di Pierpaolo Donati (Università di Bologna)
Contributo alla Tavola Rotonda “Politica e Poteri”
Contributo alla Tavola Rotonda “Politica e Poteri”
Settimane Sociali, Sabato 9 ottobre 2004
1. Il potere politico e quello civile, nella
tradizione occidentale che risale ad Aristotele, coincidono. Molti ancora usano
questi termini in modo intercambiabile. Il mondo moderno, però, li ha distinti
e poi li ha differenziati sempre di più. Benché ancora molti parlino di potere
civile riferendosi allo Stato o comunque ai potere pubblici dello Stato, questo
modo di parlare dei poteri non coglie più la realtà. E tuttavia non si può non
domandarsi: se il politico e il civile si distinguono fino a separarsi, che
cosa succede? In questo intervento, Donati sostiene la tesi che occorre
modificare completamente il modo di intendere la politica (il potere politico)
e il civile (i poteri civili), non per separarli, ma per stabilire nuove
relazioni a distanza e di reciprocità, che hanno come loro perno una
modificazione dei modo di intendere le costituzioni politiche e le costituzioni
civili.
2. In Italia come altrove, da alcuni anni, molti si appellano alla società civile, ne invocano un maggiore influsso sulla politica, reclamano nuovi poteri detti di società civile. Il centro-destra è andato al governo appellandosi alla società civile contro lo statalismo. Il centro-sinistra invoca i nuovi movimenti sociali come espressione di una società civile capace di ribaltare le sorti elettorali della coalizione e farle prendere il potere politico. E allora tutti si chiedono: che cos’è la società civile? da che parte sta? quale politica sostiene? quali poteri rappresenta? come li fa valere rispetto agli altri poteri?
Se lo chiede, in particolar modo, il mondo cattolico, che – fin dalle prime edizioni delle Settimane Sociali, e poi per tradizione storica e continua rielaborazione culturale – ha sempre fatto della società civile il suo punto di forza per la legittimazione e il rinnovamento della politica. In questo intervento, si cerca di fare qualche chiarezza su questi interrogativi, in un momento storico in cui i vecchi schemi del passato non servono più (P. Donati, Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Editrice Ave, Roma, 1997).
L’idea di società civile è notoriamente assai controversa. In un certo senso, il termine “società civile” sic et simpliciter è diventato del tutto confusivo. Risulta impraticabile e anche fuorviante specie quando lo si voglia “materializzare” in questo o quel soggetto sociale, in questo o quel movimento o istituzione. Di fatto, il termine è stato impiegato, da Aristotele ad oggi, in modi assai diversi e perfino opposti. Per uscire da questi equivoci occorre compiere tre passaggi preliminari. Il primo è quello di specificare la semantica che si sta utilizzando. Il secondo è precisare a quale contesto sociale e storico ci si riferisce. Il terzo è cercare delle evidenze empiriche che precisino il significato a cui si fa riferimento e ne verifichino, per così dire, la valenza pratica (su questi punti si rimanda a P. Donati, La società civile in Italia, Mondadori, Milano, 1997; P. Donati, I. Colozzi, Generare “il civile”: nuove esperienze nella società italiana, il Mulino, Bologna, 2001). Ma più decisiva ancora è la elaborazione di una “teoria del civile” adeguata al secolo XXI in cui siamo entrati.
3. Se ci si chiede come le culture esistenti in Italia pensino la società civile, in linea teorica ed empirica (P. Donati, I. Colozzi, La cultura civile in Italia: fra stato, mercato e privato sociale, il Mulino, Bologna, 2002) possiamo trovare tre posizioni:
2. In Italia come altrove, da alcuni anni, molti si appellano alla società civile, ne invocano un maggiore influsso sulla politica, reclamano nuovi poteri detti di società civile. Il centro-destra è andato al governo appellandosi alla società civile contro lo statalismo. Il centro-sinistra invoca i nuovi movimenti sociali come espressione di una società civile capace di ribaltare le sorti elettorali della coalizione e farle prendere il potere politico. E allora tutti si chiedono: che cos’è la società civile? da che parte sta? quale politica sostiene? quali poteri rappresenta? come li fa valere rispetto agli altri poteri?
