venerdì 29 giugno 2012

Honduras, un reportage

Il miraggio di una riforma agraria Il 28 giugno 2009 un colpo di Stato ha rovescito il governo di Manuel "Mel" Zelaya, in Honduras. Sono passati tre anni, e formalmente il Paese è tornato alla democrazia, ma ancora oggi la terra e le risorse naturali restano al centro del conflitto tra l’oligarchia e la popolazione indigena e contadina

di Yukai Ebisuno e Raffaella Mantegazza [testo e foto] - 26 giugno 2012

 
Tratto da AE139
 
 
 

 
Nelle capanne di legno erette nelle terre contese tra contadini e latifondisti, il colpo di Stato del giugno 2009 non può essere dimenticato.
Prima di allora, in Honduras qualcosa stava finalmente cambiando. L’allora presidente Manuel Zelaya aveva iniziato il processo di titolazione delle terre per le comunità contadine e indigene, dopo aver approvato  nel 2008 una legge sulla riforma agraria. Era nata una nuova speranza per il popolo honduregno, 7,6 milioni di abitanti, il 64% dei quali vive al si sotto della soglia di povertà, che finalmente vedeva riconosciuti i propri diritti sulla terra.
Un sogno svanito il 28 giugno 2009, quando, per mano dei militari, Zelaya è stato arrestato per attentato alla Costituzione e sostituito dall’imprenditore di origini bergamasche Roberto Micheletti, presidente ad interim fino alle elezioni del 2010, quando è stato eletto Porfirio “Pepe” Lobo Sosa.
Da allora, per la politica internazionale e per i media la situazione in Honduras si è normalizzata. È tornata la democrazia, dicono.
Per gli honduregni, invece, il golpe ha aperto una fase storica caratterizzata dalla violenza. È tornato ad agitare i sonni il fantasma del decennio perduto degli anni 80, quando omicidi politici, detenzioni forzate e sparizioni erano all’ordine del giorno.
Nel novembre del 2011 il Congresso honduregno ha dato all’esercito la facoltà di svolgere funzioni di polizia, militarizzando di fatto il Paese. Dina Meza, Bertha Oliva e Noemi Nrez, appartenenti al Comitato di familiari di detenuti desaparecidos in Honduras (Cofadeh, www.cofadeh.org), sono state recentemente vittime di minacce da parte del “Comando Alvarez Martinez”, uno squadrone della morte che deve il proprio nome a un militare responsabile di centinaia di sparizioni, omicidi e torture durante gli anni 80.
Dopo il colpo di Stato del 2009, denuncia il Cofadeh, sono stati assassinati 23 giornalisti, più di 80 membri della comunità lesbica, gay, bisessuale e transgender (Lgbt), quasi 60 contadini e decine di membri del Fronte nazionale di resistenza popolare (www.resistenciahonduras.net) il movimento protagonista della resistenza popolare dopo il golpe.
Alla base del conflitto tra la popolazione e la classe dirigente, pilotata dai membri delle dodici famiglie più ricche del Paese, vi è il controllo della terra e delle risorse naturali e minerarie, che sono la grande ricchezza del poverissimo dell’Honduras. Il sottosuolo è ricco di metalli preziosi, che contribuiscono al 25,9% delle esportazioni del Paese; in superficie i fiumi rappresentano fonti di energia e di denaro, anche per le grandi imprese di costruzioni impegnate nella realizzazione di grandi opere, come la diga di Nacaome, firmata dall’italiana Astaldi, o quella di Cajòn, realizzata da Impregilo.
Le terre fertili del Nord-est del Paese, in particolare la valle dell’Aguan, sono invece contese tra il Movimento Unificado Campesino del Aguan (Muca, movimientomuca.blogspot.it) e Miguel Facussé, l’uomo più ricco e potente del Paese. Reclamate dai contadini già dai primi anni Novanta, sono oggi teatro di violenze che hanno portato -negli ultimi 2 anni- alla morte di 45 contadini affiliati al Muca e alla militarizzazione del territorio. Anche a Zacate Grande (la realtà cui fanno riferimento le foto di questo reportage) la lotta per la terra è decennale. Nel 1998 la popolazione della penisola, ubicata nel golfo di Fonseca, unico sbocco honduregno sull’Oceano Pacifico, non avendo ottenuto nessun appoggio da parte dello Stato, si è riunita nel Movimento di recupero delle terre di Zacate Grande e nell’Associazione per lo sviluppo della penisola (Adepza). L’obiettivo è far riconoscere legalmente il loro diritto alla terra e alle spiagge, in quanto popolazione originaria della penisola, al fine di implementare, attraverso micro-progetti locali, uno sviluppo sostenibile comunitario.
Le famiglie più potenti del Paese, riunite nel Club de Coyolito, negli ultimi 30 anni si sono impossessate dell’80% delle terre e delle spiagge della penisola di Zacate Grande, sottraendole ai contadini e ai pescatori della zona, impedendo l’accesso con recinzioni e guardie armate, poste per difendere proprietà i cui titoli sono stati acquistati dallo Stato o, spesso, semplicemente auto-dichiarati.
Ma i catrachos (come si definiscono in gergo gli honduregni) non si arrendono facilmente. A Zacate Grande hanno deciso di resistere agli espropri delle terre con l’arma della comunicazione. Con l’appoggio della solidarietà internazionale due anni fa a Puerto Grande, l’aldea (comunità) più numerosa della penisola, è stata installata una radio comunitaria. In questa penisola il golpe del 2009 non può essere dimenticato anche perché a ricordarlo, ogni giorno, c’è La Voz de Zacate Grande, una “voce del popolo per il popolo”, che denuncia la violenza, l’ingiustizia e l’arroganza che l’esercito honduregno e i paramilitari continuano ad infliggere.
Le trasmissioni, tenute da un gruppo di giovani volontari, hanno due funzioni principali. La prima è una contro-informazione su ciò che avviene nel Paese, dando voce alle notizie invisibili, censurate dalle emittenti principali; l’altra è aggiornare in diretta la popolazione di Zacate Grande sulla cronaca locale, fungendo anche da strumento di allarme contro possibili violazioni.
Con un raggio di trasmissione di alcuni chilometri, la radio saluta ogni mattina Miguel Facussé, il grande latifondista e proprietario della Corporación Dinant (snack, alimenti, grassi, oli, prodotti agricoli, combustibili) che da anni minaccia di sgombero la comunità che sorge sulle terre che ufficialmente sono sue. La radio ricorda a Facussé che Zacate Grande è libera, e che “la terra non si vende, si coltiva e si difende”. La Voz de Zacate Grande sorge in un tratto di terra contesa, a poche decine di metri dal mare e da una delle ultime tre spiagge ancora libere e raggiungibili delle 64 presenti nella penisola.
Il mare, l’altra grande fonte di sostentamento per la popolazione di Zacate. Almeno fino agli anni 70, quando lo sviluppo industriale dell’allevamento di gamberi per l’esportazione e la pesca intensiva hanno distrutto l’ecosistema marino, minacciando la popolazione locale, che traeva dalla pesca tradizionale buona parte del proprio fabbisogno. “La quantità di pesce è diminuita notevolmente negli ultimi anni, per questo siamo dovuti passare anche noi all’allevamento di gamberi nelle lagune artificiali” ci racconta don Chepe, un anziano di Puerto Grande, mentre ripara la sua rete da pesca. Con la distruzione di più del 50% della foresta di mangrovie, l’industria del gambero è diventata l’unica fonte di reddito salariato per la penisola, costringendo molte persone a lavorare proprio per quelle imprese i cui proprietari sono gli stessi che minacciano gli sgomberi.
Per non cedere a questo ricatto, l’Associazione per lo sviluppo della penisola ha istituito una cassa rurale per finanziare micro-progetti di sviluppo, tra cui alcune lagune per l’allevamento di gamberi di proprietà della comunità, che sorgono su terre il cui titolo -come sempre- è di Miguel Facussé. Per questo i leader dell’associazione stanno subendo minacce ed attentati ai quali, per ora, sono riusciti a sopravvivere. Di fronte alle ripetute violenze, Adepza, in collaborazione con altri movimenti di base come il Copinh (Consiglio civico delle organizzazioni popolari indigene e nere dell’Honduras) e il Cofadeh ha fatto appello alla comunità internazionale per l’installazione di un accampamento permanente, per garantire la presenza costante di volontari internazionali, disponibili a documentare le violazioni dei diritti umani per tutelarne la difesa. All’appello ha risposto una piccola associazione italiana, il Collettivo Italia-Centro America (Cica, www.puchica.org), che ha promosso il campamento inaugurato un anno fa, nel giugno del 2011.
L’accampamento sorge a fianco della radio La Voz de Zacate Grande, ed è un’ulteriore garanzia di protezione per la comunità. Dalla sua inaugurazione hanno abitato lì per vari mesi volontari italiani e non solo, condividendo con gli abitanti le difficoltà quotidiane e la tensione costante di un possibile sgombero.
Lo scopo del campamento è quello di creare reti umane di solidarietà internazionale, che possano contribuire a creare un otro mundo posible, in cui la giustizia e la verità siano valori di base, insieme alla solidarietà e all’inviolabilità dei diritti umani, come sostiene Bertha Oliva, direttrice del Cofadeh: “Sappiamo che, anche a causa della costruzione di spazi di verità come questi, arriveranno giorni difficili. Tuttavia affronteremo la violenza con azioni di pace, perché l’unico modo per sconfiggere la violenza è quello di affrontarla con la convinzione che è possibile denunciare i diritti violati”.
Per questo, se l’Honduras è una vera democrazia, allora il golpe del 2009 non si è mai concluso. Perché l’esercito e i paramilitari (e l’oligarchia che dietro di essi si nasconde) continuano ad opporsi con violenza a chi chiede solamente giustizia, libertà e dignità.

