Caselli: ”Altro che stare zitti! E’ una stagione che impone l’obbligo di parola”
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Dopo le roventi polemiche di questi
giorni, che hanno coinvolto i pm palermitani Ingroia e Di Matteo, il
presidente dell'Anm Sabelli, il vicepresidente del Csm Vietti,
cerchiamo di fare chiarezza su compiti e limiti dei magistrati nella
vita pubblica. “La minaccia all’imparzialità delle toghe deriva dalla
partecipazione alla gestione del potere, non certamente dalla
partecipazione al dibattito politico-culturale”, sostiene il
procuratore capo di Torino nella sua appassionata difesa di un ruolo
che lo vede da tempo in primo piano.
colloquio con Gian Carlo Caselli di Rossella Guadagnini (MicroMega)
Non
sono propriamente consigli da manuale di buone maniere a uso delle
toghe. E’ una questione seria. Quanto sta succedendo in questi giorni lo
troviamo sulle pagine dei quotidiani, sotto gli occhi di tutti, lo
ascoltiamo nelle chiacchiere da bar. L’attacco al magistrato più
contestato del momento, meno spesso la sua difesa, è diventato quasi uno
sport nazionale. Famosi come campioni di calcio, tra i volti noti
dell’Italia di oggi, i giudici che fanno? Parlano, scrivono libri,
intervengono nel dibattito culturale, si espongono ai raggi pericolosi
dei media, si appassionano di politica. Ma possono farlo e, soprattutto,
è giusto che lo facciano?
I magistrati – dicono alcuni – dovrebbero starsene zitti in disparte, possibilmente a occhi bassi chini sulle proprie carte. Fedeli ai voti espressi con il proprio ‘sacerdozio’. Invece, divisi tra fan e detrattori, scontano la popolarità raggiunta attraverso processi importanti (una popolarità che turba e disturba), subendo pressing, rilievi, strigliate, ammonizioni. Che giorno dopo giorno delegittimano il ruolo che hanno, intaccandone l’autorevolezza come singoli e come categoria. Ecco perché adesso, oltre alla sicurezza personale, occorre proteggere la loro libertà di espressione. Perché le luci restino accese sui procedimenti giudiziari e non si spengano nell’indifferenza dell’opinione pubblica.
Dottor Caselli, oggi è più che mai necessario fare chiarezza sul ruolo del magistrato nella vita pubblica e sulla sua libertà di intervento nel dibattito civile e politico.
L’intervento giudiziario registra ovunque in Europa, se non nel mondo, una grande espansione. Spesso occupa le prime pagine dei giornali e delle tv e produce effetti che possono riguardare addirittura gli equilibri politici e i destini dei governi. Apriamo il quotidiano del giorno e troviamo il caso riguardante i nuovi guai giudiziari dell’ex premier Dominique de Villepin in Francia e quello della Corte Costituzionale tedesca in Germania. Questa espansione che si manifesta ovunque in Europa nei vari settori che possono interessare la vita pubblica e istituzionale dimostra che l’allargamento a macchia d’olio delle pertinenze della giustizia ha una dimensione oggettiva, il che significa che non c’entrano o centrano assai poco, comunque decisamente meno di quello che si vuol far credere, soprattutto in Italia, le forzature soggettive.
Come mai questa espansione?
Da sempre, e specialmente negli ultimi 25 anni, la politica o comunque una parte consistente della politica ha delegato alla magistratura l’intervento e, se possibile, la soluzione di problemi che la politica non sa come affrontare e risolvere. La storia del nostro Paese è costellata di deleghe. C’è stata la delega alle forze dell’ordine e alla magistratura per il terrorismo, per le stragi cosiddette di destra, per la corruzione, per la sicurezza sui posti di lavoro – l’Ilva di Taranto è una clamorosa dimostrazione di quello che sto dicendo – per i problemi di fine vita e, infine, per quelli di mafia. In particolare sui rapporti tra mafia e politica, di cui le cosiddette trattative sono l’ultimo capitolo.
In che modo funziona la delega di cui parla?
