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sabato 29 settembre 2012
Azzerate le emissioni CO2 di SantaMoniGAS
Pochi lo sanno, ma un sito internet produce in media 3,6 kg di anidride carbonica ogni anno (abbastanza preoccupante se moltiplicato per la miriade di siti web che esistono!), ma, al contempo, un albero può assorbire nello stesso lasso di tempo fino a 5Kg di Co2... L'iniziativa ambientalista lanciata da DoveConviene.it si propone di azzerare le emissioni Co2 dei blog piantando un albero in zone boschive a rischio desertificazione; ad ogni singola adesione viene piantato un albero la cui produzione di ossigeno andrà a compensare le emissioni di Co2 emesse dalle proprie pagine web.
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venerdì 28 settembre 2012
Honduras: ucciso un avvocato per i diritti umani
Antonio Trejo Cabrera è morto la sera del 22 settembre,
dopo essere stato colpito da cinque proiettili esplosi da un uomo armato di
pistola durante una matrimonio, in un sobborgo meridionale di Tegucigalpa, la
capitale dell'Honduras. Secondo quanto riportato dagli organi di stampa,
l'attentato è stato un atto premeditato, condotto da persone esperte.
L'avvocato per i diritti umani aveva sporto denuncia dopo aver ricevuto minacce di morte, connesse alla sua attività di rappresentante delle vittime di abusi in una disputa per la terra nella regione del Bajo Aguána, a nord del paese.
"Questo efferato omicidio semina paura tra chi difende i diritti umani in Honduras e deve essere un campanello d'allarme per le autorità, le quali devono rafforzare drasticamente le misure per proteggere i difensori dei diritti umani e le vittime degli abusi" - ha dichiarato Guadalupe Marengo, vicepresidente del Programma Americhe di Amnesty International.
"Il presidente Lobo deve rilasciare subito una dichiarazione pubblica che esprima sgomento per questa azione e manifestare sostegno verso i difensori dei diritti umani e il loro diritto a portare avanti il loro lavoro senza minacce, attacchi e intimidazioni."
"Deve essere condotta un'indagine approfondita, indipendente e imparziale su questo omicidio, e i colpevoli devono essere consegnati alla giustizia. Non fare questo significherà continuare a dare il messaggio pericoloso che le autorità dell'Honduras non possono o non vogliono proteggere chi sostiene i diritti umani e lo stato di diritto".
Il conflitto nel Bajo AguánTrejo era stato l'avvocato difensore di tre cooperative di contadini coinvolte in una complicata disputa per il territorio nel Bajo Aguán, una valle fertile nel nord del paese. Aveva aiutato i contadini a riconquistare i diritti sulla terra nella valle e sarebbe dovuto partire per Washington ad ottobre, per prendere parte alle udienze della Commissione interamericana dei diritti umani riguardo alla controversia in corso per quelle terre.
Negli anni recenti, migliaia di lavoratori agricoli hanno occupato terre che, a loro parere, erano state espropriate da ricchi proprietari e da multinazionali. Per oltre un decennio, si sono succedute battaglie legali, i verdetti emessi sono stati impugnati e ci sono stati diversi sgomberi forzati. I ripetuti e violenti scontri nella valle hanno causato un elevato numero di morti negli ultimi tre anni, principalmente tra i contadini, ma anche tra i dipendenti dei proprietari terrieri.
La violenza continua, nonostante un accordo stipulato tra il governo dell'Honduras e i proprietari terrieri della valle, che prevedeva la restituzione di 1618 ettari di terreno agricolo ad alcune cooperative contadine.
Gli addetti alla sicurezza dei proprietari e delle aziende di Bajo Aguán sono stati accusati di una serie di presunti abusi, tra cui minacce ai contadini locali, stupri e altre azioni violente.
"Le radici di queste violenze e l'impunità intorno ad esse devono essere affrontate con urgenza, per evitare un ulteriore aggravarsi della situazione nella regione di Bajo Aguán" - ha concluso Marengo. Il grave assassinio di un avvocato honduregno per i diritti umani dimostra che le autorità del paese devono intensificare i loro sforzi per proteggere i difensori dei diritti umani e chi li sostiene - ha affermato Amnesty International.
L'avvocato per i diritti umani aveva sporto denuncia dopo aver ricevuto minacce di morte, connesse alla sua attività di rappresentante delle vittime di abusi in una disputa per la terra nella regione del Bajo Aguána, a nord del paese.
"Questo efferato omicidio semina paura tra chi difende i diritti umani in Honduras e deve essere un campanello d'allarme per le autorità, le quali devono rafforzare drasticamente le misure per proteggere i difensori dei diritti umani e le vittime degli abusi" - ha dichiarato Guadalupe Marengo, vicepresidente del Programma Americhe di Amnesty International.
"Il presidente Lobo deve rilasciare subito una dichiarazione pubblica che esprima sgomento per questa azione e manifestare sostegno verso i difensori dei diritti umani e il loro diritto a portare avanti il loro lavoro senza minacce, attacchi e intimidazioni."
"Deve essere condotta un'indagine approfondita, indipendente e imparziale su questo omicidio, e i colpevoli devono essere consegnati alla giustizia. Non fare questo significherà continuare a dare il messaggio pericoloso che le autorità dell'Honduras non possono o non vogliono proteggere chi sostiene i diritti umani e lo stato di diritto".
Il conflitto nel Bajo AguánTrejo era stato l'avvocato difensore di tre cooperative di contadini coinvolte in una complicata disputa per il territorio nel Bajo Aguán, una valle fertile nel nord del paese. Aveva aiutato i contadini a riconquistare i diritti sulla terra nella valle e sarebbe dovuto partire per Washington ad ottobre, per prendere parte alle udienze della Commissione interamericana dei diritti umani riguardo alla controversia in corso per quelle terre.
Negli anni recenti, migliaia di lavoratori agricoli hanno occupato terre che, a loro parere, erano state espropriate da ricchi proprietari e da multinazionali. Per oltre un decennio, si sono succedute battaglie legali, i verdetti emessi sono stati impugnati e ci sono stati diversi sgomberi forzati. I ripetuti e violenti scontri nella valle hanno causato un elevato numero di morti negli ultimi tre anni, principalmente tra i contadini, ma anche tra i dipendenti dei proprietari terrieri.
La violenza continua, nonostante un accordo stipulato tra il governo dell'Honduras e i proprietari terrieri della valle, che prevedeva la restituzione di 1618 ettari di terreno agricolo ad alcune cooperative contadine.
Gli addetti alla sicurezza dei proprietari e delle aziende di Bajo Aguán sono stati accusati di una serie di presunti abusi, tra cui minacce ai contadini locali, stupri e altre azioni violente.
"Le radici di queste violenze e l'impunità intorno ad esse devono essere affrontate con urgenza, per evitare un ulteriore aggravarsi della situazione nella regione di Bajo Aguán" - ha concluso Marengo. Il grave assassinio di un avvocato honduregno per i diritti umani dimostra che le autorità del paese devono intensificare i loro sforzi per proteggere i difensori dei diritti umani e chi li sostiene - ha affermato Amnesty International.
http://www.amnesty.it/news/honduras-ucciso-avvocato-per-i-diritti-umani
(26 settembre 2012)
(26 settembre 2012)
martedì 25 settembre 2012
Per un percorso comune
“Per una
nuova finanza pubblica”
appello
per un percorso comune, Marco BERSANI
Le
crisi - finanziaria, economica, sociale ed ambientale -
sono ormai arrivate ad un punto critico, soprattutto in Europa. A cinque anni
dallo scoppio della bolla dei sub-prime negli USA, la crisi bancaria, sintomo
della finanziarizzazione strutturale dell'economia e della società attuata negli
ultimi decenni, è stata trasformata in una crisi del debito pubblico dei governi
con il fine di imporre ulteriori riforme liberiste (politiche di austerità e
conseguente svendita del patrimonio pubblico).
Si
accelera la crisi democratica nell'Unione europea ma anche
in Italia, dove l'imposizione di un governo tecnocratico apprezzato dai mercati
ha tolto potere ai cittadini e a chi sta pagando l’ impatto della crisi. Intorno
alla questione della finanza ruota il futuro di una rinascita politica così come
la possibilità di pensare una nuova democrazia dei diritti e dei beni comuni ben
oltre l'attuale fallimentare modello di sviluppo.
Le
proposte messe in campo negli ultimi anni si sono rivelate
tutte fallimentari. Il salvataggio sistemico delle banche ha solo foraggiato
ulteriore speculazione, salvato i bonus dei banchieri e privato di risorse
l'economia reale (famiglie e piccole imprese) in recessione. A livello europeo i
meccanismi promossi per aiutare gli stati in difficoltà (EFSF, ESM) si basano
tutti sulla logica di non alterare il funzionamento dei mercati finanziari,
consegnandogli ancora più potere. Per altro le risorse mobilitate da questi
meccanismi, e reperite in gran parte sugli stessi mercati finanziari, sono
irrisorie rispetto alle necessità.