giovedì 28 giugno 2012

Messico: al voto

Con la partecipazione di decine di migliaia di persone ai comizi dei principali partiti politici, si è chiusa ieri in Messico la campagna elettorale per le presidenziali di domenica.
In vantaggio, secondo gli ultimi sondaggi, resta l’oppositore Enrique Peña Nieto, ex governatore dello stato di México e candidato del Partido Revolucionario Institucional (Pri, centro) che ha governato il Messico per 71 anni, fino al 2000. Il suo comizio finale si è tenuto a Toluca, la capitale dello Stato di cui è stato governatore. Davanti a decine di migliaia di sostenitori Peña Nieto ha ribadito di ritenere cruciali i problemi dell’insicurezza, della povertà, della mancanza di crescita economica e della disoccupazione.
Andrés Manuel López Obrador ha invece scelto Città del Messico e la Plaza de la Constitución per salutare i suoi sostenitori. Il candidato del Movimiento Progresista, che riunisce diversi schieramenti dell’opposizione di sinistra, ha sottolineato di voler imprimere un cambiamento al paese, svincolandolo da interessi di parte e definendo il popolo “il motore del vero cambiamento”. Amlo (come è anche chiamato in Messico dalle iniziali del suo nome) ha affrontato a sua volta la questione sicurezza, cruciale per un paese teatro di un conflitto tra cartelli della criminalità organizzata e forze dello Stato, e sul fronte economico ha promesso una crescita annua del 6% con la creazione di sette milioni di nuovi posti di lavoro nell’arco del mandato.
Josefina Vázquez Mota, del Partido Acción Nacional (Pan, conservatore) al potere da 12 anni, ha invece chiuso la campagna elettorale a Guadalajara, la seconda città del paese. Data da tutti i sondaggi al terzo posto, secondo molti osservatori Vázquez Mota paga la politica del presidente uscente Felipe Calderón e i suoi fallimenti sul piano economico e su quello della sicurezza. Ciononostante, al suo comizio finale la candidata del Pan ha annunciato – se eletta – l’intenzione di nominare Calderón procuratore generale della Repubblica.
Oltre al presidente, che in Messico viene eletto a turno unico e con la maggioranza relativa, il 1° luglio gli aventi diritto dovranno anche rinnovare la composizione della Camera dei deputati, del senato e scegliere i governatori di una decina di Stati, tra cui il sindaco della capitale.

domenica 24 giugno 2012

Rio+20, dichiarazione finale

Rio de Janeiro, 15- 22 giugno 2012
Comitato Facilitatore della Società Civile a Rio+20