Viene conferita con regolarità. Quando però si supera il limite segnalato da una certa asticella, idealmente tracciato dallo stesso potere politico che delega, la magistratura deve mettere in conto di essere fatta oggetto di polemiche, attacchi, di un vero e proprio assalto alla giustizia. Ci sono molte situazioni delicate perché prive di copertura normativa o per effetto di uno stallo decisionale. C’è una debolezza nei controlli amministrativi e anche nei controlli che sono compito della stampa. C’è una concentrazione di potere economico e politico in poche mani che differenzia il nostro Paese dalle altre democrazie occidentali.
Una volta l’intervento giudiziario non faceva notizia come invece accade oggi.
Un tempo la magistratura era sostanzialmente, direi fisiologicamente, in sintonia col potere dominante, in quanto espressione delle classi che quel potere formavano. E’ storia del nostro Paese. Negli ultimi 20 anni la magistratura ha dimostrato di voler applicare la legge in maniera uguale per tutti. Ha messo in campo uno sforzo consistente in questo senso, la gente ci ha creduto, ha fatto anche il tifo per i magistrati. Ma certuni, che si sono sentiti toccati sul vivo perché prima erano immuni, hanno reagito ancora una volta attaccando la giustizia, magari dopo il superamento dell’asticella.
Ad esempio?
A Milano, 20 anni fa, ai tempi di Mani Pulite, per un paio d’anni tutto è andato bene. Poi l’inchiesta si è allargata troppo e niente è andato più bene. A Palermo è accaduto lo stesso: subito dopo le stragi di mafia per due anni tutto procedeva per il meglio, poi di nuovo più niente è andato bene, accadde quando cominciammo a occuparci di mafia e politica.
Da cosa si giudicano i giudici o non si possono giudicare?
Un tempo si valutava l’intervento giudiziario sulla base dei criteri della correttezza e del rigore. Oggi no, oggi si giudica in base a quelli della convenienza, dell’utilità e del vantaggio. Se tu magistrato fai una cosa mi piace o che mi può venire utile, o può venire utile a qualcuno della mia cordata, allora ti lascio tranquillo o addirittura parlo bene di te. Ma se mi tocchi, se tocchi gli interessi della mia cordata, devi mettere in conto che entri nell’occhio del ciclone. Questo è devastante e spiega, a mio avviso, molte esasperazioni e strumentalizzazioni in riferimento alla questione del ruolo del magistrato e se il magistrato possa o debba avere un ruolo nel dibattito pubblico.
Quale comportamento personale e professionale è opportuno che osservi? Deve parlare solo ed esclusivamente attraverso le sentenze?
E’ molto diffusa la tesi secondo cui il magistrato che partecipa alla vita e al dibattito politico-culturale diventi sospetto a chi ha idee diverse da quelle che egli espone partecipando al dibattito e, pertanto, dal dibattito stesso il magistrato dovrebbe astenersi. E’ un’affermazione suggestiva, ma deformante: l’estraneità del giudice rispetto alla società è, prima di tutto, impossibile. Ecco un esempio che può sembrare banale, ma invece è fondamentale: in un Paese cattolico come il nostro ci sono giudici credenti, sicuramente la maggioranza, e altri che non lo sono. Quella dell’essere o non essere credenti non è una condizione occultabile. Ma allora, ragionando in un certo modo, l’ateo dovrebbe rifiutare il giudizio del magistrato credente o il credente dovrebbe rifiutare il giudizio del magistrato ateo o agnostico? Non esiste, nessuno l’ha mai detto. Il magistrato deve essere valutato in base al rigore del suo lavoro, delle motivazioni che lo sostengono.
E dunque?