Si continua a
parlare di stimolo per la crescita economica, ma con
misure inadeguate e soprattutto stereotipate : un Mito della crescita ancora
legato alle grandi infrastrutture (TAV in
primis) da sostenere tramite nuove alchimie finanziarie sui mercati
di capitale e con nuovi pesanti indebitamenti per lo Stato.
Ci stiamo
avvicinando al punto di non ritorno con conseguenze
imprevedibili. Lo scenario greco, dove i creditori pilotano il default in
maniera machiavellica a danno dei debitori, si può ripetere per altri paesi
europei. Perfino le misure di “socializzazione” del debito a livello europeo
(eurobond e transfer union), e di intervento della
Banca centrale europea come prestatore di ultima istanza, se anche superassero
gli attuali contrasti politici, potrebbero rivelarsi inadeguate a fronte di una
esuberanza devastante e sistemica dei mercati finanziari.
Per
interrompere questo ciclo devastante di politiche di
austerità depressive, svendita del patrimonio pubblico e messa sul mercato dei
beni comuni ad esclusivo vantaggio di pochi interessi privati; per fermare
salvataggi a vuoto di banche e stati in difficoltà, nonché illusorie politiche
di ripresa economica e sociale, è necessario prendere il toro per le corna ed
affrontare due questioni chiave:
-
come emanciparsi
dalla dittatura dei mercati finanziari, sottraendo la finanza pubblica
all'estrazione di valore da parte di questi e definanziarizzando, ossia
riducendo, il volume di questi mercati sempre più pieni di capitali in cerca di
beni patrimoniali altamente profittevoli su cui investire.
-
come riappropriarsi
di nuove forme e strumenti di governo della finanza pubblica per uscire dalla
crisi promuovendo un altro modello di economia e di società, con un nuovo
intervento pubblico partecipativo che subordini gli interessi privati a quelli
collettivi.
E’
necessario un progetto politico di rilancio e
ridefinizione della finanza pubblica che affronti alla radice tre questioni
centrali: il debito pubblico, il sistema bancario, e le politiche
fiscali.
1) Uscire dalla trappola del
debito
La creazione del debito pubblico è stata a vantaggio di
pochi e non della maggioranza delle persone. La mancata tassazione delle
rendite finanziarie, la mancata riforma fiscale in senso autenticamente
progressivo e l'utilizzo corrotto della spesa pubblica per il controllo sociale,
hanno beneficiato una classe ristretta di persone, e il divario tra ricchi e
poveri nel nostro paese è divenuto più profondo.
E' necessaria – tanto a livello nazionale quanto a
livello di enti locali - un'auditoria pubblica e partecipativa che valuti quali
debiti sono illegittimi e quindi da non riconoscere, e quali vadano invece
ripagati, ristrutturando la composizione del debito, a partire dall’immediato
congelamento del pagamento degli interessi e da una rinegoziazione equa,
democratica e trasparente con i creditori.
2) Riappropriarsi di una banca
pubblica per gli investimenti
La Cassa Depositi e Prestiti, che raccoglie il risparmio
postale dei cittadini e dei lavoratori, e che, dopo la sua privatizzazione nel
2003, è divenuta un vero e proprio “fondo sovrano” sui mercati finanziari
internazionali, deve essere risocializzata per tornare a finanziare – a tassi
agevolati e fuori dal patto di stabilità- gli investimenti degli enti locali per
i beni essenziali e il welfare territoriale; così come -a tassi agevolati e
fuori dal circuito bancario- interventi pubblici e per privati (PMI e
individui) finalizzati alla riconversione ecologica e sociale dell’economia.
Disaccoppiando Cassa Depositi e Prestiti dai mercati di
capitale diventerebbe inoltre possibile reincanalare alcune risorse private
nella Cassa, da gestire per finanziare interventi di interesse pubblico, così
come, in caso di difficoltà del sistema bancario privato, intervenire per
rinazionalizzare le banche salvate e gestirle fuori da logiche di
mercato.
3) Profonda riforma
fiscale
Le risorse economiche, al contrario di quanto afferma la
teoria dominante, ci sono e vanno recuperate laddove si trovano : per questo
diventa necessario tassare le rendite finanziarie, sottoporre a forte controllo
democratico i movimenti di capitale, redistribuire il prelievo fiscale a carico
dei redditi più alti e dell’uso di risorse
naturali.
Così come è necessario, a livello
internazionale,applicare subito una tassa sulle transazioni finanziarie,
partendo dai paesi europei interessati.
Mentre sul lato della spesa, oltre alla radicale rimessa
in discussione dell’attuale patto di stabilità, occorre da subito un taglio
drastico alle spese militari, con il rilancio di una campagna di massa per
l’obiezione alle stesse.
Appello a chi è
interessato
Per invertire la rotta in un momento cruciale della
crisi, il conflitto con i mercati finanziari e di capitale è inevitabile e va
combattuto ora prima che sia troppo tardi. Una nuova finanza pubblica può essere
l'argine ma anche lo strumento per disinnescare la crisi, rimettere sotto
controllo la finanza privata, e costruire un altro modello sociale, a partire
dal riconoscimento dei diritti collettivi, dalla riappropriazione sociale dei
beni comuni e dalla riconversione ecologica dell’economia.
Si tratta semplicemente di riappropriarsi della
democrazia.
Su queste riflessioni e questi temi, le reti SiD (Smonta il
Debito) e RiD (Rivolta il
Debito) e le associazioni Attac Italia, Re:Common
e Centro Nuovo Modello di
Sviluppo hanno deciso di lavorare comunemente per la costruzione
di un ampia coalizione sociale nel Paese che, ben oltre i prossimi appuntamenti
elettorali, promuova un progetto politico e di mobilitazione sociale per una
nuova finanza pubblica.
Per questo promuoveranno incontri con comitati
territoriali, reti di movimento e realtà associative, forze sindacali e
politiche interessate al percorso, proponendo loro un primo momento pubblico di
confronto collettivo durante il summit Firenze 10+10 del prossimo
novembre.
Attac
Italia, Centro Nuovo Modello di Sviluppo,
Re:Common,
Rivolta
il Debito, Smonta il Debito
Per informazioni : segreteria@attac.org
lunedì 24 settembre 2012
Servizio
Ciao a tutt*,
vorrei condividere con voi una riflessione, più che altro un pensiero ad alta voce, riguardo
la riappropriazione di un'altra parola.
In questi anni di Movimento
dopo aver riconquistato le parole Diritto (ben
oltre il Bisogno) e Beni Comuni ho iniziato a vedere con luce diversa la parola
Servizio.
Sono anni che ci occupiamo di Servizi, ma abbiamo una comprensione
intima della parola?
Certo è immediato il discorso gestionale, di assetto
aziendale, arriviamo a riconoscere facilmente l'erogazione di Servizio di beni
essenziali, di prima necessità.
Credo poter tracciare un sentiero grezzo
per andare ancora oltre, ovvero:
Servizio ha una valenza di
subordinazione, da servo, servitù. Direi che soprattutto è questa
l'ottica con la quale ci approcciamo quotidianamente al termine.
Ma abbiamo
perso tutto un universo di idee e concetti legati al termine, ovvero tutti i
significati collegati a serbare e potenziati ulteriormente dal prefisso
con: CONSERVARE.
Serbare ovvero custodire, conservare
intatto, proteggere.
Credo fortemente sia questo il
legame saldo che deve guidare la nostra riflessione di difesa dei Beni Comuni
attraverso i Servizi, al fine della loro CONSERVAZIONE per le generazioni
future.
Da questo deve, intendo proprio dovere, conseguire la
cultura e l'educazione che attiene a questa visione, ovvero l'educazione allo
Spirito di Servizio.
Solo sviluppando e facendo nostro questo spirito
potremo davvero fare la differenza rispetto al contesto attuale. Esplicito:
solo facendo nostro lo Spirito di Servizio (ovvero rivolto alla conservazione
dei Beni per le future generazioni) potremo affrontare degnamente la gestione
dei Servizi piuttosto che dei beni comuni - Res Publica - in un modo nuovo e
altro dal presente. Ancor più esplicito: senza questa premessa non credo che
apporteremmo sostanziali modifiche rispetto al modello imperante che combattiamo
da tempo e penso soprattutto alla nostra ampia proposta di partecipazione e per
i servizi pubblici locali e per la partecipazione alla politica, sia essa
interna (chi un giorno si candiderà) sia esterna, restando cittadino
attivo.
L'esperienza bellissima di questi anni mi fa affermare che questa
cultura è più sviluppata tra i cittadini, non mi riferisco solo a noi attivi dei
diversi movimenti, ma anche alle cittadine e cittadini che abbiamo incontrato in
anni di banchetti in piazza, piuttosto che agli amministratori pubblici o
delegati, comunque sempre con i dovuti distinguo.
Reputo interessante
dibattere a riguardo e approfondire un sentiero da me appena appena
abbozzato.