SUMMIT DEI POPOLI A RIO+20
PER LA GIUSTIZIA SOCIALE E AMBIENTALE
IN DIFESA DEI BENI COMUNI, CONTRO LA MERCIFICAZIONE DELLA VITA
Movimenti sociali e popolari, sindacati, popoli e organizzazioni della società civile di tutto il mondo riuniti del Summit Sociale dei Popoli a Rio+20, per la Giustizia Sociale e Ambientale, che si sono incontrati negli accampamenti, nelle mobilitazioni di massa, nei dibattiti, nella costruzione di convergenze e alternative, coscienti di essere i soggetti di una nuova relazione tra umano e umane e tra l'umanità e la natura, assumiamo la sfida urgente di frenare la nuova fase di ricomposizione del capitalismo e di costruire, attraverso le nostre lotte, nuovi paradigmi di società.
Il Summit dei popoli è un momento simbolico del nuovo ciclo in atto, che si situa nella traiettoria delle lotte globali che producono nuove convergenze tra movimenti di donne, indigeni, afrodiscendenti, piccoli agricoltori e contadini, lavoratori e lavoratrici, popoli e comunità tradizionali, quilombolas, movimenti per il diritto alla città, religioni di tutto il mondo. Le assemblee, le mobilitazioni e la grande Marcia dei Popoli sono state momento di espressione massima di queste convergenze.
Le istituzioni finanziarie multilaterali, le coalizioni al servizio del sistema finanziario, come il G8 o il G20, l'influenza delle multinazionali sulle Nazioni Unite e la maggioranza dei governi hanno dimostrato irresponsabilità verso il futuro dell'umanità e del pianeta e volontà di promuovere gli interessi delle imprese nella conferenza ufficiale. Al contrario, la vitalità e la forza delle mobilitazioni e dei dibattiti nel Summit dei Popoli hanno rafforzato la nostra convinzione sul fatto che solo i popoli mobilitati e organizzati potranno liberare il mondo dal controllo delle corporations e del capitale finanziario.
Venti anni fa il Forum Global, realizzato anch'esso ad Aterro do Flamengo, denunciò il rischio che l'umanità e la natura correvano a causa delle privatizzazioni e delle politiche neoliberiste. Oggi affermiamo che, oltre a confermare la nostra analisi, stiamo assistendo al restringimento significativo di diritti umani già tutelati e riconosciuti. A Rio+20 si è ripetuta la solita stanca litania delle false soluzioni difese degli stessi attori che hanno provocato la crisi globale. Mentre la crisi diviene via via più profonda, le multinazionali avanzano violando i diritti dei popoli, restringendo gli spazi democratici e distruggendo la natura, impossessandosi indebitamente dei beni comuni della umanità per salvare il sistema economico-finanziario.
Le molteplici voci e forze sociali che convergono attorno al Summit dei Popoli denunciano la vera causa strutturale della crisi globale: il sistema capitalista associato al patriarcato, al razzismo e all'omofobia.
Le imprese transnazionali continuano a commettere i loro crimini attraverso la sistematica violazione dei diritti dei popoli e della natura, rimanendo nella totale impunità. Contemporaneamente, portano avanti i loro interessi attraverso la militarizzazione, la criminalizzazione degli stili di vita dei popoli e dei movimenti sociali, causando processi di de-territorializzazione nelle zone rurali come in quelle urbane. Avanzano nei territori e sulle spalle dei lavoratori e delle lavoratrici del sud e del nord.
Esiste un debito ecologico storico che danneggia maggiormente i popoli del sud del mondo, debito che deve essere assunto dai paesi altamente industrializzati che sono alla base dell'attuale crisi del pianeta.
Il capitalismo causa allo stesso tempo la perdita di controllo sociale, democratico e comunitario sulle risorse naturali e i servizi strategici, che continuano ad essere privatizzati, convertendo diritti in merci e limitando l'accesso dei popoli ai beni e ai servizi necessari alla sopravvivenza.
L'attuale fase finanziaria del capitalismo si esprime oggi attraverso la cosiddetta “green economy” e attraverso meccanismi vecchi e nuovi, come l'aumento dell'indebitamento pubblico-privato, il super stimolo ai consumi, l'appropriazione e la concentrazione presso pochi delle nuove tecnologie, i mercati del carbonio e della biodiversità, promuovendo tra le altre cose l'accaparramento di terre da parte di grandi capitali, spesso stranieri e i partenariati pubblico-privato.
Le alternative sono nei nostri popoli, nella nostra storia, nei nostri costumi, nelle nostre conoscenze e pratiche e nei nostri sistemi produttivi, che dobbiamo salvaguardre, valorizzare e rendere di larga scala come progetto contro egemonico e trasformatore. La difesa degli spazi pubblici nelle città, con una gestione democratica e partecipazione popolare, l'economia cooperativa e solidaria, la sovranità alimentare, un nuovo paradigma di produzione, distribuzione e consumo, il cambiamento del modello energetico, sono esempi di alternative reali contro l'attuale sistema agro-urbano-industriale.
La difesa dei beni comuni passa per la garanzia di una serie di diritti umani e di diritti della Natura, per la solidarietà e il rispetto nei confronti della cosmovisione e edelle credenze dei diversi popoli e delle diverse culture, come, ad esempio, la difesa del “Buen Vivir” come forma di esistenza in armonia con la natura, che presuppone una transizione giusta che non può che essere costruita se non con i lavoratori, le lavoratrici, i popoli. La costruzione di una transizione giusta presuppone la libertà di organizzazione e il diritto di contrattazione collettiva sindacale, oltre che politiche pubbliche che garantiscano forme di lavoro degno.
Riaffermiamo l'urgenza di una redistribuzione della ricchezza e della rendita, come di combattere il razzismo e gli etnocidi e di garantire il diritto alla terra e territorio, alla città, all'ambiente e all'acqua, all'educazione, alla cultura, alla libertà di espressione e alla democratizzazione dei mezzi di comunicazione, alla salute sessuale e riproduttiva delle donne.
Il rafforzamento delle economie locali e dei diritti territoriali garantiscono la costruzione comunitaria di economie più vitali. Queste economie locali forniscono mezzi di sussistenza sostenibili a livello locale, stimolano la solidarietà comunitaria e proteggono componenti vitali per la resilienza degli ecosistemi. La maggior ricchezza è la diversità biologica della natura e la diversità culturale ad essa associata, fattori questi intimamente relazionati.
I popoli vogliono determinare per chi e per cosa vengono destinati i beni comuni ed energetici, oltre ad assumere il controllo popolare e democratico della loro produzione. Un nuovo modello energetico è basato sull'utilizzo di energie rinnovabili e decentralizzato, e deve garantire energia alla popolazione e non alle multinazionali.
La trasformazione sociale esige convergenza di azioni, processi di articolazioni e elaborazione di agende comuni a partire dalle resistenze e dalle proposte che stiamo portando avanti da ogni angolo del pianeta.
I processi sociali di cui sono portatrici le organizzazioni e i movimenti che convergono nel Summit dei popoli puntano in tal senso a percorsi fondati sui seguenti assi di lotta:
  • Contro la militarizzazione di Stati e territori
  • Contro la criminalizzazione delle organizzazioni e dei movimenti sociali
  • Contro la violenza sulle donne
  • Contro la violenza a lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender
  • Contro le grandi multinazionali
  • Contro l'imposizione del pagamento di debiti economici ingiusti e per audit popolari sui debiti sovrani
  • Per la garanzia dei diritti dei popoli alla terra e al territorio urbano e rurale
  • Per la consultazione e il consenso libero, preventivo e informato, basato sui principi di buona fede e con effetto vincolante, conformemente alla Convezione 169 dell OIL
  • Per la sovranità alimentare e alimenti sani, contro l'utilizzo di agrotossici e di semi transgenici
  • Per la garanzia e la conquista di diritti
  • Per la solidarietà ai popoli e ai paesi, specialmente quelli minacciati da golpe militari o istituzionali, come sta accadendo attualmente in Paraguay
  • Per la sovranità dei popoli nel controllo dei beni comuni, contro i tentativi di mercificazione
  • Per un nuovo modello energetico
  • Per la democratizzazione dei mezzi di comunicazione
  • Per il riconoscimento del debito storico sociale ed ecologico
  • Per la costruzione di una Giornata mondiale di Sciopero Generale
Torniamo nei nostri territori, nelle nostre regioni e paesi animati dalla volontà di costruire a tal fine le convergenze necessarie per continuare a lottare, resistere ed avanzare contro il sistema capitalista e le sue vecchie e nuove forme di riproduzione.
In piedi, continuiamo a lottare!