Se lo chiede, in particolar modo, il mondo cattolico, che – fin dalle prime edizioni delle Settimane Sociali, e poi per tradizione storica e continua rielaborazione culturale – ha sempre fatto della società civile il suo punto di forza per la legittimazione e il rinnovamento della politica. In questo intervento, si cerca di fare qualche chiarezza su questi interrogativi, in un momento storico in cui i vecchi schemi del passato non servono più (P. Donati, Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Editrice Ave, Roma, 1997).
L’idea di società civile è notoriamente assai controversa. In un certo senso, il termine “società civile” sic et simpliciter è diventato del tutto confusivo. Risulta impraticabile e anche fuorviante specie quando lo si voglia “materializzare” in questo o quel soggetto sociale, in questo o quel movimento o istituzione. Di fatto, il termine è stato impiegato, da Aristotele ad oggi, in modi assai diversi e perfino opposti. Per uscire da questi equivoci occorre compiere tre passaggi preliminari. Il primo è quello di specificare la semantica che si sta utilizzando. Il secondo è precisare a quale contesto sociale e storico ci si riferisce. Il terzo è cercare delle evidenze empiriche che precisino il significato a cui si fa riferimento e ne verifichino, per così dire, la valenza pratica (su questi punti si rimanda a P. Donati, La società civile in Italia, Mondadori, Milano, 1997; P. Donati, I. Colozzi, Generare “il civile”: nuove esperienze nella società italiana, il Mulino, Bologna, 2001). Ma più decisiva ancora è la elaborazione di una “teoria del civile” adeguata al secolo XXI in cui siamo entrati.
3. Se ci si chiede come le culture esistenti in Italia pensino la società civile, in linea teorica ed empirica (P. Donati, I. Colozzi, La cultura civile in Italia: fra stato, mercato e privato sociale, il Mulino, Bologna, 2002) possiamo trovare tre posizioni:
a. c’è chi pensa la società civile come un’entità fatta di individui e
solo da individui, “per natura” liberi, coscienti e responsabili (non c’è nulla
che stia «fra» loro che non sia voluto da loro stessi); questa cultura
semplicemente non pensa le relazioni
sociali: possiamo chiamarla del liberalismo,
come orientamento e atteggiamento di fondo di una cultura;
b. c’è chi pensa la società civile come entità fatta di individui mediati
dallo Stato (ciò che «sta fra» gli individui è la comunità politica organizzata
in Stato, al quale compete la migliore e più ampia legislazione possibile come
via di risoluzione dei problemi sociali); si suppone che la relazione privata
sia particolaristica, per non dire egoistica, per definizione; possiamo
chiamare questa cultura come statalistica,
perché - in ultima istanza - riporta sempre l’individuazione e la risoluzione
dei problemi allo Stato;
c. c’è chi pensa la società civile come insieme di individui (persone)
che stanno in relazione fra loro e sono agenti responsabili di ciò che avviene,
ma che pure trascende le loro forze di singoli individui (ciò che «sta fra» gli
individui sono relazioni che essi stessi agiscono, ma che dipendono dalla
comunità in cui vivono, essendo la comunità un fatto culturale prima che
politico); qui l’accento è posto su come configurare le relazioni fra gli
individui in modo autonomo sia rispetto allo Stato sia rispetto al mercato,
senza negare queste importanti istituzioni, ma neppure farsi mediare in toto da esse; l’enfasi è sulle
autonomie sociali delle organizzazioni che non dipendono né dallo Stato né dal
mercato, che non sono particolaristiche ma di solidarietà aperta alla comunità
intorno e al bene comune di chi vi partecipa; possiamo chiamare questa cultura
come associativa, o delle
soggettività sociali.
Il punto da sottolineare è il fatto che l’associazionismo di società civile in Italia non mostra una coscienza civile veramente profonda e distintiva di sé. Il fenomeno associativo ruota principalmente intorno all’area degli interessi (è una realtà in gran parte «economica» in senso analitico, cioè di utilità) o dell’identità politica del cittadino (che rimanda alle appartenenze partitiche e vede le associazioni come realtà dipendente dallo Stato).