Andrea,
Comitato Acqua Pubblica Torino
lunedì 17 settembre 2012
SalvaCiclisti
L'Inail riconosce lo status di «infortunio in itinere» solo se avviene su piste ciclabili.
In campo Fiab e #salvaiciclisti (twitter)
DIECIMILA FIRME - A denunciare la situazione è la Federazione Italiana Amici della Bicicletta (Fiab) che in una lettera aperta al presidente del Consiglio, al ministro dei Trasporti e ai presidenti di Camera e Senato, ha proposto in giugno la modifica dell’art. 12 del decreto 38/2000 e di aggiungere al testo attuale la frase: «L’uso della bicicletta è comunque coperto da assicurazione, anche nel caso di percorsi brevi o di possibile utilizzo del mezzo pubblico», esattamente come previsto per il lavoratore che si reca al lavoro a piedi. La proposta della Fiab "bici in itinere" ha già raccolto oltre diecimila firme e ricevuto parere favorevole da parte di ben tre Regioni, tre Province e sedici Comuni tra cui Milano, Bologna e Venezia che ravvisano grande imbarazzo nel chiedere ai concittadini e ai propri dipendenti di usare la bicicletta senza poter garantire nel contempo adeguate tutele.
STRAGE DEGLI INNOCENTI - Si tratta di un'iniziativa di sicuro merito civico, che si va ad aggiungere ad altre molteplici iniziative, portata avanti su twitter con l'hashtag #salvaiciclisti, ispirata dal quotidiano londinese The Times che lanciò "Cities Fit For Cyclists", dopo che un suo dipendente finì in coma perché investito mentre andava al lavoro. Tutte storie e fatti che ci riguardano da vicino. Perché usare la bicicletta è un gesto di rispetto nei confronti dell'ambiente e degli altri cittadini. E si tratta di un gesto che non viene sempre rispettato: negli ultimi dieci anni infatti si sono verificate 56 mila morti sulle strade italiane, gli incidenti stradali sono la prima causa di morte per i giovani tra i 15 e i 35 anni (nel paese più vecchio d’Europa), il 2% del PIL annuo se ne va proprio a causa degli incidenti stradali a cui si aggiunge quello perso nel traffico e a causa degli inquinanti generati.
In campo Fiab e #salvaiciclisti (twitter)
Ti fai male andando al lavoro in bicicletta mentre non sei su una pista ciclabile? Niente risarcimento, se vivi in Italia. Già, perché come denuncia #salvaiciclisti nel nostro Paese coloro che decidono di utilizzare la bici per recarsi al lavoro, devono fare i conti con «una legislazione che, non solo non incentiva, ma addirittura penalizza chi utilizza questo mezzo di trasporto». In Italia, in caso di sinistro durante il percorso casa-lavoro effettuato in bicicletta, l’Inail riconosce al lavoratore lo status di “infortunio in itinere” “purché avvenga su piste ciclabili o su strade protette; in caso contrario, quando ci si immette in strade aperte al traffico bisognerà verificare se l`utilizzo era davvero necessario”. Peccato che le piste ciclabili siano davvero poche...
DIECIMILA FIRME - A denunciare la situazione è la Federazione Italiana Amici della Bicicletta (Fiab) che in una lettera aperta al presidente del Consiglio, al ministro dei Trasporti e ai presidenti di Camera e Senato, ha proposto in giugno la modifica dell’art. 12 del decreto 38/2000 e di aggiungere al testo attuale la frase: «L’uso della bicicletta è comunque coperto da assicurazione, anche nel caso di percorsi brevi o di possibile utilizzo del mezzo pubblico», esattamente come previsto per il lavoratore che si reca al lavoro a piedi. La proposta della Fiab "bici in itinere" ha già raccolto oltre diecimila firme e ricevuto parere favorevole da parte di ben tre Regioni, tre Province e sedici Comuni tra cui Milano, Bologna e Venezia che ravvisano grande imbarazzo nel chiedere ai concittadini e ai propri dipendenti di usare la bicicletta senza poter garantire nel contempo adeguate tutele.
STRAGE DEGLI INNOCENTI - Si tratta di un'iniziativa di sicuro merito civico, che si va ad aggiungere ad altre molteplici iniziative, portata avanti su twitter con l'hashtag #salvaiciclisti, ispirata dal quotidiano londinese The Times che lanciò "Cities Fit For Cyclists", dopo che un suo dipendente finì in coma perché investito mentre andava al lavoro. Tutte storie e fatti che ci riguardano da vicino. Perché usare la bicicletta è un gesto di rispetto nei confronti dell'ambiente e degli altri cittadini. E si tratta di un gesto che non viene sempre rispettato: negli ultimi dieci anni infatti si sono verificate 56 mila morti sulle strade italiane, gli incidenti stradali sono la prima causa di morte per i giovani tra i 15 e i 35 anni (nel paese più vecchio d’Europa), il 2% del PIL annuo se ne va proprio a causa degli incidenti stradali a cui si aggiunge quello perso nel traffico e a causa degli inquinanti generati.
Redazione Online24
sabato 15 settembre 2012
Termovalorizzatore di Torino
Iren pronta a offerta con F2i
Il gruppo presieduto da Roberto Bazzano, alle prese con un piano per
ridurre il debito, sarebbe orientato a formulare l'offerta in un veicolo
che la vedrebbe in minoranza rispetto a F2i. Allo stesso tempo,
potrebbe essere prevista una call che consentirebbe a Iren di tornare in
maggioranza nel 2014, quando il termovalorizzatore entrerà in funzione.
Tra gli altri operatori interessati all'impianto ci sarebbero Falck e, tra gli stranieri, la francese Veolia. Iren presenterà una proposta in tandem con F2i solo per il termovalorizzatore, mentre per Amiat starebbe ancora trattando per trovare un partner.
Della questione ha parlato sul suo blog Beppe Grillo. "Per pagare Iren il Comune di Torino metterà in vendita le quote nelle sue partecipate nei trasporti, Gtt, gestione rifiuti, Amiat e l’inceneritore di Gerbido, Trm. Non sembra però che ci sia un grande interesse da parte di eventuali compratori. La possibile soluzione? L’acquisto delle partecipazioni del Comune di Torino da parte di Iren che si è detta interessata - si legge nel post - In sostanza, il creditore, Iren, indebitato per circa tre miliardi, acquista dal debitore (il Comune di Torino), che è anche il suo proprietario, i beni messi in vendita per saldare il debito nei suoi confronti. Chi paga per tutti è il torinese, tassato e cortese. Con fiducia verso la catastrofe".
"Nonostante il credito vantato verso Torino di 260 milioni, Iren si appresta a pagare per l'acquisto della società di raccolta di rifiuti e l'inceneritore della Mole - aggiunge il consigliere comunale reggiano del Movimento 5 Stelle Matteo Olivieri - Lunedì in Consiglio comunale a Reggio si discuterà questo argomento. La nostra interpellanza chiede con quali soldi Iren condurrà l'operazione, visto l'alto indebitamento e la scarsa liquidità, e a quali strategie finanziarie si ispira in questa operazione. Infatti è noto che tutte le grandi multiutility europee, a cominciare da E-On, stanno dismettendo gli inceneritori perchè antieconomici. I nostri allarmi di qualche tempo fa si sono rivelati realtà".
"Nel novembre 2011 venne approvata in Consiglio una nostra mozione per accompagnare il rientro del debito di Torino verso Iren, in cui si chiedeva un approfondimento del Piano di rientro del Comune di Torino dal debito sulle utenze relative all’illuminazione pubblica, integrandolo con adeguate previsioni di investimento sul risparmio energetico, capaci di abbassare il rischio di insolvibilità nel medio e lungo termine - conclude Olivieri - In quella mozione si esprimeva preoccupazione in merito alla capacità del Comune di Torino o di altro socio pubblico di continuare a detenere le azioni della società Iren spa, con un rischio di ulteriore privatizzazione di Iren".
Tra gli altri operatori interessati all'impianto ci sarebbero Falck e, tra gli stranieri, la francese Veolia. Iren presenterà una proposta in tandem con F2i solo per il termovalorizzatore, mentre per Amiat starebbe ancora trattando per trovare un partner.
Della questione ha parlato sul suo blog Beppe Grillo. "Per pagare Iren il Comune di Torino metterà in vendita le quote nelle sue partecipate nei trasporti, Gtt, gestione rifiuti, Amiat e l’inceneritore di Gerbido, Trm. Non sembra però che ci sia un grande interesse da parte di eventuali compratori. La possibile soluzione? L’acquisto delle partecipazioni del Comune di Torino da parte di Iren che si è detta interessata - si legge nel post - In sostanza, il creditore, Iren, indebitato per circa tre miliardi, acquista dal debitore (il Comune di Torino), che è anche il suo proprietario, i beni messi in vendita per saldare il debito nei suoi confronti. Chi paga per tutti è il torinese, tassato e cortese. Con fiducia verso la catastrofe".
