Di seguito, ampi
stralci di un articolo pubblicato su l’Unità il 13 settembre 2012. A
questi temi, è anche dedicato il libro «La via» di Edgar
Morin, pensatore transdisciplinare tra i più indisciplinati del mondo; se ne parla anche in questo articolo: «Fermenti creativi nella società». M.Ceruti
La
nostra crisi è una crisi di civiltà, dei suoi valori e delle sue
credenze. Ma è soprattutto una transizione fra un mondo antico e un
mondo nuovo. Le vecchie visioni della politica, dell’economia, della
società ci hanno resi ciechi, e oggi dobbiamo costruire nuove visioni.
Ogni riforma politica, economica e sociale è indissociabile da una
riforma di civiltà, da una riforma di vita, da una riforma di pensiero,
da una rinascita spirituale.
La riuscita materiale della nostra
civiltà è stata formidabile, ma ha anche prodotto un drammatico
insuccesso morale, nuove povertà, il degrado di antiche solidarietà, il
dilagare degli egocentrismi, malesseri psichici diffusi e indefiniti.
Oggi si impone una vigorosa reazione atta a ricercare nuove
convivialità, a ricreare uno spirito di solidarietà (…). Le
visioni della politica e dell’economia si sono basate sull’idea, che
risale al settecento e all’ottocento, del progresso come legge
ineluttabile della Storia. Questa idea è fallita. Soprattutto, è
fallita l’idea che il progresso segua automaticamente la locomotiva
tecno-economica. È fallita l’idea che il progresso sia assimilabile alla
crescita, in una concezione puramente quantitativa delle realtà umane.
Negli ultimi decenni la storia non va verso il progresso garantito, ma
verso una straordinaria incertezza. Così oggi il progresso ci appare non
come un fatto inevitabile, ma come una sfida e una conquista, come un
prodotto delle nostre scelte, della nostra volontà e della nostra
consapevolezza.
Altrettanto discutibile è la nozione tradizionale di sviluppo,
definita in una prospettiva unilateralmente tecno-economica, ritenuta
quantitativamente misurabile con gli indicatori di crescita e di
reddito. Ha assunto come modello universale la condizione dei Paesi
detti appunto «sviluppati», in particolare occidentali, alla quale si
dovrebbero ispirare tutti gli altri Paesi del mondo (detti perciò
«sotto-sviluppati» o «in via di sviluppo»). Così si è arrivati a credere
che lo stato attuale delle società occidentali costituisca lo sbocco e
la finalità della storia umana stessa, trascurando i tanti problemi
drammatici, le tante miserie, i tanti sotto-sviluppi, non solo
materiali, provocati dal perseguimento degli obiettivi di una crescita
tecno-economica fine a se stessa. Ma le soluzioni che volevamo proporre
agli altri sono diventate problemi per noi stessi.
L’iperspecializzazione disciplinare ha
frammentato il tessuto complesso dei fenomeni e ha modellato una scienza
economica che non riesce a concepire e a comprendere tutto ciò che non è
calcolabile e quantificabile: passioni, emozioni, gioie, infelicità,
credenze, miserie, paure, speranze, che sono il corpo stesso
dell’esperienza e dell’esistenza umana. (…) Uno dei tratti più nocivi di
questi ultimi decenni è l’esasperazione della competitività, che
conduce le imprese a sostituire i lavoratori con le macchine e, ove
questo non accada, ad aumentare i vincoli sulla loro attività
lavorativa. Allo sfruttamento economico, contro il quale hanno sempre
lottato i sindacati, oggi si aggiunge un’ulteriore alienazione in nome
della produttività e dell’efficienza. Abbiamo urgente bisogno di una
politica di umanizzazione di quella che è ormai un’economia
disumanizzata.
Se si vogliono seriamente realizzare
gli obiettivi di «sostenibilità» e di «umanizzazione», non basta
spianare la via con qualche levigatura: bisogna cambiare via. La
necessità di cambiare via, naturalmente, non ci impone di ripartire da
zero. Anzi, ci spinge a integrare tutti gli aspetti positivi che sono
stati acquisiti nel nostro difficile cammino, anche e soprattutto nei
Paesi occidentali, a cui dobbiamo i diritti umani, le autonomie
individuali, la cultura umanistica, la democrazia. E tuttavia la
necessità di cambiare via diventa sempre più urgente, nel momento in cui
il dogma della crescita all’infinito viene messo drasticamente in
discussione dal perdurare della crisi economica europea e mondiale, dai
pericoli prodotti di certo sviluppo tecnico e scientifico, dagli eccessi
della civiltà dei consumi che rendono infelici gli individui e la
collettività. Certamente, la crescita deve essere misurata in termini
diversi da quelli puramente quantitativi del Pil, mettendo in gioco gli
indicatori dello sviluppo umano. Ma la cosa più importante è superare la
stessa alternativa crescita/decrescita, che è del tutto sterile. Si
deve promuovere la crescita dell’economia verde, dell’economia sociale e
solidale. Un imperativo ineludibile dei prossimi decenni è
l’accelerazione della transizione dal dominio quasi assoluto delle
energie fossili a un sempre maggiore sviluppo delle energie rinnovabili.
Anche questa transizione impone di cambiare via, paradigma:
dall’attuale paradigma imperniato su un sostanziale monismo energetico
(le fonti di energia fossile) a un paradigma imperniato su un pluralismo
energetico, nella cui prospettiva si deve sostenere simultaneamente la
crescita di molteplici fonti rinnovabili di energia (solare, eolico,
biogas, idroelettrico, geotermico…)… In questo senso, la realizzazione
di un pluralismo energetico è indissociabile dalla realizzazione di una
democrazia energetica (…). Nello stesso tempo si deve sostenere
la decrescita dei prodotti inutili dagli effetti illusori tanto
decantati dalla pubblicità, la decrescita dei prodotti che generano
rifiuti ingombranti e non riciclabili, la decrescita dei prodotti di
corta durata e a obsolescenza programmata. Si deve promuovere
la crescita di un’economia basata sulla filiera corta, e promuovere la
decrescita delle predazioni di tutti quegli intermediari che impongono
prezzi bassi ai produttori e prezzi alti ai consumatori. E per imboccare
una via nuova bisogna concepire una nuova politica economica che possa
contrastare l’onnipotenza della finanza speculativa (…)
Nello stesso tempo, si rivela sterile
anche l’alternativa globalizzazione/deglobalizzazione. Dobbiamo
globalizzare e deglobalizzare in uno stesso tempo. Dobbiamo valorizzare
tutti gli aspetti della globalizzazione che producono cooperazioni,
scambi fecondi, intreccio di culture, presa di coscienza di un destino
comune. Ma dobbiamo anche salvare le specificità territoriali,
salvaguardare le loro conoscenze e i loro prodotti, rivitalizzare i
legami fra agricoltura e cultura. Questo andrebbe di pari passo con una
nuova politica nei confronti delle aree rurali, volta a contrastare
l’agricoltura e l’allevamento iperindustrializzati, ormai divenuti
nocivi per i suoli, per le acque, per gli stessi consumatori, e a
favorire invece l’agricoltura biologica basata su stretti legami con il
territorio. (…)
Sappiamo che le grandi mutazioni sono
invisibili e logicamente impossibili prima della loro attuazione;
sappiamo anche che esse compaiono quando i mezzi dei quali un sistema
dispone sono divenuti incapaci di risolvere i suoi problemi all’interno
del sistema stesso. Così siamo inclini a sperare che, pur ancora improbabile e inconcepibile, la metamorfosi non sia impossibile.
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