Il punto da sottolineare è il fatto che l’associazionismo di società civile in Italia non mostra una coscienza civile veramente profonda e distintiva di sé. Il fenomeno associativo ruota principalmente intorno all’area degli interessi (è una realtà in gran parte «economica» in senso analitico, cioè di utilità) o dell’identità politica del cittadino (che rimanda alle appartenenze partitiche e vede le associazioni come realtà dipendente dallo Stato).
Quando parliamo, in Italia, della
cultura della società civile dobbiamo senza dubbio intendere che essa è
basicamente tripartita (nelle tre culture del mercato, della società politica e
del mondo associativo). Trova certamente un pilastro in nella cultura del
privato sociale, in quanto distinta dalla cultura mercantile e da quella
pubblico-statalista (P. Donati, I. Colozzi, Il
privato sociale che emerge: realtà e dilemmi, il Mulino, Bologna, 2004). Dunque, una cultura del civile come cultura delle relazioni
prosociali non mercantili e non politicizzate esiste. Ma non appartiene
esclusivamente al mondo associativo. Il fatto di essere associati risulta
discriminante per la cultura civile del privato sociale solamente in certe
dimensioni, in particolare quelle che la differenziano dal privatismo
mercantile (ma non rispetto alla solidarietà che si identifica nella
cittadinanza statuale). Il che significa che l’associazionismo è in minima parte fonte di società civile nel senso
specificatamente associazionale del termine, mentre l’associazionismo
sociale sostiene prioritariamente la cultura del civile che mette capo allo
Stato, distinguendosi decisamente dall’altra cultura del civile, quella che
mette capo ai soggetti associativi di mercato.
Possiamo dunque dire che le organizzazioni civili entrano nella sfera pubblica con un grado di autonomia piuttosto scarso. Così, si spiega perché la sfera pubblica rimanga un’arena assai indeterminata, dove il concetto stesso di «pubblico» è quanto mai incerto, ibrido, e tale da sfumare all’orizzonte. Pubblico non è certamente solo e soltanto ciò che appartiene allo Stato e ai suoi apparati, ma anche la sfera dove si incontrano i soggetti associativi di società civile. Però, per il fatto di includere anche le realtà associative, la società civile non si colora di toni diversi: rimane quella che è definita dallo Stato, in quanto sistema politico-amministrativo che eroga benefici a coloro che dovrebbero essere cittadini-soggetti, ma che in realtà sono soltanto cittadini-destinatari di benefici più o meno discrezionali e clientelari.
Le culture del civile sono certamente plurali, in quanto usano semantiche differenti su punti qualificanti, cioè su valori e simboli ultimi, che le distinguono chiaramente. Il loro minimo comune denominatore sta in un’idea abbastanza vaga di «civicità» degli attori, che include il senso civico (non fare ciò che può causare danno agli altri) e, come espressione di questo, il rispetto delle leggi. Ma tale comune denominatore è debole quando si passa dal piano del “buon cittadino” al piano delle convergenze su valori e «simboli ultimi». La società civile che si esprime attraverso questi ultimi non solo appare frammentata, ma anche debole in termini di capacità di civilizzazione. Prevale il codice politico, dunque la società civile come luogo di una «cultura democratica» che consiste nella volontà di garantire le libertà private ai cittadini e nello stesso tempo controllarli perché ciò avvenga per tutti in maniera uguale. Per tale codice simbolico, la democrazia non è molto di più di una scatola vuota quanto alle scelte di valore.
In una prospettiva temporale di lungo termine, c’è il rischio che anche le tradizioni culturali che finora hanno sostenuto la cultura del civile in Italia, a partire dal suo nucleo più semplice, quello del civismo (come agire civico), vadano deperendo senza che una nuova cultura del civile le rimpiazzi. Non sembra che i responsabili istituzionali del sistema politico, e tantomeno il mercato, siano consapevoli di questa deriva e delle sue possibili implicazioni. Quando ne prendono una larvata coscienza, non sembra che se ne preoccupino più di tanto. Dopotutto, per loro, la cultura del civile non è nient’altro che l’uso del privato sociale per compensare i fallimenti dello Stato e del mercato, rafforzando soprattutto il primo come garante hobbesiano dell’ordine sociale.