Dunque se ciò vale per le convinzioni più profonde, come credere o meno nell’esistenza di Dio, perché non dovrebbe valere per scelte che sono di altra natura, ideale, culturale, politica? Il problema, in realtà è un altro: non sono le idee e neppure la loro manifestazione pubblica che possono ridurre l’imparzialità del magistrato. Sono le appartenenze, soprattutto se occulte, sono le frequentazioni delle stanze del potere, anche solo mediante la formulazione di pareri, la distribuzione di incarichi extragiudiziali, che possono ridurne l’imparzialità. Molte volte, in base alla mia esperienza, ho notato come il magistrato che si presentava come il più apolitico di tutti, il più indifferente al dibattito che ferveva nel Paese, era poi quello disposto a fornire forme di subordinazione del proprio ruolo.
Fin dove si può spingere il diritto di espressione e critica del magistrato, specie nei confronti di altri poteri dello Stato, come governo e parlamento?
Passione civile, partecipazione al dibattito pubblico nel Paese, imparzialità nel giudizio non sono concetti che fanno a pugni. Dato che l’imparzialità è disinteresse personale, estraneità agli interessi in conflitto nel caso concreto, distacco dalle parti coinvolte. L’indifferenza alle idee e ai valori è tutt’altra cosa… Anzi, dirò di più: chi giudica trincerandosi dietro una barriera che lo estrania dalla realtà sociale, che protesta indifferenza alle idee e ai valori, si pone in una posizione per me molto discutibile.
Ritiene giusto che un giudice parli di giustizia?
La minaccia all’indipendenza, all’imparzialità del magistrato deriva dalla partecipazione alla gestione del potere, dai legami affaristici, non certamente dalla sua partecipazione al dibattito e al confronto culturale. Quando poi si tratta specificamente di dibattito sui temi della giustizia, diciamo anche questo, il nostro è il Paese in cui tutti parlano di giustizia, spesso e volentieri con i toni da bar sport. Se i soli che dovessero astenersi da questo esercizio fossero i magistrati sarebbe una condizione piuttosto ridicola, non crede? L’importante è che si partecipi con equilibrio e senso della misura, senza ovviamente parlare dei propri processi.
Sono doti necessarie per restare in equilibrio su un sottile crinale.
Questa è una stagione di fortissime tensioni, una stagione tale da imporre anche ai magistrati l’obbligo di parola, l’obbligo d’intervento, di partecipare alla discussione. Altro che il silenzio! Perché i magistrati hanno esperienze professionali che possono contribuire utilmente al dibattito pubblico di questo periodo così tormentato. Equilibrio, senso della misura, non parlare dei propri processi, va bene, ma anche qui bisogna esser chiari. Ricordo il caso del processo penale, che molto spesso sugli organi di stampa è interpretato e commentato dalla parte privata. E mi chiedo se il naturale equilibrio delle parti consenta o meno un intervento anche dalla parte pubblica.
A chi è affidata la difesa del magistrato?
I media oggi sono potentissimi, ma spesso imprecisi, se non peggio. Di conseguenza quali spazi ci sono per le precisazioni e i chiarimenti del magistrato, anche a protezione delle persone coinvolte con inesattezza nelle notizie date? Il pm e anche il gip, che siano oggetto di osservazioni o critiche infondate, devono considerarsi legittimati a rispondere e a difendersi? A questi interrogativi mi pare che ormai l’ordinamento giudiziario abbia risposto, nel senso che il capo dell’ufficio è legittimato a intervenire per chiarimenti che evitino distorsioni. Ci si domanda, tuttavia, se anche il singolo magistrato possa farlo, quando il suo capo ufficio non intervenga.
E’ in atto un conflitto di poteri tra magistratura, politica e istituzioni fino ad arrivare al Quirinale, come da più parti si sta ventilando?
Non c’è alcun conflitto di poteri nella pressoché totalità dei casi. Ci potrà essere qualche eccezione, ma personalmente non la conosco. C’è una magistratura che fa il suo dovere, magari in quella situazione di delega cui accennavo prima. I titolari di certi interessi, anche esponenti del mondo politico, se vengono toccati nei loro interessi danno addosso alla magistratura. Questo non è un conflitto, però, ma un assalto: è diverso.
Il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, ha detto che "occorre uscire dalla psicosi degli attacchi ed entrare nell'ottica del servizio al cittadino".