Traduzione a cura di A Sud
www.asud.net

Rio+20, report #2

I potenti sono nudi

La Cupula dos Povos, l’insieme di movimenti, associazioni, organizzazioni popolari e indigeniste, che dal 15 al 22 giugno si sono confrontati a Rio in centinaia di assemblee, hanno chiuso i loro lavori in una grande assemblea plenaria, molto animata e partecipata. E hanno presentato precise proposte.
L’assemblea dell’Onu, riunitasi ben lontano dai movimenti, al Rio Center, si sta concludendo senza risultati. Spiace costatare che varie realtà italiane – come Lega Ambiente, WWF… – si siano trovate nei palazzi del potere invece che alla Cupula dos Povos. Infatti la presenza italiana alla Cupula è stata veramente povera.
Muovendomi oggi nello spazio della Cupula dos Povos, una stupenda lingua di terra lungo la Baia da Gloria, ho potuto nuovamente rendermi conto della vivacità dell’ambiente, dell’intensità delle discussioni, della massiccia presenza di giovani: tutti aspetti che fanno ben sperare.
Impossibile seguire tutti i dibattiti che si tenevano nello stesso tempo in luoghi diversi. Ho potuto partecipare al dibattito promosso dal Contratto mondiale dell’acqua, incentrato sull’oro blu. Un tema che è stato molto al centro delle discussioni in questi giorni.
Ma il momento clou della giornata è stata l’assemblea plenaria dove, tra canti, slogan e balli, sono state presentate le mozioni finali dei cinque gruppi tematici: diritti e giustizia sociale e ambientale; in difesa dei beni comuni; sicurezza alimentare; fonti di energia e industrie estrattive; sicurezza e diritti del lavoro.
Vorrei soffermarmi sul primo gruppo che, ispirandosi al modello del Ben Viver (che fa riferimento alla filosofia dei popoli indigeni latinoamericani), ha avanzato una serie di significative proposte. Tra queste, la richiesta di protezione dei territori indigeni, la rivendicazione della fine dell’impunità degli assassini dei loro leader, la fine della repressione e della criminalizzazione di quelli stessi leader e l’ampliamento dei territori indigeni. Tra le denunce: ripudiare il mercato del carbonio come falsa soluzione al problema ambientale e tutte le iniziative legislative che puntano a sottomettere i diritti degli indigeni al grande capitale.
Questo gruppo dei diritti e della giustizia sociale e ambientale ha concluso affermando che “la salvezza del pianeta è una sapienza ancestrale dei popoli indigeni”.
Per quanto riguarda il tema dei beni comuni, il documento finale ha esordito dicendo che “la difesa dei beni comuni passa attraverso la garanzia di una serie di diritti socio-ambientali, attraverso il rafforzamento della giustizia ambientale e climatica, e anche attraverso la solidarietà tra i popoli, il rispetto della cosmovisione di popoli diversi e la difesa del Ben Viver come forma di vivere in armonia con la natura”.
E il documento continua elencando una serie di diritti fondamentali che devono essere rispettati e conclude dicendo che è necessario “pensare un’economia dei beni comuni attraverso un processo costruito dal basso verso l’alto, a partire da esperienze locali: è vitale per i popoli riprendere a decidere sul proprio futuro e la propria economia”.
A fine giornata, il Contratto mondiale dell’acqua ha organizzato un incontro, durante il quale Riccardo Petrella ha avanzato la proposta del Patto pubblico dell’acqua. Davanti ad un’affollata assemblea sono intervenuti Vandana Shiva, François Houtard e Leonardo Boff. Il teologo Boff ha sottolineato l’urgenza di proporre un contratto sociale mondiale fondato sull’acqua bene pubblico. L’ambientalista indiana Vandana Shiva ha attaccato frontalmente i potenti riuniti al Rio Center, affermando che “costoro vanno in giro nudi e vogliono convincerci che l’”economia verde” è verde”. Le ha dato ragione F. Houtard, sostenendo che “non sono i potenti ma sono le lotte sociali che cambiano il mondo” .
Ecco perché siamo a Rio.