La stragrande maggioranza dei cittadini mostra, in effetti, un grande attaccamento al particolare, inteso come interesse individualistico e di piccoli gruppi di lealtà «locali» (sia territoriali, sia relazionali), soprattutto economiche. Non è l’individualismo anomico che prevale, ma l’individualismo delle lealtà a corto raggio. Con precise differenze, però: una parte chiede che il proprio individualismo (istituzionalizzato) sia difeso essenzialmente dallo stato (circa il 28%), un’altra parte preferisce che sia soprattutto affidato al mercato (circa il 25%), e solo il rimanente (circa 35%) lo vede salvaguardato da formazioni sociali intermedie che agiscano come attori privati pro-sociali. Il complesso lib/lab (il civile inteso come compromesso fra stato e mercato) appare prevalente. Il panorama è certamente molto frastagliato, mobile, incerto, così da rendere anche le concezioni lib/lab prive di sicure certezze.
Qual è il messaggio che queste considerazioni sui dati della situazione suggeriscono ?
Il primo messaggio può essere sintetizzato dicendo che le grandi costellazioni simboliche tradizionali del civile, tipiche della modernità, appaiono soggette a processi di sbriciolamento e frammentazione da un lato, ibridazione e fusionalità dall’altro.
Da un lato, cadono i tre grandi sistemi simbolici del civile che hanno dominato la scena del secolo XX: a) il civile inteso come appartenenza al mondo delle lealtà ascrittive del tradizionalismo civico (quale ancora lo pensano alcuni studiosi, per esempio R. Putnam); b) il civile inteso come «primato del politico», sia nella forma delle utopie rivoluzionarie sia nella forma di unità organica dello stato (concezioni che sono state molto forti sino a qualche anno fa); c) il civile inteso come ideologia del mercato degli scambi onesti e simpatetici (cui oggi si rifà un certo neo-liberismo “etico”). Tutte queste culture del civile sono messe in crisi dai processi di globalizzazione, e si può osservare che, in buona misura, vengono spazzate via.
Dall’altro, proprio il venire meno delle concezioni del civile emerse o sopravvissute nel corso della modernità produce nuove opportunità e apre nuovi orizzonti. In apparenza si crea una situazione di maggiore confusione. Ibridazione e fusionalità fra gli elementi che caratterizzano una cultura civile sono tipici di una condizione di transizione come quella attuale, in Italia, in cui il vecchio scompare senza che emergano costellazioni simboliche alternative dotate di una forte coerenza distintiva. È il prezzo da pagare per un cambiamento culturale che avviene nel bel mezzo di un’epoca incerta, irrequieta, disorientata. Però, sotto la confusione, si può osservare che sono all’opera delle forze che tessono i fili di una nuova trama, in cui i fili del civile vengono a essere utilizzati in modi diversi dal passato, e anche rigenerati. Esiste una porzione significativa, anche se minoritaria, del Paese che sta lavorando per edificare una sfera di privato sociale all’altezza delle sfide di una società civile che non si vuole ridurre a mercato, laddove lo stato non è più pensabile come soluzione hobbesiana dell’ordine, non solo perché fallisce nei suoi compiti, ma perché accentua la sua autoreferenzialità, in un eterno compromesso di utilità reciproca con il mercato.
Gli orientamenti di cultura civile che possiamo chiamare delle «autonomie sociali» esistono negli interstizi caratterizzati dal rifiuto sia delle vecchie ideologie liberali (lib) e socialiste (lab), sia dei cocktail del post-moderno. Si tratta indubbiamente di isole o nicchie in un mare che si va «globalizzando». Ma ciò che appare significativo è il fatto che si produca una innovazione culturale sul modo di pensare la sfera pubblica in quanto luogo delle relazioni fra i soggetti privati e le istituzioni politiche.
