminiere fumanti, significa immergersi in una catastrofe antropologica di rancori e sospetti. I politici locali sono tutti sospettati di aver nascosto la verità per convenienze inconfessabili. C’è chi fischia i sindacalisti accusati di essersi venduti e chi ce l’ha con le donne ambientaliste portatrici di miseria. Un’apocalisse culturale in cui sguazza da sempre la malavita organizzata.
Taranto, Italia appunto. Perché il contraltare dell’indignazione non è altro che il cinismo, quando la situazione appare senza vie d’uscita. Un cinismo che si manifesta a voce bassa nell’attesa del solito, classico, italianissimo conflitto d’attribuzione sintetizzato dalle due parole chiave incombenti su Taranto: bonifica o autorizzazione? E’ presto detto: la magistratura impone la bonifica come priorità assoluta, incompatibile con il prosieguo dell’attività produttiva. Autorizzazione invece è la parola magica che l’Ilva, ma non solo l’Ilva, confida sia rilasciata entro la settimana dal Ministero dell’Ambiente. Si chiama Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale) il provvedimento che il ministro Clini intende varare d’intesa con la Regione Puglia, entrando in rotta di collisione con il decreto del gip Todisco. Ma pesa come un macigno l’esperienza dell’Aia precedente, varata dal ministro Prestigiacomo nell’agosto 2011 quando Clini era direttore generale dell’Ambiente (lui assicura di non averci avuto personalmente a che fare). Si trattò di un provvedimento elastico che consentì ai Riva di continuare a produrre inquinando, con forzature imposte da periti riconosciuti inesperti. Oggi a Taranto quell’Aia-beffa viene additata come il premio ottenuto dai Riva per aver sottoscritto 120 milioni nella cordata Alitalia voluta da Berlusconi (“sappiamo bene che non ci guadagneremo”, dichiarò allora il patriarca della dinastia).
Licenziato in fretta e furia il direttore delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà, celebre a Taranto per le buste di “beneficenza” con cui riscuoteva il consenso necessario (pochi spiccioli se comparati ai miliardi di profitti), la famiglia Riva si è affidata alle arti diplomatiche del prefetto Bruno Ferrante. Il nuovo presidente si è fatto fotografare al fianco degli operai che protestano. Ha negato di avere organizzato le forniture di vettovaglie ai blocchi stradali, incassando però una pubblica smentita corale dei diretti interessati. Non c’è classe che tenga, tra i fumi di questa Taranto disperata: la comunità operaia diviene massa di manovra e strumento di pressione. Mentre col contagocce trapelano le statistiche sull’incidenza delle leucemie e dell’asma.
Quella che fu la prima città industriale del Sud si avvicina al punto di rottura senza averne tratto neanche briciole di benessere.
Gad Lerner, Repubblica, 8 ottobre 2012
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