"Nonostante il credito vantato verso Torino di 260 milioni, Iren si appresta a pagare per l'acquisto della società di raccolta di rifiuti e l'inceneritore della Mole - aggiunge il consigliere comunale reggiano del Movimento 5 Stelle Matteo Olivieri - Lunedì in Consiglio comunale a Reggio si discuterà questo argomento. La nostra interpellanza chiede con quali soldi Iren condurrà l'operazione, visto l'alto indebitamento e la scarsa liquidità, e a quali strategie finanziarie si ispira in questa operazione. Infatti è noto che tutte le grandi multiutility europee, a cominciare da E-On, stanno dismettendo gli inceneritori perchè antieconomici. I nostri allarmi di qualche tempo fa si sono rivelati realtà".
"Nel novembre 2011 venne approvata in Consiglio una nostra mozione per accompagnare il rientro del debito di Torino verso Iren, in cui si chiedeva un approfondimento del Piano di rientro del Comune di Torino dal debito sulle utenze relative all’illuminazione pubblica, integrandolo con adeguate previsioni di investimento sul risparmio energetico, capaci di abbassare il rischio di insolvibilità nel medio e lungo termine - conclude Olivieri - In quella mozione si esprimeva preoccupazione in merito alla capacità del Comune di Torino o di altro socio pubblico di continuare a detenere le azioni della società Iren spa, con un rischio di ulteriore privatizzazione di Iren".
FONTE: http://24emilia.com
Quel matrimonio non s'ha da fare...
A2A studia per
diventare l’Enel 2
PIACEVA tanto all’assessore regionale lombardo Bruno Tabacci. Ma anche Piero Fassino, sindaco di Torino, sembrava non disdegnare l’idea. Gli unici che si sono sempre mostrati freddi, molto freddi, sono stati i genovesi. Non è mai piaciuta, all’ombra della Lanterna, l’idea di creare un colosso capace di unire A2A, la multiutilities lombarda che unisce le forze di Milano e di Brescia, e Iren. Alla fine, pare proprio che l’impostazione genovese, da subito condivisa dal sindaco Marco Doria, sia destinata ad arrivare fino in fondo. Niente matrimonio, niente quote di controllo ancor più diluite rispetto al presente, ognuno avanti per la propria strada. In fondo, per dirla tutta, anche ai vertici societari di A2A l’idea di unirsi a Iren, con quello che ne consegue, lasciava qualche dubbio. Questione di strategie, soprattutto. Perché A2A è vuole diventare sempre più forte nell’energia e nella generazione. Insomma, fatte le debite proporzioni, punta a diventare una sorta di “Enel 2”, con l’obiettivo di offrire i suoi servizi su tutto il territorio nazionale.
Ecco perché la questione della multiutility del Nord a più d’uno ha dato l’impressione di essere una cortina fumogena davanti a una scenario differente. Ad A2A, ad esempio, non dispiacerebbe liquidare Iren per aumentare le sinergie tra i suoi impianti e quelli di Edipower. Il gruppo lombardo punta infatti a diventare il secondo operatore nazionale senza una forte connotazione e un legame territoriale particolarmente vincolante. Hera rafforza di fatto l’asse del nordest dove ora sarà sempre più difficile entrare. I sindaci-azionisti di Iren vedono quindi il gruppo come la multiutility del nordovest, almeno per i prossimi 4-5 anni. Non a caso i reiterati tentativi emiliani di aggregazioni con Ascopiave e AcegasAps per accerchiare Hera sono andati a vuoto. E opinione condivisa, soprattutto fra Fassino e Doria, che nei prossimi anni il gruppo avrà bisogno di amalgamarsi, ristrutturarsi all’interno e fondersi realmente, più che allargarsi ancora. Oltretutto, Doria e Fassino non avrebbero particolarmente gradito la notizia dell’arbitrato vinto da Edison sui cosiddetti contratti “take or pay” che avrebbe un impatto positivo sul suo margine operativo lordo di 450 milioni. Insomma, si starebbero chiedendo: «L’abbiamo pagata cara, l’abbiamo venduta a un prezzo più basso, e ora all’improvviso i suoi conti vanno meglio?». Eh sì, a Genova e Torino i conti sembrano non tornare...
(Massimo Minella, Repubblica ed.Genova)
PIACEVA tanto all’assessore regionale lombardo Bruno Tabacci. Ma anche Piero Fassino, sindaco di Torino, sembrava non disdegnare l’idea. Gli unici che si sono sempre mostrati freddi, molto freddi, sono stati i genovesi. Non è mai piaciuta, all’ombra della Lanterna, l’idea di creare un colosso capace di unire A2A, la multiutilities lombarda che unisce le forze di Milano e di Brescia, e Iren. Alla fine, pare proprio che l’impostazione genovese, da subito condivisa dal sindaco Marco Doria, sia destinata ad arrivare fino in fondo. Niente matrimonio, niente quote di controllo ancor più diluite rispetto al presente, ognuno avanti per la propria strada. In fondo, per dirla tutta, anche ai vertici societari di A2A l’idea di unirsi a Iren, con quello che ne consegue, lasciava qualche dubbio. Questione di strategie, soprattutto. Perché A2A è vuole diventare sempre più forte nell’energia e nella generazione. Insomma, fatte le debite proporzioni, punta a diventare una sorta di “Enel 2”, con l’obiettivo di offrire i suoi servizi su tutto il territorio nazionale.
Ecco perché la questione della multiutility del Nord a più d’uno ha dato l’impressione di essere una cortina fumogena davanti a una scenario differente. Ad A2A, ad esempio, non dispiacerebbe liquidare Iren per aumentare le sinergie tra i suoi impianti e quelli di Edipower. Il gruppo lombardo punta infatti a diventare il secondo operatore nazionale senza una forte connotazione e un legame territoriale particolarmente vincolante. Hera rafforza di fatto l’asse del nordest dove ora sarà sempre più difficile entrare. I sindaci-azionisti di Iren vedono quindi il gruppo come la multiutility del nordovest, almeno per i prossimi 4-5 anni. Non a caso i reiterati tentativi emiliani di aggregazioni con Ascopiave e AcegasAps per accerchiare Hera sono andati a vuoto. E opinione condivisa, soprattutto fra Fassino e Doria, che nei prossimi anni il gruppo avrà bisogno di amalgamarsi, ristrutturarsi all’interno e fondersi realmente, più che allargarsi ancora. Oltretutto, Doria e Fassino non avrebbero particolarmente gradito la notizia dell’arbitrato vinto da Edison sui cosiddetti contratti “take or pay” che avrebbe un impatto positivo sul suo margine operativo lordo di 450 milioni. Insomma, si starebbero chiedendo: «L’abbiamo pagata cara, l’abbiamo venduta a un prezzo più basso, e ora all’improvviso i suoi conti vanno meglio?». Eh sì, a Genova e Torino i conti sembrano non tornare...
(Massimo Minella, Repubblica ed.Genova)
...altro che stare zitti!
Caselli: ”Altro che stare zitti! E’ una stagione che impone l’obbligo di parola”
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Dopo le roventi polemiche di questi
giorni, che hanno coinvolto i pm palermitani Ingroia e Di Matteo, il
presidente dell'Anm Sabelli, il vicepresidente del Csm Vietti,
cerchiamo di fare chiarezza su compiti e limiti dei magistrati nella
vita pubblica. “La minaccia all’imparzialità delle toghe deriva dalla
partecipazione alla gestione del potere, non certamente dalla
partecipazione al dibattito politico-culturale”, sostiene il
procuratore capo di Torino nella sua appassionata difesa di un ruolo
che lo vede da tempo in primo piano.
colloquio con Gian Carlo Caselli di Rossella Guadagnini (MicroMega)
Non
sono propriamente consigli da manuale di buone maniere a uso delle
toghe. E’ una questione seria. Quanto sta succedendo in questi giorni lo
troviamo sulle pagine dei quotidiani, sotto gli occhi di tutti, lo
ascoltiamo nelle chiacchiere da bar. L’attacco al magistrato più
contestato del momento, meno spesso la sua difesa, è diventato quasi uno
sport nazionale. Famosi come campioni di calcio, tra i volti noti
dell’Italia di oggi, i giudici che fanno? Parlano, scrivono libri,
intervengono nel dibattito culturale, si espongono ai raggi pericolosi
dei media, si appassionano di politica. Ma possono farlo e, soprattutto,
è giusto che lo facciano?
I magistrati – dicono alcuni – dovrebbero starsene zitti in disparte, possibilmente a occhi bassi chini sulle proprie carte. Fedeli ai voti espressi con il proprio ‘sacerdozio’. Invece, divisi tra fan e detrattori, scontano la popolarità raggiunta attraverso processi importanti (una popolarità che turba e disturba), subendo pressing, rilievi, strigliate, ammonizioni. Che giorno dopo giorno delegittimano il ruolo che hanno, intaccandone l’autorevolezza come singoli e come categoria. Ecco perché adesso, oltre alla sicurezza personale, occorre proteggere la loro libertà di espressione. Perché le luci restino accese sui procedimenti giudiziari e non si spengano nell’indifferenza dell’opinione pubblica.