4. Per concludere. Particolarmente in Italia, la società civile è un insieme di culture che hanno una scarsa elaborazione autonoma: per un terzo circa sono omogenee al sistema politico-partitico (le organizzazioni civili si comportano come fossero dei partiti politici, ovvero si concepiscono in funzione di questi, quasi che le forze sociali, alla maniera gramsciana, dovessero esistere in funzione della presa del potere e dell’egemonia politica); per quasi un terzo intendono il civile alla maniera del mercato; e solo per poco più di un terzo intendono il civile come sfera di relazioni sociali originarie e originali, dotate di una propria intrinseca forza di civilizzazione (e non solo di democratizzazione politica). Ecco perché, in Italia, è così forte la lotta fra chi parteggia per una società civile concepita come sfera dove si gioca “la politica” (a cui viene conferito un qualche primato) e chi parteggia per una concezione liberistica, ovvero mercantile, della società civile dove si giocano le libertà individuali. Benché distanti e anche opposti, questi due schieramenti condividono, in fondo, una stessa visione della società civile, come luogo dei conflitti che possono essere risolti solo con la soluzione hobbesiana dell’ordine sociale, cioè ricorrendo al Leviatano, che è poi lo Stato. Abbiamo esempi egregi di uomini politici (anche Ministri della Repubblica) che dicono di avere una concezione liberale della società civile, ma poi, nell’agire pratico, la trattano come se fossero al posto del Leviatano. Più facile è vedere uomini politici che credono nel primato della politica e trattano la società civile come base del loro potere politico imperniato sullo Stato, ma questo è più comprensibile e coerente con le loro premesse. Meno comprensibile è che la stessa visione sia condivisa dai responsabili delle grandi organizzazioni del privato sociale e del terzo settore.
Nel mezzo, c’è chi non condivide né l’una né l’altra impostazione. Si tratta del mondo autenticamente associativo, nel quale si distinguono le sfere guidate essenzialmente da motivi culturali e religiosi profondi. Ma si tratta di una parte minoritaria, all’incirca un terzo (molte sfumature e confini poco definiti), anche se eticamente qualificata. È quella che ha un’idea della democrazia associativa (anziché della democrazia procedurale, tipicamente di genere ‘hobbesiano’). Date queste distinzioni, tutto il resto ne viene di conseguenza.
Ecco allora qualche risposta agli interrogativi iniziali.
La società civile non è né di destra né di sinistra, perché il suo codice non è politico, ma civile. Il partito politico, qualunque sia, che invoca la società civile, lo fa, se lasciamo da parte gli ovvi motivi ideologici e demagogici, per riferimento a quei gruppi e movimenti sociali che pensa siano suoi sostenitori. Così divide politicamente la società civile, che invece dovrebbe respingere questa strumentalizzazione. Si tratta di una trappola: quando la società civile si lascia sussumere nel codice della politica, si omologa al sistema politico. Una relazione fra società civile e società politica deve esserci: ma “a distanza”, nei rispettivi ruoli e competenze, dunque come relazione di reciproca sussidiarietà critica (P. Donati, La cittadinanza societaria, Editori Laterza, Roma-Bari, 2000). Critico vuol qui dire misurare la politica sul metro del codice etico, al quale essa dovrebbe ultimativamente rispondere. Ma la strada di questa distinzione è sempre lunga e difficile da percorrere, e deve essere rifatta in ogni momento. Non solo perché la società politica cerca continuamente di “arruolare” la società civile, ma anche perché la stessa società civile deve continuamente rielaborare in se stessa il senso del civile, e non è detto che ce la faccia.
Che cosa significa, allora, “civile”? In linea di principio, il civile si distingue da tutto ciò che non lo è: il barbaro, il militare, il disumano. Ogni semantica del civile è elaborata quando appare una nuova categoria di “inciviltà”. In breve: la società civile sta là dove vengono continuamente rielaborate queste distinzioni. Al fondo di queste operazioni, che sono culturali, c’è il senso ultimo della vita, che viene sfidato: ecco perché la religione è la prima e più fondamentale sfera della società civile. Ma sembra che ciò non sia compreso, né dal razionalismo neo-illuministico (si veda la bozza di Trattato Costituzionale della Unione Europea) incapace di vedere i presupposti religiosi di queste distinzioni, né, in certi casi, da parte di quel cosiddetto mondo cattolico che continua a mettere il proprio destino nelle mani del codice della politica, pensando che tutto o quasi dipenda dai poteri dello Stato.