In questo quadro, con tutto il rispetto dovuto al vicepresidente del Csm Michele Vietti, e non è una formula di stile, uscire dalla psicosi degli attacchi può valere al massimo come auspicio. Fermo restando che gli attacchi nessuno se li inventa.
All'interno della stessa magistratura ci sono posizioni diverse e alleanze a 'geometria variabile'. Si pensi al caso Ingroia, al tempo stesso bacchettato dal presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli e quindi difeso dalla corrente dei moderati all'interno dello stesso sindacato di categoria.
Riguardo l’intervento del presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Rodolfo Sabelli, mi sembra singolare che il capo di un sindacato, leggendo un articolo del Corriere della Sera come poi ha raccontato, attacchi un iscritto al suo stesso sindacato. In questo caso, non sarebbe stata fuori luogo una maggiore dose di verifica e prudenza. Sabelli è uno stimato collega e tale resta. Ma il suo intervento è stato sopra le righe.
Tutto sembra partire dalla trattativa Stato-mafia, emersa dall'inchiesta condotta dalla procura di Palermo, che ha innescato una spirale perniciosa.
Le polemiche sono diventate al calor bianco perché al calor bianco è il tema che giornalisticamente viene rubricato come trattativa Stato-mafia. Basta leggere il capo d’accusa che hanno formulato i colleghi della procura di Palermo per rendersi conto di quanto l’argomento sia incandescente. Tuttavia, l’ho già detto altre volte e vorrei ripeterlo anche qui: siamo alla vigilia di un momento delicato, la decisione del gip del Tribunale di Palermo. La ricerca da parte di tutti di un rasserenamento della situazione, che consenta scelte in un clima di ritrovata normalità, è un obiettivo sacrosanto.
Il capo dello Stato ha tirato il ‘sasso nello stagno’ sulla liceità delle intercettazioni e in seguito ha dichiarato che si trattava di una “questione generale” riguardante il proprio ruolo istituzionale. Il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli ha detto basta agli interventi ‘politici’ dei magistrati e quindi ha precisato il suo intervento, aggiungendo di aver posto una questione di “ordine generale”. Si tratta di materie su cui la legislazione è incerta o addirittura assente?
Io non sono soltanto Gian Carlo Caselli. Sono anche un magistrato e, quindi, ho dei limiti istituzionali per quanto riguarda certi argomenti. Fermo restando l’assoluto rispetto dovuto, e che personalmente ho, all’istituzione capo dello Stato, credo che discutere sull’opportunità o meno del conflitto che il presidente Napolitano ha sollevato sia, in democrazia, ben possibile. Condivido, nel contempo, la preoccupazione di molti, secondo cui occorre fare di tutto affinché la situazione che si è determinata non venga utilizzata per cattive riforme, in particolare sul versante delle intercettazioni.
I magistrati – dicono alcuni – dovrebbero starsene zitti in disparte, possibilmente a occhi bassi chini sulle proprie carte. Fedeli ai voti espressi con il proprio ‘sacerdozio’. Invece, divisi tra fan e detrattori, scontano la popolarità raggiunta attraverso processi importanti (una popolarità che turba e disturba), subendo pressing, rilievi, strigliate, ammonizioni. Che giorno dopo giorno delegittimano il ruolo che hanno, intaccandone l’autorevolezza come singoli e come categoria. Ecco perché adesso, oltre alla sicurezza personale, occorre proteggere la loro libertà di espressione. Perché le luci restino accese sui procedimenti giudiziari e non si spengano nell’indifferenza dell’opinione pubblica.
Dottor Caselli, oggi è più che mai necessario fare chiarezza sul ruolo del magistrato nella vita pubblica e sulla sua libertà di intervento nel dibattito civile e politico.