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La speranza che cammina

Si sono conclusi oggi a Rio sia il vertice della Terra promosso dall’Onu sia la Cupola dos Povos, promossa dai movimenti sociali e ambientali. Per ora ci occupiamo della conclusione della settimana di assemblee e dibattiti dei movimenti popolari, voluti dalla Cupula dos Povos.
Quella della Cupula è un’”invenzione” tipicamente brasiliana per rispondere in maniera creativa alle sfide di Rio+20. Per prepararla ci è voluto più di un anno e vi hanno collaborato soprattutto i grandi organismi popolari come Sem Terra e Via Campesina. Ritengo che sia stato un bene organizzarla quest’anno perché si sono tenuti caldi i temi affrontati dai Forum sociali mondiali. Altrimenti intorno a Rio+20 ci sarebbe stato solo il vuoto.
Purtroppo la Cupola non ha rappresentato tutta la ricchezza sociale brasiliana. Inoltre trovo grave il fatto che la chiesa di base brasiliana non sia entrata in questo processo. Altrettanto grave è che i movimenti internazionali di base siano rimasti quasi estranei a questo evento.
La Cupula dos Povos ha lavorato per creare una “spazio di convergenza” così da poter arrivare ad un documento finale condiviso.
Questo documento finale è stato letto oggi nella grande tenda centrale, davanti ad una grande folla, attenta e partecipe. Una voce femminile ha iniziato così, non prima di aver sottolineato che queste proposte vanno portare al Forum sociale mondiale di Tunisi che si terrà nel 2013: “Movimenti sociali popolari, sindacati, popoli, organizzazioni della società civile e ambientalisti, presenti nella Cupula dos Povos per la giustizia sociale e ambientale, evidenziamo il nostro impegno a costruire delle convergenze e delle alternative, coscienti che noi siamo i soggetti di una relazione altra tra uomini e donne e tra l’umanità e la natura, assumendo la sfida urgente di frenare la nuova fase di ricomposizione del capitalismo e di costruire, attraverso la nostre lotte, i nuovi paradigmi della società”.
Il documento continua poi denunciando “la vera causa strutturale della crisi globale: il sistema capitalista”; in seguito chiama in causa “le multinazionali che commettono i loro crimini con una sistematica violazione dei diritti dei popoli e della natura, nella più totale impunità”. Sulla cosiddetta “economia verde”, si afferma che “è una delle espressioni dell’attuale fase finanziaria del capitalismo, il quale usa vecchi come nuovi meccanismi, ad esempio la commistione pubblico-privato, il superstimolo al consumismo, l’appropriazione e la concentrazione delle nuove tecnologie, il mercato del carbonio”.
Come alternative a questo sistema, il documento finale propone “la difesa degli spazi pubblici nelle città, attraverso una gestione democratica e la partecipazione popolare, un’economia cooperativa e solidale, la sovranità alimentare, un nuovo paradigma di produzione, distribuzione e consumo”. Sostiene inoltre “la difesa dei beni comuni (acqua, aria, energia, terra) passa attraverso la garanzia di una serie di diritti umani e della natura, per la solidarietà e il rispetto delle cosmovisioni e delle credenze dei differenti popoli, come ad esempio la difesa del Bem Viver”.
Si afferma, infine, con forza che “i popoli chiedono di decidere come e per chi si destinano i beni comuni ed energetici, così da assumere il controllo popolare e democratico della propria produzione. Un nuovo modello energetico che si basi sulle energie rinnovabili e decentralizzate, e che garantisca energia per il popolo e non per le multinazionali”.
Con grande passione, alla fine della lettura, la gente si è alzata e ha gridato: “In piedi, continuiamo la lotta!”.


Alex Zanotelli, Rio de Janeiro, 21-22 giugno 2012

sabato 23 giugno 2012

Paraguay, rovesciato Lugo

Fernando Lugo, il vescovo dei poveri che non ha saputo difenderli


paraglugopanorm_456_336-300x221 Un massacro di contadini orchestrato dalla multinazionale Monsanto è stata infine l’occasione per le oligarchie paraguayane per far fuori il presidente Fernando Lugo, usando i poteri peculiari dei quali dispone il Senato di quel paese, che può rimuovere il capo dello Stato semplicemente con un giudizio politico

Tecnicamente, solo tecnicamente, non è un colpo di Stato ma nella sostanza ci troviamo di fronte all’ennesimo passo della storia dell’ignominia delle classi dirigenti paraguayane e latinoamericane in sinergia con i grandi interessi economici internazionali. Nella sostanza, come si legge nel comunicato di Unasur, la legittimità continua a risiedere in Lugo (che pure ha accettato la destituzione con poche e deboli parole) e nel popolo e il nuovo governo non sarà riconosciuto.
Quello paraguayano, per ora senza sangue, ricorda non solo il 2009 hondureño, quando cavilli legali differenti eppure simili giustificarono il golpe. Allora però l’assalto al cielo del presidente Manuel Zelaya era tale: un referendum per una nuova Costituzione partecipativa che portasse il paese centroamericano. Adesso perché cade Lugo? Lui, che senz’altro conosce San Paolo, cade come conseguenza di una sorta di cupio dissolvi, un lungo stallo nel quale sono infine state le destre a giocare la carta decisiva. Allora Zelaya era disponibile a dar battaglia in una resistenza democratica che sta cambiando l’Honduras. Adesso Lugo appare ritrarsi in un atteggiamento non certo combattivo per una resistenza necessaria.
Ricorda anche il rovesciamento di Jacobo Arbenz in Guatemala. In quel golpe di oramai quasi sessant’anni fa gli interessi dell’oligarchia locale e delle multinazionali si coniugarono con quelli dell’Ambasciata contro un governo non certo rivoluzionario ma che aveva la colpa di essere degno del popolo che l’aveva eletto.
È, è stato, un governo appena dignitoso, quello dell’ex-vescovo Lugo. Non aveva mai attaccato direttamente gli interessi delle oligarchie ma non per questo avevano smesso di complottare contro di lui. La sua colpa era quella di stare aprendo spazi di democrazia intollerabili nel paese più isolato del Sud America. S’è fatto spolpare giorno per giorno in questi quattro anni Fernando Lugo, incapace di affidarsi ai movimenti sociali che lo avevano portato al governo ma non al potere, alla piazza che invocava per poi dissolverla, placarla, rinviando a domani necessità di oggi. Non aveva saputo affrontare, come invece da altre parti s’è fatto, quel nodo di complicità tra media e classi dirigenti. Dalle tivù, dalle radio, dai giornali, avevano continuato a bombardarlo giorno per giorno, senza che potesse difendersi. Aveva anche evitato di affidarsi pienamente all’America latina integrazionista Fernando Lugo, come testimonia la vicenda indecorosa dell’ancorare per quattro anni al voto di quello stesso infame, corrottissimo Senato che lo ha destituito, il voto per il pieno ingresso del Venezuela nel Mercosur. Una vicenda che testimonia la diretta dipendenza di quel Senato dall’Ambasciata statunitense.
Non si era reso conto Lugo, e forse non si renderà mai conto, della sostanza delle cose, di quel crinale tra democrazia formale e democrazia sostanziale che l’ha irretito in mille minuetti parlamentari senza capire che solo dai movimenti sociali derivava la sua stessa legittimità e che solo appoggiandosi pienamente a questi –e giammai nella pattuizione defatigante col nemico- avrebbe potuto salvare il processo popolare. Non si era reso conto, o forse n’è semplicemente stato sconfitto, che le oligarchie sono irredimibili, irriconducibili a processi democratici. Li usano, usano le elezioni, usano i voti parlamentari, usano i media come hanno usato la sua pazienza che non ha portato a nulla e adesso lo destituiscono per “inettitudine e mancanza di decoro” in quella che è di fatto l’unica (pseudo)democrazia parlamentare del Continente. “Legale ma non legittima” hanno detto della destituzione. Vero: e per il cambiamento necessario Lugo in questi anni ha scelto la legalità leguleia piuttosto che la legittimità e ora viene spazzato via da questa stessa legalità illegittima. Come nel 2009 con Manuel Zelaya in Honduras, gli azzeccagarbugli delle destre hanno di nuovo trovato dei cavilli che fanno apparire legale quello che è illegittimo.
La Monsanto, l’Ambasciata, i narcos, le oligarchie locali festeggiano per essere riusciti a irretire prima e liberarsi ora di quella speranza chiamata Latinoamerica che aveva osato spingersi fino ad Asunción. Adesso Unasur, una sorta di consiglio di sicurezza delle democrazie integrazioniste latinoamericane, dovrà decidere quali sanzioni prendere verso il governo presieduto da Federico Franco, che ha giurato stanotte, e che non riconoscerà. La schiena dritta dei governi integrazionisti latinoamericani in queste ore continua ad essere la certezza ma in queste periferie d’America, Asunción come Tegucigalpa, il tempo scorre più lentamente e neanche l’escatologia cristiana del vescovo Lugo ha potuto accelerarlo.