Bisogna produrre una nuova distinzione virtuosa fra il potere politico e il potere civile: al primo appartiene il compito della composizione fra le diversità (di interessi e di identità culturali) nel quadro di una costante ricerca di obiettivi comuni, e, per quanto possibile, di valori universali; al secondo appartiene il compito di ridefinire continuamente il civile per distinzione con l’“incivile” e di farlo valere come potere nei confronti del potere politico. Questo significa che dobbiamo distinguere fra le costituzioni politiche e le costituzioni civili, e promuovere soprattutto queste ultime, dato che nel mondo della globalizzazione sono le più carenti, in modo che dall’insieme di queste costituzioni civili, per via di governance, emergano nuove costituzioni politiche che abbiano un fondamento veramente civile.
Possiamo dunque dire che le organizzazioni civili entrano nella sfera pubblica con un grado di autonomia piuttosto scarso. Così, si spiega perché la sfera pubblica rimanga un’arena assai indeterminata, dove il concetto stesso di «pubblico» è quanto mai incerto, ibrido, e tale da sfumare all’orizzonte. Pubblico non è certamente solo e soltanto ciò che appartiene allo Stato e ai suoi apparati, ma anche la sfera dove si incontrano i soggetti associativi di società civile. Però, per il fatto di includere anche le realtà associative, la società civile non si colora di toni diversi: rimane quella che è definita dallo Stato, in quanto sistema politico-amministrativo che eroga benefici a coloro che dovrebbero essere cittadini-soggetti, ma che in realtà sono soltanto cittadini-destinatari di benefici più o meno discrezionali e clientelari.
Le culture del civile sono certamente plurali, in quanto usano semantiche differenti su punti qualificanti, cioè su valori e simboli ultimi, che le distinguono chiaramente. Il loro minimo comune denominatore sta in un’idea abbastanza vaga di «civicità» degli attori, che include il senso civico (non fare ciò che può causare danno agli altri) e, come espressione di questo, il rispetto delle leggi. Ma tale comune denominatore è debole quando si passa dal piano del “buon cittadino” al piano delle convergenze su valori e «simboli ultimi». La società civile che si esprime attraverso questi ultimi non solo appare frammentata, ma anche debole in termini di capacità di civilizzazione. Prevale il codice politico, dunque la società civile come luogo di una «cultura democratica» che consiste nella volontà di garantire le libertà private ai cittadini e nello stesso tempo controllarli perché ciò avvenga per tutti in maniera uguale. Per tale codice simbolico, la democrazia non è molto di più di una scatola vuota quanto alle scelte di valore.
In una prospettiva temporale di lungo termine, c’è il rischio che anche le tradizioni culturali che finora hanno sostenuto la cultura del civile in Italia, a partire dal suo nucleo più semplice, quello del civismo (come agire civico), vadano deperendo senza che una nuova cultura del civile le rimpiazzi. Non sembra che i responsabili istituzionali del sistema politico, e tantomeno il mercato, siano consapevoli di questa deriva e delle sue possibili implicazioni. Quando ne prendono una larvata coscienza, non sembra che se ne preoccupino più di tanto. Dopotutto, per loro, la cultura del civile non è nient’altro che l’uso del privato sociale per compensare i fallimenti dello Stato e del mercato, rafforzando soprattutto il primo come garante hobbesiano dell’ordine sociale.
La stragrande maggioranza dei cittadini mostra, in effetti, un grande attaccamento al particolare, inteso come interesse individualistico e di piccoli gruppi di lealtà «locali» (sia territoriali, sia relazionali), soprattutto economiche. Non è l’individualismo anomico che prevale, ma l’individualismo delle lealtà a corto raggio. Con precise differenze, però: una parte chiede che il proprio individualismo (istituzionalizzato) sia difeso essenzialmente dallo stato (circa il 28%), un’altra parte preferisce che sia soprattutto affidato al mercato (circa il 25%), e solo il rimanente (circa 35%) lo vede salvaguardato da formazioni sociali intermedie che agiscano come attori privati pro-sociali. Il complesso lib/lab (il civile inteso come compromesso fra stato e mercato) appare prevalente. Il panorama è certamente molto frastagliato, mobile, incerto, così da rendere anche le concezioni lib/lab prive di sicure certezze.
