L’America nella quale il giovane
Hugo iniziò la sua opera era solo apparentemente pacificata dalla cosiddetta
“fine della storia”. Questa, in America latina, non era stata il trionfo della
libertà come nell’Europa dove cadeva il muro di Berlino. Era stata invece
imposta nelle camere di tortura, con i desaparecidos del Piano Condor e con la
carestia indotta dal Fondo Monetario Internazionale. Il migliore dei mondi
possibili lasciava all’America latina un ruolo subalterno e ai latinoamericani
la negazione di diritti umani e civili essenziali. Carlos Andrés Pérez, da
vicepresidente dell’Internazionale socialista in carica, massacrava nell’89
migliaia di cittadini inermi di Caracas per ottemperare ai voleri dell’FMI.
L’America che oggi lascia Hugo Chávez, ad appena 58 anni, è un continente
completamente diverso. È un continente in corso di affrancamento da molte delle
sue dipendenze storiche e rinfrancato da una crescita costante che, per la prima
volta, è stata sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire
diritti.
Non voglio tediare il lettore e
citerò solo un paio di dati indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella
considerata una gran democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del
petrolio restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70%
(49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore
populista” Chávez ne restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato affianco
la moltiplicazione del 2.300% degli investimenti in ricerca scientifica e il
ricordo che, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, è stato
costruito da zero un sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai
bisogni di tutti.
Oggi che il demonio Chávez è
morto, è sotto gli occhi di chiunque abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo
cosa hanno rappresentato tre lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli
osservatori onesti, a partire dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che
gli ha rivolto un toccante messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero
democratico e il militante che si è dedicato fino all’ultimo istante
«all’impegno per il miglioramento della vita dei suoi compatrioti». No, Jimmy
Carter non è… chavista. Semplicemente è intellettualmente onesto ed è andato a
vedere. Tutto il resto, la demonizzazione, la calunnia sfacciata, la
rappresentazione caricaturale, è solo squallida disinformazione.
Chávez entra oggi nella storia
ed è già leggenda perché ha mantenuto i patti e fatto quello che è l’essenza
dell’idea di sinistra: lottare con ogni mezzo per la giustizia sociale, dare
voce a chi non ha voce, diritti a chi non ha diritti, raggiungendo straordinari
risultati concreti. In questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha
fatto in un paese terribilmente difficile come il Venezuela. Ha chiamato il suo
cammino “socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine
demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e democrazia, ha
realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente socialista: prendere la
ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel petrolio, e investirla in beneficio
delle classi popolari. Lo ha fatto al di là della retorica rivoluzionaria,
propria di anni caldissimi di lotta politica, da formichina riformista. Utilizzo
il termine “riformista” sapendo che a molti, sia apologeti che critici, non
piace pensare che Chávez non sia stato altro che un riformista, ma radicale, in
grado di raggiungere risultati considerati impossibili sulla base di defaticanti
trattative e su politiche basate sulla ricerca del consenso e sulla
partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato al gioco democratico
un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e José María Aznar (molto
meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel fallito golpe dell’11 aprile
2002 quando un popolo intero lo riportò a Miraflores e nella susseguente serrata
golpista di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionalizzata. È il controllo di
quest’ultima ad aver garantito la cassaforte di politiche sociali generose.
È questo che la sinistra da
operetta europea non ha mai perdonato a Chávez. Per la sinistra europea
l’America latina è un remoto ricordo di gioventù, non un continente parte della
nostra stessa storia. È troppo facile archiviare la presunta anomalia chavista,
che è quella di un Continente, l’America latina dove destra e sinistra hanno più
senso che mai, ed è necessario schierarsi, come un’utopia da chitarrate estive,
Intillimani e hasta siempre comandante. È troppo scomodo riconoscerne la prassi
politica nelle due battaglie storiche che Hugo Chávez ha incarnato: la lotta di
classe, che portò Chávez, il ragazzo di umili origini che per studiare poteva
fare solo il militare o il prete, a scegliere di stare dalla parte degli umili,
e quella anticoloniale che ha preso forma nel processo d’integrazione del
Continente.
Il consenso, la partecipazione
al progetto chavista, si misura proprio nella vigenza, nelle classi medie e
popolari venezuelane, di un pensiero contro-egemonico rispetto a quello liberale
dell’imperio dell’economia sulla politica. I latinoamericani hanno maturato nei
decenni scorsi solidi anticorpi in merito. Chávez ha catalizzato tali anticorpi
riportando in auge il ruolo della lotta di classe nella Storia, la continuità
della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere
e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare
per sanare i guasti di 500 anni. Lo accusano di aver usato a fini di consenso la
polemica contro gli Stati Uniti. C’è del vero, ma non è stato Chávez a tentare
sistematicamente di rovesciare il presidente degli Stati Uniti e non è il dito
di Chávez ad oscurare la luna di rapporti diseguali e ingiusti tra Nord e Sud
del mondo.
Si conceda a chi scrive il
ricordo dell’intervista quasi visionaria che Chávez mi concesse a fine
2004 proprio sul tema della Patria grande latinoamericana. Sento ancora la forza
del suo abbraccio al momento di salutarci. Con lui c’erano Lula e Néstor
Kirchner, anch’egli scomparso neanche sessantenne nel momento di massima
lucidità politica, dopo aver liberato l’Argentina dalla morsa dell’FMI e
restaurato lo Stato di diritto in grado di processare i violatori di diritti
umani. Poi vennero Evo Morales e tutti gli altri dirigenti protagonisti della
primavera latinoamericana. A Mar del Plata nel 2005 tutti insieme sconfissero il
progetto criminale di George Bush che con l’ALCA voleva trasformare l’intera
America latina in una maquiladora al servizio della competizione
globale degli USA contro la Cina. Dire “no” agli USA: qualcosa
d’impensabile!
Adesso, seppellita la pietra
dello scandalo Chávez, tutti sono certi che l’anomalia rientrerà, che Nicolás
Maduro non sarà all’altezza, che il partito socialista esploderà per rivalità
personali e che la storia riprenderà il proprio corso come se Hugo non fosse mai
esistito. Chissà; ma cento volte nell’ultimo decennio i venezuelani e i
latinoamericani hanno dimostrato di ragionare con la loro testa. Hanno
dimostrato di non voler tornare al modello che hanno vissuto per decenni e che
oggi sta divorando il sud dell’Europa. La forza del Brasile di Dilma come
potenza regionale ha superato con successo vari esami di legittimazione. Il
processo d’integrazione appare un fatto irreversibile che fa da pilastro
all’impedire il ritorno del «Washington consensus». No, una semplice
restaurazione non è all’ordine del giorno anche se dovesse cambiare il segno
politico del governo venezuelano, cosa improbabile sul breve termine, anche per
l’enorme emotività causata dalla scomparsa di un leader così popolare.
Da oggi qualunque governo
venezuelano e latinoamericano si dovrà misurare con la leggenda di Chávez, il
presidente invitto, quattro volte rieletto dal suo popolo, in grado di
sopravvivere a golpe e complotti, che aveva tutti i media contro e che solo il
cancro ha sconfitto. Di dirigenti come lui o Néstor Kirchner non ne nascono
tanti e il futuro non è segnato. Ma il suo lascito è enorme ed è un patrimonio
che resta nelle mani del popolo.
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