L’intervento giudiziario registra ovunque in Europa, se non nel mondo, una grande espansione. Spesso occupa le prime pagine dei giornali e delle tv e produce effetti che possono riguardare addirittura gli equilibri politici e i destini dei governi. Apriamo il quotidiano del giorno e troviamo il caso riguardante i nuovi guai giudiziari dell’ex premier Dominique de Villepin in Francia e quello della Corte Costituzionale tedesca in Germania. Questa espansione che si manifesta ovunque in Europa nei vari settori che possono interessare la vita pubblica e istituzionale dimostra che l’allargamento a macchia d’olio delle pertinenze della giustizia ha una dimensione oggettiva, il che significa che non c’entrano o centrano assai poco, comunque decisamente meno di quello che si vuol far credere, soprattutto in Italia, le forzature soggettive.
Come mai questa espansione?
Da sempre, e specialmente negli ultimi 25 anni, la politica o comunque una parte consistente della politica ha delegato alla magistratura l’intervento e, se possibile, la soluzione di problemi che la politica non sa come affrontare e risolvere. La storia del nostro Paese è costellata di deleghe. C’è stata la delega alle forze dell’ordine e alla magistratura per il terrorismo, per le stragi cosiddette di destra, per la corruzione, per la sicurezza sui posti di lavoro – l’Ilva di Taranto è una clamorosa dimostrazione di quello che sto dicendo – per i problemi di fine vita e, infine, per quelli di mafia. In particolare sui rapporti tra mafia e politica, di cui le cosiddette trattative sono l’ultimo capitolo.
In che modo funziona la delega di cui parla?
Viene conferita con regolarità. Quando però si supera il limite segnalato da una certa asticella, idealmente tracciato dallo stesso potere politico che delega, la magistratura deve mettere in conto di essere fatta oggetto di polemiche, attacchi, di un vero e proprio assalto alla giustizia. Ci sono molte situazioni delicate perché prive di copertura normativa o per effetto di uno stallo decisionale. C’è una debolezza nei controlli amministrativi e anche nei controlli che sono compito della stampa. C’è una concentrazione di potere economico e politico in poche mani che differenzia il nostro Paese dalle altre democrazie occidentali.
Una volta l’intervento giudiziario non faceva notizia come invece accade oggi.
Un tempo la magistratura era sostanzialmente, direi fisiologicamente, in sintonia col potere dominante, in quanto espressione delle classi che quel potere formavano. E’ storia del nostro Paese. Negli ultimi 20 anni la magistratura ha dimostrato di voler applicare la legge in maniera uguale per tutti. Ha messo in campo uno sforzo consistente in questo senso, la gente ci ha creduto, ha fatto anche il tifo per i magistrati. Ma certuni, che si sono sentiti toccati sul vivo perché prima erano immuni, hanno reagito ancora una volta attaccando la giustizia, magari dopo il superamento dell’asticella.
Ad esempio?
A Milano, 20 anni fa, ai tempi di Mani Pulite, per un paio d’anni tutto è andato bene. Poi l’inchiesta si è allargata troppo e niente è andato più bene. A Palermo è accaduto lo stesso: subito dopo le stragi di mafia per due anni tutto procedeva per il meglio, poi di nuovo più niente è andato bene, accadde quando cominciammo a occuparci di mafia e politica.
Da cosa si giudicano i giudici o non si possono giudicare?
Un tempo si valutava l’intervento giudiziario sulla base dei criteri della correttezza e del rigore. Oggi no, oggi si giudica in base a quelli della convenienza, dell’utilità e del vantaggio. Se tu magistrato fai una cosa mi piace o che mi può venire utile, o può venire utile a qualcuno della mia cordata, allora ti lascio tranquillo o addirittura parlo bene di te. Ma se mi tocchi, se tocchi gli interessi della mia cordata, devi mettere in conto che entri nell’occhio del ciclone. Questo è devastante e spiega, a mio avviso, molte esasperazioni e strumentalizzazioni in riferimento alla questione del ruolo del magistrato e se il magistrato possa o debba avere un ruolo nel dibattito pubblico.
Quale comportamento personale e professionale è opportuno che osservi? Deve parlare solo ed esclusivamente attraverso le sentenze?