Qual è il messaggio che queste considerazioni sui dati della situazione suggeriscono ?
Il primo messaggio può essere sintetizzato dicendo che le grandi costellazioni simboliche tradizionali del civile, tipiche della modernità, appaiono soggette a processi di sbriciolamento e frammentazione da un lato, ibridazione e fusionalità dall’altro.
Da un lato, cadono i tre grandi sistemi simbolici del civile che hanno dominato la scena del secolo XX: a) il civile inteso come appartenenza al mondo delle lealtà ascrittive del tradizionalismo civico (quale ancora lo pensano alcuni studiosi, per esempio R. Putnam); b) il civile inteso come «primato del politico», sia nella forma delle utopie rivoluzionarie sia nella forma di unità organica dello stato (concezioni che sono state molto forti sino a qualche anno fa); c) il civile inteso come ideologia del mercato degli scambi onesti e simpatetici (cui oggi si rifà un certo neo-liberismo “etico”). Tutte queste culture del civile sono messe in crisi dai processi di globalizzazione, e si può osservare che, in buona misura, vengono spazzate via.
Dall’altro, proprio il venire meno delle concezioni del civile emerse o sopravvissute nel corso della modernità produce nuove opportunità e apre nuovi orizzonti. In apparenza si crea una situazione di maggiore confusione. Ibridazione e fusionalità fra gli elementi che caratterizzano una cultura civile sono tipici di una condizione di transizione come quella attuale, in Italia, in cui il vecchio scompare senza che emergano costellazioni simboliche alternative dotate di una forte coerenza distintiva. È il prezzo da pagare per un cambiamento culturale che avviene nel bel mezzo di un’epoca incerta, irrequieta, disorientata. Però, sotto la confusione, si può osservare che sono all’opera delle forze che tessono i fili di una nuova trama, in cui i fili del civile vengono a essere utilizzati in modi diversi dal passato, e anche rigenerati. Esiste una porzione significativa, anche se minoritaria, del Paese che sta lavorando per edificare una sfera di privato sociale all’altezza delle sfide di una società civile che non si vuole ridurre a mercato, laddove lo stato non è più pensabile come soluzione hobbesiana dell’ordine, non solo perché fallisce nei suoi compiti, ma perché accentua la sua autoreferenzialità, in un eterno compromesso di utilità reciproca con il mercato.
Gli orientamenti di cultura civile che possiamo chiamare delle «autonomie sociali» esistono negli interstizi caratterizzati dal rifiuto sia delle vecchie ideologie liberali (lib) e socialiste (lab), sia dei cocktail del post-moderno. Si tratta indubbiamente di isole o nicchie in un mare che si va «globalizzando». Ma ciò che appare significativo è il fatto che si produca una innovazione culturale sul modo di pensare la sfera pubblica in quanto luogo delle relazioni fra i soggetti privati e le istituzioni politiche.
4. Per concludere. Particolarmente in Italia, la società civile è un insieme di culture che hanno una scarsa elaborazione autonoma: per un terzo circa sono omogenee al sistema politico-partitico (le organizzazioni civili si comportano come fossero dei partiti politici, ovvero si concepiscono in funzione di questi, quasi che le forze sociali, alla maniera gramsciana, dovessero esistere in funzione della presa del potere e dell’egemonia politica); per quasi un terzo intendono il civile alla maniera del mercato; e solo per poco più di un terzo intendono il civile come sfera di relazioni sociali originarie e originali, dotate di una propria intrinseca forza di civilizzazione (e non solo di democratizzazione politica). Ecco perché, in Italia, è così forte la lotta fra chi parteggia per una società civile concepita come sfera dove si gioca “la politica” (a cui viene conferito un qualche primato) e chi parteggia per una concezione liberistica, ovvero mercantile, della società civile dove si giocano le libertà individuali. Benché distanti e anche opposti, questi due schieramenti condividono, in fondo, una stessa visione della società civile, come luogo dei conflitti che possono essere risolti solo con la soluzione hobbesiana dell’ordine sociale, cioè ricorrendo al Leviatano, che è poi lo Stato. Abbiamo esempi egregi di uomini politici (anche Ministri della Repubblica) che dicono di avere una concezione liberale della società civile, ma poi, nell’agire pratico, la trattano come se fossero al posto del Leviatano. Più facile è vedere uomini politici che credono nel primato della politica e trattano la società civile come base del loro potere politico imperniato sullo Stato, ma questo è più comprensibile e coerente con le loro premesse. Meno comprensibile è che la stessa visione sia condivisa dai responsabili delle grandi organizzazioni del privato sociale e del terzo settore.