Dottor Caselli, oggi è più che mai necessario fare chiarezza sul ruolo del magistrato nella vita pubblica e sulla sua libertà di intervento nel dibattito civile e politico.
L’intervento giudiziario registra ovunque in Europa, se non nel mondo, una grande espansione. Spesso occupa le prime pagine dei giornali e delle tv e produce effetti che possono riguardare addirittura gli equilibri politici e i destini dei governi. Apriamo il quotidiano del giorno e troviamo il caso riguardante i nuovi guai giudiziari dell’ex premier Dominique de Villepin in Francia e quello della Corte Costituzionale tedesca in Germania. Questa espansione che si manifesta ovunque in Europa nei vari settori che possono interessare la vita pubblica e istituzionale dimostra che l’allargamento a macchia d’olio delle pertinenze della giustizia ha una dimensione oggettiva, il che significa che non c’entrano o centrano assai poco, comunque decisamente meno di quello che si vuol far credere, soprattutto in Italia, le forzature soggettive.
Come mai questa espansione?
Da sempre, e specialmente negli ultimi 25 anni, la politica o comunque una parte consistente della politica ha delegato alla magistratura l’intervento e, se possibile, la soluzione di problemi che la politica non sa come affrontare e risolvere. La storia del nostro Paese è costellata di deleghe. C’è stata la delega alle forze dell’ordine e alla magistratura per il terrorismo, per le stragi cosiddette di destra, per la corruzione, per la sicurezza sui posti di lavoro – l’Ilva di Taranto è una clamorosa dimostrazione di quello che sto dicendo – per i problemi di fine vita e, infine, per quelli di mafia. In particolare sui rapporti tra mafia e politica, di cui le cosiddette trattative sono l’ultimo capitolo.
In che modo funziona la delega di cui parla?
Viene conferita con regolarità. Quando però si supera il limite segnalato da una certa asticella, idealmente tracciato dallo stesso potere politico che delega, la magistratura deve mettere in conto di essere fatta oggetto di polemiche, attacchi, di un vero e proprio assalto alla giustizia. Ci sono molte situazioni delicate perché prive di copertura normativa o per effetto di uno stallo decisionale. C’è una debolezza nei controlli amministrativi e anche nei controlli che sono compito della stampa. C’è una concentrazione di potere economico e politico in poche mani che differenzia il nostro Paese dalle altre democrazie occidentali.
Una volta l’intervento giudiziario non faceva notizia come invece accade oggi.
Un tempo la magistratura era sostanzialmente, direi fisiologicamente, in sintonia col potere dominante, in quanto espressione delle classi che quel potere formavano. E’ storia del nostro Paese. Negli ultimi 20 anni la magistratura ha dimostrato di voler applicare la legge in maniera uguale per tutti. Ha messo in campo uno sforzo consistente in questo senso, la gente ci ha creduto, ha fatto anche il tifo per i magistrati. Ma certuni, che si sono sentiti toccati sul vivo perché prima erano immuni, hanno reagito ancora una volta attaccando la giustizia, magari dopo il superamento dell’asticella.
Ad esempio?
A Milano, 20 anni fa, ai tempi di Mani Pulite, per un paio d’anni tutto è andato bene. Poi l’inchiesta si è allargata troppo e niente è andato più bene. A Palermo è accaduto lo stesso: subito dopo le stragi di mafia per due anni tutto procedeva per il meglio, poi di nuovo più niente è andato bene, accadde quando cominciammo a occuparci di mafia e politica.
Da cosa si giudicano i giudici o non si possono giudicare?
Un tempo si valutava l’intervento giudiziario sulla base dei criteri della correttezza e del rigore. Oggi no, oggi si giudica in base a quelli della convenienza, dell’utilità e del vantaggio. Se tu magistrato fai una cosa mi piace o che mi può venire utile, o può venire utile a qualcuno della mia cordata, allora ti lascio tranquillo o addirittura parlo bene di te. Ma se mi tocchi, se tocchi gli interessi della mia cordata, devi mettere in conto che entri nell’occhio del ciclone. Questo è devastante e spiega, a mio avviso, molte esasperazioni e strumentalizzazioni in riferimento alla questione del ruolo del magistrato e se il magistrato possa o debba avere un ruolo nel dibattito pubblico.
Quale comportamento personale e professionale è opportuno che osservi? Deve parlare solo ed esclusivamente attraverso le sentenze?
E’ molto diffusa la tesi secondo cui il magistrato che partecipa alla vita e al dibattito politico-culturale diventi sospetto a chi ha idee diverse da quelle che egli espone partecipando al dibattito e, pertanto, dal dibattito stesso il magistrato dovrebbe astenersi. E’ un’affermazione suggestiva, ma deformante: l’estraneità del giudice rispetto alla società è, prima di tutto, impossibile. Ecco un esempio che può sembrare banale, ma invece è fondamentale: in un Paese cattolico come il nostro ci sono giudici credenti, sicuramente la maggioranza, e altri che non lo sono. Quella dell’essere o non essere credenti non è una condizione occultabile. Ma allora, ragionando in un certo modo, l’ateo dovrebbe rifiutare il giudizio del magistrato credente o il credente dovrebbe rifiutare il giudizio del magistrato ateo o agnostico? Non esiste, nessuno l’ha mai detto. Il magistrato deve essere valutato in base al rigore del suo lavoro, delle motivazioni che lo sostengono.
E dunque?
Dunque se ciò vale per le convinzioni più profonde, come credere o meno nell’esistenza di Dio, perché non dovrebbe valere per scelte che sono di altra natura, ideale, culturale, politica? Il problema, in realtà è un altro: non sono le idee e neppure la loro manifestazione pubblica che possono ridurre l’imparzialità del magistrato. Sono le appartenenze, soprattutto se occulte, sono le frequentazioni delle stanze del potere, anche solo mediante la formulazione di pareri, la distribuzione di incarichi extragiudiziali, che possono ridurne l’imparzialità. Molte volte, in base alla mia esperienza, ho notato come il magistrato che si presentava come il più apolitico di tutti, il più indifferente al dibattito che ferveva nel Paese, era poi quello disposto a fornire forme di subordinazione del proprio ruolo.
Fin dove si può spingere il diritto di espressione e critica del magistrato, specie nei confronti di altri poteri dello Stato, come governo e parlamento?
Passione civile, partecipazione al dibattito pubblico nel Paese, imparzialità nel giudizio non sono concetti che fanno a pugni. Dato che l’imparzialità è disinteresse personale, estraneità agli interessi in conflitto nel caso concreto, distacco dalle parti coinvolte. L’indifferenza alle idee e ai valori è tutt’altra cosa… Anzi, dirò di più: chi giudica trincerandosi dietro una barriera che lo estrania dalla realtà sociale, che protesta indifferenza alle idee e ai valori, si pone in una posizione per me molto discutibile.
Ritiene giusto che un giudice parli di giustizia?
La minaccia all’indipendenza, all’imparzialità del magistrato deriva dalla partecipazione alla gestione del potere, dai legami affaristici, non certamente dalla sua partecipazione al dibattito e al confronto culturale. Quando poi si tratta specificamente di dibattito sui temi della giustizia, diciamo anche questo, il nostro è il Paese in cui tutti parlano di giustizia, spesso e volentieri con i toni da bar sport. Se i soli che dovessero astenersi da questo esercizio fossero i magistrati sarebbe una condizione piuttosto ridicola, non crede? L’importante è che si partecipi con equilibrio e senso della misura, senza ovviamente parlare dei propri processi.
Sono doti necessarie per restare in equilibrio su un sottile crinale.
Questa è una stagione di fortissime tensioni, una stagione tale da imporre anche ai magistrati l’obbligo di parola, l’obbligo d’intervento, di partecipare alla discussione. Altro che il silenzio! Perché i magistrati hanno esperienze professionali che possono contribuire utilmente al dibattito pubblico di questo periodo così tormentato. Equilibrio, senso della misura, non parlare dei propri processi, va bene, ma anche qui bisogna esser chiari. Ricordo il caso del processo penale, che molto spesso sugli organi di stampa è interpretato e commentato dalla parte privata. E mi chiedo se il naturale equilibrio delle parti consenta o meno un intervento anche dalla parte pubblica.
A chi è affidata la difesa del magistrato?
I media oggi sono potentissimi, ma spesso imprecisi, se non peggio. Di conseguenza quali spazi ci sono per le precisazioni e i chiarimenti del magistrato, anche a protezione delle persone coinvolte con inesattezza nelle notizie date? Il pm e anche il gip, che siano oggetto di osservazioni o critiche infondate, devono considerarsi legittimati a rispondere e a difendersi? A questi interrogativi mi pare che ormai l’ordinamento giudiziario abbia risposto, nel senso che il capo dell’ufficio è legittimato a intervenire per chiarimenti che evitino distorsioni. Ci si domanda, tuttavia, se anche il singolo magistrato possa farlo, quando il suo capo ufficio non intervenga.