giovedì 21 giugno 2012

Inceneritore del Gerbido, Circo2


CONSIGLIO “APERTO” IN CIRCOSCRIZIONE 2 a Torino:

UN PESSIMO ESEMPIO DI DEMOCRAZIA,
SEGUITO DA UN PATETICO CAPOVOLGIMENTO DELLA VERITÀ
Nelle dichiarazioni degli ospiti presenti non si esclude l’utilizzo dell’inceneritore del Gerbido per smaltire rifiuti provenienti da altri territori e non si garantisce il blocco automatico dell’impianto in caso di sforamento dei limiti emissivi. Il Gerbido entrerà in funzione anche senza lo spostamento della Servizi Industriali, senza nessuna sicurezza sulla destinazione delle ceneri.

Lunedì 18 giugno si è tenuto un consiglio “aperto” presso la Circoscrizione 2 Santa Rita - Mirafiori Nord di Torino, dedicato agli effetti sulla salute umana derivanti dall’apertura dell’inceneritore del Gerbido.
Hanno preso parte all’incontro come relatori: l’Assessore all’Ambiente della Provincia di Torino, Roberto Ronco, l’Assessore all’Ambiente del Comune di Torino, Enzo Lavolta, il direttore tecnico di ATO-R, Riccardo Civera, il Presidente del Comitato Locale di Controllo, Erica Faienza, il direttore del Dipartimento di Torino dell’Arpa Piemonte, Antonella Pannocchia, il presidente della Circoscrizione 2, Antonio Punzurudu, e il Coordinatore della VI Commissione Ecologia della Circoscrizione 2, Marco Rappazzo

Prima dell’inizio, un rappresentante del Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino aveva richiesto par condicio nei tempi concessi ai cittadini e ai relatori per parlare, sapendo che erano presenti in sala i principali decisori dell’impianto.
Nel corso delle successive 5 ore di dibattito, la maggior parte del tempo a disposizione è stata dedicata, da tutti i relatori, a interventi il cui unico scopo si è rivelato un tentativo - per altro mal riuscito - di imbonire i cittadini presenti millantando l’assoluta garanzia dei sistemi di controllo previsti nonché conseguenze di scarsa entità per l’ambiente e riguardo all’aumento delle patologie e del tasso di mortalità per chi abita nei pressi dell’erigendo impianto (contraddicendo numerosi e autorevoli studi scientifici).

Dopo circa 2 ore di soliloqui degli Assessori e dei tecnici presenti, un nostro rappresentante, sdegnato, è uscito esprimendo disgusto per una tipologia di informazione/disinformazione di stampo “bulgaro”. Successivamente molte altre persone hanno lasciato la sala per l’ora ormai tarda e per il concomitante incontro di calcio della nazionale italiana.
Solo quando la sala destinata all’incontro risultava ormai semideserta è stato dato più spazio ai legittimi destinatari della serata, i cittadini. Questo fatto non può che essere interpretato come un pessimo esempio di democrazia.
Esprimiamo quindi massima amarezza e dispiacere per coloro che non hanno potuto ascoltare le possibili alternative all’inceneritore, la cui costruzione è inutile e dannosa - come non ci stancheremo mai di ripetere - sia rispetto ai rischi per la salute umana, sia per motivi ambientali, sia per ragioni economiche.

Il giorno successivo, 19 giugno, è stato pubblicato nella sezione “Ballatoio” di www.lospiffero.com un intervento del Coordinatore della IV Commissione Sanità della Circoscrizione 2, Dennis Maseri, più altri firmatari, in cui il Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino è accusato di propaganda contro un «termovalorizzatore come opportunità». Un’affermazione che rappresenta l’esatto contrario della verità, visto il comportamento tenuto dai relatori nel corso del consiglio “aperto”.
Nell’esternare il nostro profondo disappunto nei confronti di tale intervento, ci teniamo tuttavia a precisare che non intendiamo avanzare alcun attacco nei confronti di una testata come www.lospiffero.com, che ha sempre dato spazio alle opinioni di tutti (compreso il Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino).

Oltre ai fatti sopra segnalati, riportiamo alcune affermazioni avanzate nel corso della serata del 18 giugno, che non possono che far riflettere:

1. L'Assessore Lavolta non ha escluso che l’impianto del Gerbido potrà smaltire anche rifiuti provenienti dall’esterno della Provincia di Torino.
2. L’Assessore Ronco ha detto che l’inceneritore entrerà comunque in funzione anche se la Servizi Industriali non sarà ancora stata spostata al momento dell’accensione dell’impianto del Gerbido: una palese violazione degli accordi di programma.
3. Nessuno si è assunto la responsabilità di affermare con certezza che l’inceneritore andrà in “blocco automatico” non appena si registreranno sforamenti dei limiti emissivi, a differenza di quanto è stato spesso sostenuto. Nel caso delle diossine, inoltre, non basterà un solo superamento per fermare immediatamente l'impianto, ma saranno necessari ripetuti sforamenti per ottenerne il fermo.
4. Per quanto riguarda lo smaltimento delle ceneri, non è chiaro, a meno di sei mesi dall’inizio della fase sperimentale dell’impianto, se saranno destinate ad una discarica (il cui sito non è ancora stato individuato) o se (e dove) verranno sottoposte ad inertizzazione, per ridurne la tossicità così che possano essere riutilizzate in campo edilizio.
5. L'Assessore Ronco ha affermato che, in merito alla questione “riciclaggio piatti e bicchieri di plastica”, la Provincia di Torino, insieme a Corepla, sta valutando come poter aderire all'iniziativa; resta per ora l'ufficialità delle dichiarazioni dell'Assessore in tema, le quali ribadiscono la mancata adesione di ATO-R e della Provincia stessa a tale progetto.