Nel mezzo, c’è chi non condivide né l’una né l’altra impostazione. Si tratta del mondo autenticamente associativo, nel quale si distinguono le sfere guidate essenzialmente da motivi culturali e religiosi profondi. Ma si tratta di una parte minoritaria, all’incirca un terzo (molte sfumature e confini poco definiti), anche se eticamente qualificata. È quella che ha un’idea della democrazia associativa (anziché della democrazia procedurale, tipicamente di genere ‘hobbesiano’). Date queste distinzioni, tutto il resto ne viene di conseguenza.
Ecco allora qualche risposta agli interrogativi iniziali.
La società civile non è né di destra né di sinistra, perché il suo codice non è politico, ma civile. Il partito politico, qualunque sia, che invoca la società civile, lo fa, se lasciamo da parte gli ovvi motivi ideologici e demagogici, per riferimento a quei gruppi e movimenti sociali che pensa siano suoi sostenitori. Così divide politicamente la società civile, che invece dovrebbe respingere questa strumentalizzazione. Si tratta di una trappola: quando la società civile si lascia sussumere nel codice della politica, si omologa al sistema politico. Una relazione fra società civile e società politica deve esserci: ma “a distanza”, nei rispettivi ruoli e competenze, dunque come relazione di reciproca sussidiarietà critica (P. Donati, La cittadinanza societaria, Editori Laterza, Roma-Bari, 2000). Critico vuol qui dire misurare la politica sul metro del codice etico, al quale essa dovrebbe ultimativamente rispondere. Ma la strada di questa distinzione è sempre lunga e difficile da percorrere, e deve essere rifatta in ogni momento. Non solo perché la società politica cerca continuamente di “arruolare” la società civile, ma anche perché la stessa società civile deve continuamente rielaborare in se stessa il senso del civile, e non è detto che ce la faccia.
Che cosa significa, allora, “civile”? In linea di principio, il civile si distingue da tutto ciò che non lo è: il barbaro, il militare, il disumano. Ogni semantica del civile è elaborata quando appare una nuova categoria di “inciviltà”. In breve: la società civile sta là dove vengono continuamente rielaborate queste distinzioni. Al fondo di queste operazioni, che sono culturali, c’è il senso ultimo della vita, che viene sfidato: ecco perché la religione è la prima e più fondamentale sfera della società civile. Ma sembra che ciò non sia compreso, né dal razionalismo neo-illuministico (si veda la bozza di Trattato Costituzionale della Unione Europea) incapace di vedere i presupposti religiosi di queste distinzioni, né, in certi casi, da parte di quel cosiddetto mondo cattolico che continua a mettere il proprio destino nelle mani del codice della politica, pensando che tutto o quasi dipenda dai poteri dello Stato.
Bisogna produrre una nuova distinzione virtuosa fra il potere politico e il potere civile: al primo appartiene il compito della composizione fra le diversità (di interessi e di identità culturali) nel quadro di una costante ricerca di obiettivi comuni, e, per quanto possibile, di valori universali; al secondo appartiene il compito di ridefinire continuamente il civile per distinzione con l’“incivile” e di farlo valere come potere nei confronti del potere politico. Questo significa che dobbiamo distinguere fra le costituzioni politiche e le costituzioni civili, e promuovere soprattutto queste ultime, dato che nel mondo della globalizzazione sono le più carenti, in modo che dall’insieme di queste costituzioni civili, per via di governance, emergano nuove costituzioni politiche che abbiano un fondamento veramente civile.
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