E’ in atto un conflitto di poteri tra magistratura, politica e istituzioni fino ad arrivare al Quirinale, come da più parti si sta ventilando?
Non c’è alcun conflitto di poteri nella pressoché totalità dei casi. Ci potrà essere qualche eccezione, ma personalmente non la conosco. C’è una magistratura che fa il suo dovere, magari in quella situazione di delega cui accennavo prima. I titolari di certi interessi, anche esponenti del mondo politico, se vengono toccati nei loro interessi danno addosso alla magistratura. Questo non è un conflitto, però, ma un assalto: è diverso.
Il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, ha detto che "occorre uscire dalla psicosi degli attacchi ed entrare nell'ottica del servizio al cittadino".
In questo quadro, con tutto il rispetto dovuto al vicepresidente del Csm Michele Vietti, e non è una formula di stile, uscire dalla psicosi degli attacchi può valere al massimo come auspicio. Fermo restando che gli attacchi nessuno se li inventa.
All'interno della stessa magistratura ci sono posizioni diverse e alleanze a 'geometria variabile'. Si pensi al caso Ingroia, al tempo stesso bacchettato dal presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli e quindi difeso dalla corrente dei moderati all'interno dello stesso sindacato di categoria.
Riguardo l’intervento del presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Rodolfo Sabelli, mi sembra singolare che il capo di un sindacato, leggendo un articolo del Corriere della Sera come poi ha raccontato, attacchi un iscritto al suo stesso sindacato. In questo caso, non sarebbe stata fuori luogo una maggiore dose di verifica e prudenza. Sabelli è uno stimato collega e tale resta. Ma il suo intervento è stato sopra le righe.
Tutto sembra partire dalla trattativa Stato-mafia, emersa dall'inchiesta condotta dalla procura di Palermo, che ha innescato una spirale perniciosa.
Le polemiche sono diventate al calor bianco perché al calor bianco è il tema che giornalisticamente viene rubricato come trattativa Stato-mafia. Basta leggere il capo d’accusa che hanno formulato i colleghi della procura di Palermo per rendersi conto di quanto l’argomento sia incandescente. Tuttavia, l’ho già detto altre volte e vorrei ripeterlo anche qui: siamo alla vigilia di un momento delicato, la decisione del gip del Tribunale di Palermo. La ricerca da parte di tutti di un rasserenamento della situazione, che consenta scelte in un clima di ritrovata normalità, è un obiettivo sacrosanto.
Il capo dello Stato ha tirato il ‘sasso nello stagno’ sulla liceità delle intercettazioni e in seguito ha dichiarato che si trattava di una “questione generale” riguardante il proprio ruolo istituzionale. Il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli ha detto basta agli interventi ‘politici’ dei magistrati e quindi ha precisato il suo intervento, aggiungendo di aver posto una questione di “ordine generale”. Si tratta di materie su cui la legislazione è incerta o addirittura assente?
Io non sono soltanto Gian Carlo Caselli. Sono anche un magistrato e, quindi, ho dei limiti istituzionali per quanto riguarda certi argomenti. Fermo restando l’assoluto rispetto dovuto, e che personalmente ho, all’istituzione capo dello Stato, credo che discutere sull’opportunità o meno del conflitto che il presidente Napolitano ha sollevato sia, in democrazia, ben possibile. Condivido, nel contempo, la preoccupazione di molti, secondo cui occorre fare di tutto affinché la situazione che si è determinata non venga utilizzata per cattive riforme, in particolare sul versante delle intercettazioni.
I magistrati – dicono alcuni – dovrebbero starsene zitti in disparte, possibilmente a occhi bassi chini sulle proprie carte. Fedeli ai voti espressi con il proprio ‘sacerdozio’. Invece, divisi tra fan e detrattori, scontano la popolarità raggiunta attraverso processi importanti (una popolarità che turba e disturba), subendo pressing, rilievi, strigliate, ammonizioni. Che giorno dopo giorno delegittimano il ruolo che hanno, intaccandone l’autorevolezza come singoli e come categoria. Ecco perché adesso, oltre alla sicurezza personale, occorre proteggere la loro libertà di espressione. Perché le luci restino accese sui procedimenti giudiziari e non si spengano nell’indifferenza dell’opinione pubblica.
Dottor Caselli, oggi è più che mai necessario fare chiarezza sul ruolo del magistrato nella vita pubblica e sulla sua libertà di intervento nel dibattito civile e politico.
L’intervento giudiziario registra ovunque in Europa, se non nel mondo, una grande espansione. Spesso occupa le prime pagine dei giornali e delle tv e produce effetti che possono riguardare addirittura gli equilibri politici e i destini dei governi. Apriamo il quotidiano del giorno e troviamo il caso riguardante i nuovi guai giudiziari dell’ex premier Dominique de Villepin in Francia e quello della Corte Costituzionale tedesca in Germania. Questa espansione che si manifesta ovunque in Europa nei vari settori che possono interessare la vita pubblica e istituzionale dimostra che l’allargamento a macchia d’olio delle pertinenze della giustizia ha una dimensione oggettiva, il che significa che non c’entrano o centrano assai poco, comunque decisamente meno di quello che si vuol far credere, soprattutto in Italia, le forzature soggettive.
Come mai questa espansione?
Da sempre, e specialmente negli ultimi 25 anni, la politica o comunque una parte consistente della politica ha delegato alla magistratura l’intervento e, se possibile, la soluzione di problemi che la politica non sa come affrontare e risolvere. La storia del nostro Paese è costellata di deleghe. C’è stata la delega alle forze dell’ordine e alla magistratura per il terrorismo, per le stragi cosiddette di destra, per la corruzione, per la sicurezza sui posti di lavoro – l’Ilva di Taranto è una clamorosa dimostrazione di quello che sto dicendo – per i problemi di fine vita e, infine, per quelli di mafia. In particolare sui rapporti tra mafia e politica, di cui le cosiddette trattative sono l’ultimo capitolo.
In che modo funziona la delega di cui parla?
Viene conferita con regolarità. Quando però si supera il limite segnalato da una certa asticella, idealmente tracciato dallo stesso potere politico che delega, la magistratura deve mettere in conto di essere fatta oggetto di polemiche, attacchi, di un vero e proprio assalto alla giustizia. Ci sono molte situazioni delicate perché prive di copertura normativa o per effetto di uno stallo decisionale. C’è una debolezza nei controlli amministrativi e anche nei controlli che sono compito della stampa. C’è una concentrazione di potere economico e politico in poche mani che differenzia il nostro Paese dalle altre democrazie occidentali.
Una volta l’intervento giudiziario non faceva notizia come invece accade oggi.
Un tempo la magistratura era sostanzialmente, direi fisiologicamente, in sintonia col potere dominante, in quanto espressione delle classi che quel potere formavano. E’ storia del nostro Paese. Negli ultimi 20 anni la magistratura ha dimostrato di voler applicare la legge in maniera uguale per tutti. Ha messo in campo uno sforzo consistente in questo senso, la gente ci ha creduto, ha fatto anche il tifo per i magistrati. Ma certuni, che si sono sentiti toccati sul vivo perché prima erano immuni, hanno reagito ancora una volta attaccando la giustizia, magari dopo il superamento dell’asticella.
Ad esempio?
A Milano, 20 anni fa, ai tempi di Mani Pulite, per un paio d’anni tutto è andato bene. Poi l’inchiesta si è allargata troppo e niente è andato più bene. A Palermo è accaduto lo stesso: subito dopo le stragi di mafia per due anni tutto procedeva per il meglio, poi di nuovo più niente è andato bene, accadde quando cominciammo a occuparci di mafia e politica.
Da cosa si giudicano i giudici o non si possono giudicare?
Un tempo si valutava l’intervento giudiziario sulla base dei criteri della correttezza e del rigore. Oggi no, oggi si giudica in base a quelli della convenienza, dell’utilità e del vantaggio. Se tu magistrato fai una cosa mi piace o che mi può venire utile, o può venire utile a qualcuno della mia cordata, allora ti lascio tranquillo o addirittura parlo bene di te. Ma se mi tocchi, se tocchi gli interessi della mia cordata, devi mettere in conto che entri nell’occhio del ciclone. Questo è devastante e spiega, a mio avviso, molte esasperazioni e strumentalizzazioni in riferimento alla questione del ruolo del magistrato e se il magistrato possa o debba avere un ruolo nel dibattito pubblico.
Quale comportamento personale e professionale è opportuno che osservi? Deve parlare solo ed esclusivamente attraverso le sentenze?