E’ molto diffusa la tesi secondo cui il magistrato che partecipa alla vita e al dibattito politico-culturale diventi sospetto a chi ha idee diverse da quelle che egli espone partecipando al dibattito e, pertanto, dal dibattito stesso il magistrato dovrebbe astenersi. E’ un’affermazione suggestiva, ma deformante: l’estraneità del giudice rispetto alla società è, prima di tutto, impossibile. Ecco un esempio che può sembrare banale, ma invece è fondamentale: in un Paese cattolico come il nostro ci sono giudici credenti, sicuramente la maggioranza, e altri che non lo sono. Quella dell’essere o non essere credenti non è una condizione occultabile. Ma allora, ragionando in un certo modo, l’ateo dovrebbe rifiutare il giudizio del magistrato credente o il credente dovrebbe rifiutare il giudizio del magistrato ateo o agnostico? Non esiste, nessuno l’ha mai detto. Il magistrato deve essere valutato in base al rigore del suo lavoro, delle motivazioni che lo sostengono.
E dunque?
Dunque se ciò vale per le convinzioni più profonde, come credere o meno nell’esistenza di Dio, perché non dovrebbe valere per scelte che sono di altra natura, ideale, culturale, politica? Il problema, in realtà è un altro: non sono le idee e neppure la loro manifestazione pubblica che possono ridurre l’imparzialità del magistrato. Sono le appartenenze, soprattutto se occulte, sono le frequentazioni delle stanze del potere, anche solo mediante la formulazione di pareri, la distribuzione di incarichi extragiudiziali, che possono ridurne l’imparzialità. Molte volte, in base alla mia esperienza, ho notato come il magistrato che si presentava come il più apolitico di tutti, il più indifferente al dibattito che ferveva nel Paese, era poi quello disposto a fornire forme di subordinazione del proprio ruolo.
Fin dove si può spingere il diritto di espressione e critica del magistrato, specie nei confronti di altri poteri dello Stato, come governo e parlamento?
Passione civile, partecipazione al dibattito pubblico nel Paese, imparzialità nel giudizio non sono concetti che fanno a pugni. Dato che l’imparzialità è disinteresse personale, estraneità agli interessi in conflitto nel caso concreto, distacco dalle parti coinvolte. L’indifferenza alle idee e ai valori è tutt’altra cosa… Anzi, dirò di più: chi giudica trincerandosi dietro una barriera che lo estrania dalla realtà sociale, che protesta indifferenza alle idee e ai valori, si pone in una posizione per me molto discutibile.
Ritiene giusto che un giudice parli di giustizia?
La minaccia all’indipendenza, all’imparzialità del magistrato deriva dalla partecipazione alla gestione del potere, dai legami affaristici, non certamente dalla sua partecipazione al dibattito e al confronto culturale. Quando poi si tratta specificamente di dibattito sui temi della giustizia, diciamo anche questo, il nostro è il Paese in cui tutti parlano di giustizia, spesso e volentieri con i toni da bar sport. Se i soli che dovessero astenersi da questo esercizio fossero i magistrati sarebbe una condizione piuttosto ridicola, non crede? L’importante è che si partecipi con equilibrio e senso della misura, senza ovviamente parlare dei propri processi.
Sono doti necessarie per restare in equilibrio su un sottile crinale.
Questa è una stagione di fortissime tensioni, una stagione tale da imporre anche ai magistrati l’obbligo di parola, l’obbligo d’intervento, di partecipare alla discussione. Altro che il silenzio! Perché i magistrati hanno esperienze professionali che possono contribuire utilmente al dibattito pubblico di questo periodo così tormentato. Equilibrio, senso della misura, non parlare dei propri processi, va bene, ma anche qui bisogna esser chiari. Ricordo il caso del processo penale, che molto spesso sugli organi di stampa è interpretato e commentato dalla parte privata. E mi chiedo se il naturale equilibrio delle parti consenta o meno un intervento anche dalla parte pubblica.
A chi è affidata la difesa del magistrato?