Ufficio Stampa
Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino
Tel. 370.710.18.55
E-mail stampa.rifiutizerotorino@gmail.com

Rio+20


Nel più assordante silenzio da parte dei media, occupatisi in questi giorni della finanza mondiale e del G20, inoltro le riflessioni di Alex Zanotelli, presente a Rio de Janeiro a Rio+20, ove si parla di cambiamenti climatici, tutela della Terra, inversioni di tendenza, ecc. Naturalmente a Rio due le diverse realtà: quello mondiale "ufficiale" e quello dei poveri e della cittadinanza attiva, ovvero dell'alternativa...

“Benvenuti a Rio+20”.
Con questa scritta a caratteri cubitali siamo stati accolti all’aeroporto di Rio per il vertice sul pianeta Terra convocato dall’Onu (20-22 giugno). Come missionari comboniani abbiamo deciso di ritrovarci insieme nel contesto del Vertice per riflettere sul tema pianeta Terra, che ci tocca direttamente. La Terra infatti non sopporta più l’homo sapiens, il cosiddetto sviluppo e questo sistema economico finanziario che vive depredando il pianeta e rendendo i poveri sempre più poveri.
Sono arrivato la notte del 18 giugno nella Baixada fluminense, uno dei quartieri più violenti di Rio, dove vive e opera una comunità comboniana. Così ho avuto subito il sentore di che cos’è “l’altra Rio”. Una sensazione diventata ancora più netta il mattino seguente, attraversando in autobus la città. Mi sono parse chiare due città, spesso una di fronte all’altra: la Rio degli impoveriti e la Rio dell’opulenza. Va notato che il vertice Onu dei capi di stato si tiene a Barra de Tigiuca, la parte bene di Rio. Io invece mi sono recato subito a Aterro de Flamengo per partecipare alla Cupola dos Povos che ha trovato spazio nel lungomare Bahia da Gloria.
Due vertici. La Cupola dos Povos fatta di indigeni, di poveri, di cittadini, di associazioni. Mentre la “Cupola dos Ricos” è collocata nel cuore della ricchezza di Rio. Una vera e propria apartheid.
“Loro sono al centro, a Tigiuca”, ha detto il prof. Bonaventura de Souza. “Il circo del’Onu”, li ha definiti il prof. Martinez-Alier, che non decide mai nulla!”. Infatti l’impressione che abbiamo ora è che il Vertice della Terra rischia di essere un altro fallimento. Fra l’altro non hanno partecipato né Obama né la Merkel.
Ma la speranza non viene da lì, viene invece dai poveri, dagli indigeni, dalla cittadinanza attiva. E’ stato incredibile per me trovare Aterro de Flamengo così tanta vivacità, dibattiti, reti, campagne… Un’immensa fiera dell’inventiva umana, di culture, di associazioni…
E’ la stessa impressione che ho avuto quella stessa mattina partecipando ad un dibattito, promosso da Rigas (Rete italiana per la giustizia sociale e ambientale), sui nuovi paradigmi necessari per rispondere alle sfide della giustizia non solo distributiva ma anche ambientale. Vi hanno partecipato il teologo brasiliano Leonardo Boff, lo spagnolo prof. J. Martinez-Alier, l’economista portoghese Bonaventura de Souza, il coordinatore di Rigas Giuseppe de Marzo. Lavori presieduti da Marica de Pierri, dell’associazione “A Sud”,  nella sala strapiena del Museo di arte moderna.
“Il Pil non può più essere l’indicatore per l’economia, ha detto il noto economista Martinez, dobbiamo andare verso la prosperità senza crescita, secondo quanto teorizzato dall’economista Usa Tim Jackson”. Martinez ha avuto parole di elogio e di sostegno per le due esperienza latinoamericane di Ecuador e Bolivia.
Boff è partito citando Einstein: “Non si può pensare che chi ha creato la crisi trovi anche la soluzione”. Né si può accertate come principio etico quello del nostro vivere bene occidentale perché “questo ha significato vivere male per miliardi di persone”. Per uscire dall’attuale crisi, Boff ha elencato 4 principi fondamentali: a) ogni essere ha un valore intrinseco che deve essere rispettato; b) il dovere di prendersi cura di ciò che ci circonda; c) una responsabilità planetaria; d) cooperazione e solidarietà universali. Ha sottolineato che non si può produrre per accumulare ma solo per condividere.
Giuseppe de Marzo ha ribadito che l’attuale crisi nasce dal non aver riconosciuto la natura e i diritti della Madre Terra. Ha urlato: “Noi siamo la terra. Basta con la crescita”.
Personalmente ho portato a conoscenza dell’assemblea le lotte popolari italiane sull’acqua con il referendum e sui rifiuti con la resistenza alle megadiscariche e agli inceneritori, per muoverci invece verso il riciclaggio totale.
Infine il prof. De Souza ha definito la green economy “il cavallo di Troia del capitalismo mondiale” e ha messo tutti in guardia tutti che “bisogna cambiare il potere prima di prenderlo”.
Questa di Rio è stata una tavola rotonda molto valida che prelude a tanti incontri. Provocazioni queste importanti anche per noi comboniani, a Rio siamo una trentina, che dobbiamo riuscire ad includere pienamente queste tematiche nel nostro fare missione.

Alex Zanotelli
19 giugno 2012, Rio de Janeiro

mercoledì 20 giugno 2012

Oro blu, un business tutto privato

Le società d'imbottigliamento delle acque minerali pagano miseri oboli alle Regioni. Che secondo uno studio di Legambiente gettano 122 milioni di euro all'anno di mancati introiti per non scontentare le lobby. Alla faccia del referendum
di Paolo Cagnan, L'Espresso (Giovedì 14 giugno 2012)