E’ molto diffusa la tesi secondo cui il magistrato che partecipa alla vita e al dibattito politico-culturale diventi sospetto a chi ha idee diverse da quelle che egli espone partecipando al dibattito e, pertanto, dal dibattito stesso il magistrato dovrebbe astenersi. E’ un’affermazione suggestiva, ma deformante: l’estraneità del giudice rispetto alla società è, prima di tutto, impossibile. Ecco un esempio che può sembrare banale, ma invece è fondamentale: in un Paese cattolico come il nostro ci sono giudici credenti, sicuramente la maggioranza, e altri che non lo sono. Quella dell’essere o non essere credenti non è una condizione occultabile. Ma allora, ragionando in un certo modo, l’ateo dovrebbe rifiutare il giudizio del magistrato credente o il credente dovrebbe rifiutare il giudizio del magistrato ateo o agnostico? Non esiste, nessuno l’ha mai detto. Il magistrato deve essere valutato in base al rigore del suo lavoro, delle motivazioni che lo sostengono.
E dunque?
Dunque se ciò vale per le convinzioni più profonde, come credere o meno nell’esistenza di Dio, perché non dovrebbe valere per scelte che sono di altra natura, ideale, culturale, politica? Il problema, in realtà è un altro: non sono le idee e neppure la loro manifestazione pubblica che possono ridurre l’imparzialità del magistrato. Sono le appartenenze, soprattutto se occulte, sono le frequentazioni delle stanze del potere, anche solo mediante la formulazione di pareri, la distribuzione di incarichi extragiudiziali, che possono ridurne l’imparzialità. Molte volte, in base alla mia esperienza, ho notato come il magistrato che si presentava come il più apolitico di tutti, il più indifferente al dibattito che ferveva nel Paese, era poi quello disposto a fornire forme di subordinazione del proprio ruolo.
Fin dove si può spingere il diritto di espressione e critica del magistrato, specie nei confronti di altri poteri dello Stato, come governo e parlamento?
Passione civile, partecipazione al dibattito pubblico nel Paese, imparzialità nel giudizio non sono concetti che fanno a pugni. Dato che l’imparzialità è disinteresse personale, estraneità agli interessi in conflitto nel caso concreto, distacco dalle parti coinvolte. L’indifferenza alle idee e ai valori è tutt’altra cosa… Anzi, dirò di più: chi giudica trincerandosi dietro una barriera che lo estrania dalla realtà sociale, che protesta indifferenza alle idee e ai valori, si pone in una posizione per me molto discutibile.
Ritiene giusto che un giudice parli di giustizia?
La minaccia all’indipendenza, all’imparzialità del magistrato deriva dalla partecipazione alla gestione del potere, dai legami affaristici, non certamente dalla sua partecipazione al dibattito e al confronto culturale. Quando poi si tratta specificamente di dibattito sui temi della giustizia, diciamo anche questo, il nostro è il Paese in cui tutti parlano di giustizia, spesso e volentieri con i toni da bar sport. Se i soli che dovessero astenersi da questo esercizio fossero i magistrati sarebbe una condizione piuttosto ridicola, non crede? L’importante è che si partecipi con equilibrio e senso della misura, senza ovviamente parlare dei propri processi.
Sono doti necessarie per restare in equilibrio su un sottile crinale.
Questa è una stagione di fortissime tensioni, una stagione tale da imporre anche ai magistrati l’obbligo di parola, l’obbligo d’intervento, di partecipare alla discussione. Altro che il silenzio! Perché i magistrati hanno esperienze professionali che possono contribuire utilmente al dibattito pubblico di questo periodo così tormentato. Equilibrio, senso della misura, non parlare dei propri processi, va bene, ma anche qui bisogna esser chiari. Ricordo il caso del processo penale, che molto spesso sugli organi di stampa è interpretato e commentato dalla parte privata. E mi chiedo se il naturale equilibrio delle parti consenta o meno un intervento anche dalla parte pubblica.
A chi è affidata la difesa del magistrato?
I media oggi sono potentissimi, ma spesso imprecisi, se non peggio. Di conseguenza quali spazi ci sono per le precisazioni e i chiarimenti del magistrato, anche a protezione delle persone coinvolte con inesattezza nelle notizie date? Il pm e anche il gip, che siano oggetto di osservazioni o critiche infondate, devono considerarsi legittimati a rispondere e a difendersi? A questi interrogativi mi pare che ormai l’ordinamento giudiziario abbia risposto, nel senso che il capo dell’ufficio è legittimato a intervenire per chiarimenti che evitino distorsioni. Ci si domanda, tuttavia, se anche il singolo magistrato possa farlo, quando il suo capo ufficio non intervenga.
E’ in atto un conflitto di poteri tra magistratura, politica e istituzioni fino ad arrivare al Quirinale, come da più parti si sta ventilando?
Non c’è alcun conflitto di poteri nella pressoché totalità dei casi. Ci potrà essere qualche eccezione, ma personalmente non la conosco. C’è una magistratura che fa il suo dovere, magari in quella situazione di delega cui accennavo prima. I titolari di certi interessi, anche esponenti del mondo politico, se vengono toccati nei loro interessi danno addosso alla magistratura. Questo non è un conflitto, però, ma un assalto: è diverso.
Il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, ha detto che "occorre uscire dalla psicosi degli attacchi ed entrare nell'ottica del servizio al cittadino".
In questo quadro, con tutto il rispetto dovuto al vicepresidente del Csm Michele Vietti, e non è una formula di stile, uscire dalla psicosi degli attacchi può valere al massimo come auspicio. Fermo restando che gli attacchi nessuno se li inventa.
All'interno della stessa magistratura ci sono posizioni diverse e alleanze a 'geometria variabile'. Si pensi al caso Ingroia, al tempo stesso bacchettato dal presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli e quindi difeso dalla corrente dei moderati all'interno dello stesso sindacato di categoria.
Riguardo l’intervento del presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Rodolfo Sabelli, mi sembra singolare che il capo di un sindacato, leggendo un articolo del Corriere della Sera come poi ha raccontato, attacchi un iscritto al suo stesso sindacato. In questo caso, non sarebbe stata fuori luogo una maggiore dose di verifica e prudenza. Sabelli è uno stimato collega e tale resta. Ma il suo intervento è stato sopra le righe.
Tutto sembra partire dalla trattativa Stato-mafia, emersa dall'inchiesta condotta dalla procura di Palermo, che ha innescato una spirale perniciosa.
Le polemiche sono diventate al calor bianco perché al calor bianco è il tema che giornalisticamente viene rubricato come trattativa Stato-mafia. Basta leggere il capo d’accusa che hanno formulato i colleghi della procura di Palermo per rendersi conto di quanto l’argomento sia incandescente. Tuttavia, l’ho già detto altre volte e vorrei ripeterlo anche qui: siamo alla vigilia di un momento delicato, la decisione del gip del Tribunale di Palermo. La ricerca da parte di tutti di un rasserenamento della situazione, che consenta scelte in un clima di ritrovata normalità, è un obiettivo sacrosanto.
Il capo dello Stato ha tirato il ‘sasso nello stagno’ sulla liceità delle intercettazioni e in seguito ha dichiarato che si trattava di una “questione generale” riguardante il proprio ruolo istituzionale. Il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli ha detto basta agli interventi ‘politici’ dei magistrati e quindi ha precisato il suo intervento, aggiungendo di aver posto una questione di “ordine generale”. Si tratta di materie su cui la legislazione è incerta o addirittura assente?
Io non sono soltanto Gian Carlo Caselli. Sono anche un magistrato e, quindi, ho dei limiti istituzionali per quanto riguarda certi argomenti. Fermo restando l’assoluto rispetto dovuto, e che personalmente ho, all’istituzione capo dello Stato, credo che discutere sull’opportunità o meno del conflitto che il presidente Napolitano ha sollevato sia, in democrazia, ben possibile. Condivido, nel contempo, la preoccupazione di molti, secondo cui occorre fare di tutto affinché la situazione che si è determinata non venga utilizzata per cattive riforme, in particolare sul versante delle intercettazioni.
(14 settembre 2012)
giovedì 13 settembre 2012
Lettera aperta ai consiglieri comunali di Torino
TORINO TOGLIERÀ L'ACQUA AI
PIACENTINI?
Dopo l'ondata di SI ai referendum
sull'acqua del 2011, le Aziende idriche e le istituzioni non si sono ancora
adeguate alla volontà popolare.
Solo la Provincia di Imperia ha
modificato le proprie tariffe nel rispetto della legge.
A questa situazione il movimento
per l'acqua ha reagito proponendo in tutta Italia la campagna di Obbedienza Civile per ottenere il rispetto
del voto referendario. Sono ormai diverse migliaia i cittadini che oggi pagano
al proprio gestore idrico solo l'importo dovuto, decurtato della quota di
remunerazione del capitale abrogata dal referendum.
Le reazioni dei gestori non sono
mancate, i rimpalli di responsabilità tra i vari livelli istituzionali nemmeno.