I media oggi sono potentissimi, ma spesso imprecisi, se non peggio. Di conseguenza quali spazi ci sono per le precisazioni e i chiarimenti del magistrato, anche a protezione delle persone coinvolte con inesattezza nelle notizie date? Il pm e anche il gip, che siano oggetto di osservazioni o critiche infondate, devono considerarsi legittimati a rispondere e a difendersi? A questi interrogativi mi pare che ormai l’ordinamento giudiziario abbia risposto, nel senso che il capo dell’ufficio è legittimato a intervenire per chiarimenti che evitino distorsioni. Ci si domanda, tuttavia, se anche il singolo magistrato possa farlo, quando il suo capo ufficio non intervenga.
E’ in atto un conflitto di poteri tra magistratura, politica e istituzioni fino ad arrivare al Quirinale, come da più parti si sta ventilando?
Non c’è alcun conflitto di poteri nella pressoché totalità dei casi. Ci potrà essere qualche eccezione, ma personalmente non la conosco. C’è una magistratura che fa il suo dovere, magari in quella situazione di delega cui accennavo prima. I titolari di certi interessi, anche esponenti del mondo politico, se vengono toccati nei loro interessi danno addosso alla magistratura. Questo non è un conflitto, però, ma un assalto: è diverso.
Il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, ha detto che "occorre uscire dalla psicosi degli attacchi ed entrare nell'ottica del servizio al cittadino".
In questo quadro, con tutto il rispetto dovuto al vicepresidente del Csm Michele Vietti, e non è una formula di stile, uscire dalla psicosi degli attacchi può valere al massimo come auspicio. Fermo restando che gli attacchi nessuno se li inventa.
All'interno della stessa magistratura ci sono posizioni diverse e alleanze a 'geometria variabile'. Si pensi al caso Ingroia, al tempo stesso bacchettato dal presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli e quindi difeso dalla corrente dei moderati all'interno dello stesso sindacato di categoria.
Riguardo l’intervento del presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Rodolfo Sabelli, mi sembra singolare che il capo di un sindacato, leggendo un articolo del Corriere della Sera come poi ha raccontato, attacchi un iscritto al suo stesso sindacato. In questo caso, non sarebbe stata fuori luogo una maggiore dose di verifica e prudenza. Sabelli è uno stimato collega e tale resta. Ma il suo intervento è stato sopra le righe.
Tutto sembra partire dalla trattativa Stato-mafia, emersa dall'inchiesta condotta dalla procura di Palermo, che ha innescato una spirale perniciosa.
Le polemiche sono diventate al calor bianco perché al calor bianco è il tema che giornalisticamente viene rubricato come trattativa Stato-mafia. Basta leggere il capo d’accusa che hanno formulato i colleghi della procura di Palermo per rendersi conto di quanto l’argomento sia incandescente. Tuttavia, l’ho già detto altre volte e vorrei ripeterlo anche qui: siamo alla vigilia di un momento delicato, la decisione del gip del Tribunale di Palermo. La ricerca da parte di tutti di un rasserenamento della situazione, che consenta scelte in un clima di ritrovata normalità, è un obiettivo sacrosanto.
Il capo dello Stato ha tirato il ‘sasso nello stagno’ sulla liceità delle intercettazioni e in seguito ha dichiarato che si trattava di una “questione generale” riguardante il proprio ruolo istituzionale. Il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli ha detto basta agli interventi ‘politici’ dei magistrati e quindi ha precisato il suo intervento, aggiungendo di aver posto una questione di “ordine generale”. Si tratta di materie su cui la legislazione è incerta o addirittura assente?
Io non sono soltanto Gian Carlo Caselli. Sono anche un magistrato e, quindi, ho dei limiti istituzionali per quanto riguarda certi argomenti. Fermo restando l’assoluto rispetto dovuto, e che personalmente ho, all’istituzione capo dello Stato, credo che discutere sull’opportunità o meno del conflitto che il presidente Napolitano ha sollevato sia, in democrazia, ben possibile. Condivido, nel contempo, la preoccupazione di molti, secondo cui occorre fare di tutto affinché la situazione che si è determinata non venga utilizzata per cattive riforme, in particolare sul versante delle intercettazioni.
(14 settembre 2012)
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