Stretti tra il patto di stabilità e la diminuzione dei trasferimenti dallo Stato, i Comuni sono alla disperata ricerca di risorse aggiuntive per far quadrare i conti. Una soluzione, per quanto parziale, sarebbe lì a portata di mano: i sindaci potrebbero sempre bussare alla porta delle rispettive Regioni, e chiedere loro perché hanno accettato la privatizzazione di fatto delle sorgenti pubbliche, rinunciando a guadagni nell'ordine di 122 milioni di euro annui.
E' questa la cifra stimata da un rapporto di Legambiente sui canoni di concessione fatti pagare alle aziende che imbottigliano le acque minerali. Un vero scandalo, per l'associazione ambientalista. A un anno di distanza dall'insperato successo del referendum sull'acqua, è tutt'altro che sanata questa ennesima anomalia italiana.
In assenza di una legge nazionale, ogni Regione fa ciò che vuole. Così, secondo lo studio effettuato assieme ad Altreconomia, ci sono regioni come la Liguria i cui canoni di concessione per lo sfruttamento delle sorgenti naturali sono stabiliti da regolamenti vecchi di trent'anni o addirittura, come in Molise, da un regio decreto. "Anche in Emilia Romagna, Puglia e Sardegna" si legge nel dossier "le società non pagano un centesimo per l'acqua imbottigliata o estratta, ma versano una sorta di obolo solo per la superficie utilizzata".
Nel 2006 la Conferenza delle Regioni aveva dato indicazioni per una revisione dei canoni, indicando tre tipologie: da 1 a 2,5 euro per metro cubo o frazione di acqua imbottigliata; da 0,5 a 2 euro per metro cubo o frazione di acqua utilizzata o estratta; almeno 30 euro per ettaro o frazione di superficie concessa. Ma da allora solo 13 Regioni hanno rivisto la normativa e nove di queste "hanno recepito le indicazioni in modo solo parziale o al ribasso". Risultato, le casse pubbliche restano vuote, mentre le società imbottigliatrici continuano a fare profitti stellari.
Ipotizzando un canone uguale per tutto il territorio di 10 euro a metro cubo imbottigliato, Legambiente ha calcolato che nel 2010 si sarebbero ricavati ben 122 milioni di euro: appena il 5% del totale dei guadagni annuali delle aziende imbottigliatrici, che in Italia danno lavoro a 40 mila persone. In Sardegna, ad esempio, i guadagni passerebbero dai 34 mila euro attuali a oltre 2 milioni; l'Emilia-Romagna incasserebbe 3,87 milioni di euro in più rispetto agli attuali 35 mila e così via.
Proprio nelle scorse ore il consiglio regionale del Veneto ha prorogato sino al 2015 le riduzioni del pagamento dei diritti di prelievo, rinunciando a oltre 10 milioni di euro. La Regione Toscana si è impegnata a rivedere i canoni verso l'alto, mentre alcuni comuni lombardi hanno chiesto a Milano di destinare i fondi alle amministrazioni sul cui territorio ricadono le concessioni o gli stabilimenti di imbottigliamento. Anche la "virtuosa" Provincia di Bolzano figura tra i bocciati.
"Un aumento dei canoni" spiega Giorgio Zampetti, coordinatore scientifico di Legambiente "porterebbe anche altri vantaggi, come l'aumento dei prezzi e il riallineamento dei consumi alle medie europee, ovvero verso il basso. Così si ridurrebbe l'impatto ambientale del business dell'oro blu, che a tutt'oggi prevede l'utilizzo di oltre 350 mila tonnellate di PET (la plastica usata per le bottiglie), per un consumo di 700 mila tonnellate di petrolio e l'emissione di quasi un milione di tonnellate di CO2".
Già, perché il 78% delle bottiglie utilizzate è di plastica e solo un terzo viene riciclato. Comunque, sarà colpa della crisi o merito delle campagne di sensibilizzazione a favore del rubinetto, il consumo pro-capite di acqua in bottiglia (l'Italia ha il primato europeo) è sceso da 190 a 186 litri all'anno. Nel 2010, la produzione totale è stata di 12 miliardi di litri di acque minerali: il 2% in meno rispetto al 2009, per un calo del giro di affari dei produttori di 100 milioni di euro (da 2,3 a 2,2 miliardi di euro totali). Dopo trent'anni di crescita, è il primo stop. Una diminuzione che, commenta il vicepresidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani, "non scardina ancora il sistema di privatizzazione de facto delle sorgenti e del pagamento di canoni irrisori agli enti locali. Le società d'imbottigliamento contano sempre su guadagni vertiginosi". Anche qui, interessi lobbistici prevalgono sul bene comune? Tra le Regioni bocciate dal dossier ci sono Emilia-Romagna, Puglia e Liguria. Non esattamente di centrodestra.

venerdì 15 giugno 2012

Il referendum preso a pugni

Tre giorni di pugilato, insulti e occupazioni in Campidoglio. Il sindaco Alemanno tenta di far passare senza votazione la vendita del 21% di Acea, tra le proteste e l’irruzione del Movimento per l’Acqua Pubblica. Decidere a porte chiuse senza dibattito è calpestare lo spirito del referendum: anche perché alla privatizzazione di Acea non corrisponde un miglior servizio per il cittadino. La prima battaglia del referendum è al culmine e riguarda l’intera Italia.
Adesso è Acea, ma poteva essere l’Iride a Torino, o Hera a Bologna. Il problema delle privatizzazioni dei beni comuni riguarda tutta l’Italia, e quel milione e 200mila di sì al Referendum del 12/13 giugno. A Roma, la municipalizzata di acqua e luce Acea sta per diventare privata: il Comune vuol vendere il 21% del capitale, cedendone la maggioranza. Non verrà indetta gara pubblica, per mantenere i privilegi di “inciucio” tra giunta comunale e amministrazione dell’azienda. Di trasparente e di concorrenziale, non c’è nulla. Lo stesso Caltagirone, editore-costruttore-speculatore azionista di punta di Acea, ne gestisce l’iter di vendita. A proprio vantaggio.
Pugni in Campidoglio. Lo scontro in Campidoglio è frontale. Dopo settimane di rinvii e dibattiti a porte chiuse, lunedì la Giunta ha tentato di forzare la mano, rimandando a giochi fatti le obiezioni dell’opposizione. Ne è risultata una votazione piena di violazioni del regolamento comunale e aggressioni personali (video). Il Movimento è riuscito ad entrare in sala consiliare con il contagocce, per poi inscenare un’occupazione-blitz durante la sospensione della seduta: da qui la situazione è degenerata in una scazzottata tra consiglieri del Pd, di Action e de La destra, con spintonate e sgambetti dei manifestanti intervenuti in aula. Tutti ammoniti, ma la votazione (avvenuta non si sa come, prima con 30 favorevoli, poi 42 favorevoli, poi di nuovo 30, ma senza conteggio per astenuti e contrari) pare non verrà ripetuta: o almeno così assicura il presidente Marco Pomarici.
Al di là dell’Aula (dove oggi si torna alle 11 a votare, ma a porte chiuse e con un doppio cordone di sicurezza), resta il vero dramma di Acea e delle altre municipalizzate italiane. Le risorse idriche sono gestite male, e con grande spreco di risorse: la posizione di monopolio lo consente. Nessuna gara pubblica arriva fino in fondo, i Comuni continuano a preferire l’affidamento diretto o la vendita “sottobanco”. A fronte di un servizio pessimo, la fatturazione, sia per l’acqua che per la luce, diventa una truffa per il cittadino: conteggi non verificabili, rinvii di bollette e pagamenti esorbitanti.