A Piacenza IREN ha deciso di mostrare i muscoli
recapitando ai Cittadini Obbedienti una lettera che minaccia lo stacco della
fornitura, trattando da evasori quei cittadini consapevoli che chiedono il
rispetto della democrazia e della volontà popolare garantita dalla
Costituzione.
Il Comitato per l'Acqua Pubblica
di Torino non può non porsi il problema di quale sarà il ruolo della nostra
città se IREN dalle parole dovesse arrivare ai fatti. Torino che è uno dei
maggiori azionisti di IREN, concorderà con la linea dura? I poteri di indirizzo
e controllo del consiglio comunale di Torino nei confronti di IREN sono talmente
labili che dovremo scordarci qualunque politica sociale attuabile tramite i
servizi pubblici locali?
Come Comitato Acqua Pubblica
abbiamo sempre visto in maniera critica le fusioni societarie che hanno portato
alla costituzione di IREN, sia perché le ritenevamo operazioni puramente
finanziarie che nulla avrebbero portato alla collettività, sia perché temevamo
si traducessero in una perdita della capacità di indirizzo e controllo da parte
dei comuni. Dire oggi “l'avevamo detto” è davvero una magra
consolazione.
Chiediamo ai nostri Consiglieri
comunali di prendere una netta posizione contraria ai metodi di IREN nei
confronti degli utenti piacentini e di dare mandato ai rappresentati del Comune
di Torino nel Consiglio di Amministrazione IREN di far cessare tali metodi
immediatamente.
Torino, 13 settembre
2012
Forum Italiano
dei Movimenti per l'Acqua
Comitato
Acqua
Pubblica
Torino
Via Mantova 34 – 10153
Torino
www.acquapubblicatorino.org –
Tel. 388 8597492
mercoledì 5 settembre 2012
Dichiariamo illegale la povertà !
don Luigi
CIOTTI, Gruppo Abele,
Libera
Riccardo PETRELLA, Università del Bene Comune
Antonietta POTENTE, suora domenicana, Bolivia
Bruno AMOROSO, economista
Antonello MANGANO, fondatore di terrelibere.org
Robin COUTURE, presidente di "Per un Quebec senza Povertà"
Con: Casa della Solidarietà-Rete Radié Resch di Quarrata (Pistoia), Libera, Università del Bene Comune e Ass. Monastero del Bene Comune (Verona-Sezano)
Riccardo PETRELLA, Università del Bene Comune
Antonietta POTENTE, suora domenicana, Bolivia
Bruno AMOROSO, economista
Antonello MANGANO, fondatore di terrelibere.org
Robin COUTURE, presidente di "Per un Quebec senza Povertà"
Con: Casa della Solidarietà-Rete Radié Resch di Quarrata (Pistoia), Libera, Università del Bene Comune e Ass. Monastero del Bene Comune (Verona-Sezano)
in occasione della
19a Marcia per la
Giustizia Agliana -
Quarrata (Sabato 8
settembre 2012) lanciano
l'iniziativa nazionale
"Dichiariamo illegale la Povertà"
"Dichiariamo illegale la Povertà"
Poveri non si nasce, lo si
diventa. La povertà é un “prodotto “ della società. Piuttosto che di poveri
bisogna parlare di impoveriti. Negli anni ’50-’80 i paesi scandinavi
sono riusciti a creare delle società senza poveri, perché lo hanno voluto e
perché hanno creduto nell’uguaglianza tra tutti i cittadini rispetto al diritto
ad una vita umana dignitosa. Negli Stati Uniti, invece, il numero di impoveriti
non ha cessato di crescere (oggi supera i 50 milioni su 300) perché si tratta
di una società fondata sulla disparità “naturale” tra i cittadini anche rispetto
ai diritti umani e sociali formalmente riconosciuti.
"Dichiariamo illegale la povertà” significa batterci per mettere fuori legge le cause strutturali che generano ed alimentano i processi d’impoverimento di interi popoli, gruppi e categorie sociali.
Fra le cause strutturali ci sono:
· le disposizioni legislative, come leggi o misure amministrative (nel campo del lavoro, relative alla fiscalità ed alle tasse, riguardo l’accesso ai servizi pubblici di base....)
· istituzioni locali, nazionali, internazionali, come gli istituti bancari specializzati nelle operazioni finanziarie speculative....
· le pratiche sociali collettive, come quella di pensare che “i poveri” rischiano di essere potenziali criminali più degli altri
Concretamente significa che in 5-6 paesi pilota del mondo cercheremo nei prossimi cinque anni di mettere fuori legge una o due leggi, una o due istituzioni, una o due pratiche sociali collettive che sono all’orgine dell’impoverimento, perché produttrici di processi di arricchimento ingiusto, ineguale e predatorio.
L’Italia é il primo paese dove prenderà avvio l'iniziativa nel 2013.
"Dichiariamo illegale la povertà” significa batterci per mettere fuori legge le cause strutturali che generano ed alimentano i processi d’impoverimento di interi popoli, gruppi e categorie sociali.
Fra le cause strutturali ci sono:
· le disposizioni legislative, come leggi o misure amministrative (nel campo del lavoro, relative alla fiscalità ed alle tasse, riguardo l’accesso ai servizi pubblici di base....)
· istituzioni locali, nazionali, internazionali, come gli istituti bancari specializzati nelle operazioni finanziarie speculative....
· le pratiche sociali collettive, come quella di pensare che “i poveri” rischiano di essere potenziali criminali più degli altri
Concretamente significa che in 5-6 paesi pilota del mondo cercheremo nei prossimi cinque anni di mettere fuori legge una o due leggi, una o due istituzioni, una o due pratiche sociali collettive che sono all’orgine dell’impoverimento, perché produttrici di processi di arricchimento ingiusto, ineguale e predatorio.
L’Italia é il primo paese dove prenderà avvio l'iniziativa nel 2013.
Il lancio avrà luogo l’8 settembre 2012 in
occasione della 20^
Marcia per la giustizia Agliana-Quarrata promossa annualmente dalla Rete Radié
Resh, Libera ai quali quest'anno aderiscono anche Università del Bene Comune
(Milano - Bruxelles) e Ass. Monastero del Bene Comune
(Verona-Sezano).
L’obiettivo di “dichiariamo
illegale la povertà” é di ottenere nel
2018
a 70 anni dalla “Dichiarazione Universale di
Diritti dell’Uomo”, l’adozione di una risoluzione dell'Assemblea
Generale delle Nazioni Unite che affermi la legittimità della messa fuori
legge dei fattori che sono all’origine di una ricchezza ineguale, ingiusta e
predatoria e quindi dei processi di impoverimento e di creazione dei poveri.
Le sole battaglie che si perdono
sono quelle che non si combattono! Non si puo’ accettare che oggi
ci siano 3 miliardi di impoveriti ed accontentarci di “avere la fortuna”, come
si dice, di..... non essere fra loro.
Per i promotori
dell'iniziativa "dichiariamo illegale la povertà" vedi il sito: www.monasterodelbenecomune.org
lunedì 3 settembre 2012
Carlo Maria Martini, in memoria
L'uomo del dialogo
Difficile, se non impossibile in poche
righe, dar conto della lunga, grande e significativa attività come uomo
di studio e di cultura (apparteneva all’Ordine dei Gesuiti), uomo di
fede e pastore, uomo di dialogo ed ascolto rispettoso, come il cardinale
Martini. Mi limiterò, perciò, a tratteggiare per sommi capi quella che,
a mio parere, può considerarsi il grande lascito e la formidabile
lezione del cardinale: solidità e inquietudine della fede cristiana,
caratteristiche che, se apparentemente autoescludentisi, in realtà si
tengono insieme in un misterioso abbraccio.
Al di là delle strumentalizzazioni di
cui è stato oggetto, il cardinale Martini era un uomo di fede ed era ben
saldo in essa. Era un uomo innamorato di Cristo, della Parola “che si è
fatta carne” (Gv 1, 14). Il suo amore viscerale per Gerusalemme e per
quella terra dimostra la il suo desiderio di andare alla fonte edalla
sorgente della fede cristiana, oltre le accomodanti apparenze
contemporanee che possono svilirne la radicalità e l’originalità del
messaggio. Lo studio delle Scritture e la sua esperienza di provato
esegeta, trasmettono il ritratto non di uno sterile e asettico studioso
ma, al contrario, di chi ha gli strumenti atti ad interpellare l’origine
e nello stesso tempo l’umiltà e la maturità di lasciarsi da essa
interrogare, per poi poter ulteriormente attingere ad essa, instaurando
così una sorta di circolo ermeneutico virtuoso tra antichità “sempre
nuova” ed attualità, tra fondamento e sviluppo, tra tempio e mondo.
A ben rifletterci, infatti, la vita del
cardinale Martini si è svolta sulla direttrice spazio – temporale, per
dirla in termini kantiani, Gerusalemme – Milano,
nello sforzo e nel tentativo di mettere continuamente in dialogo la
città delle fede cristiana e delle altre fedi con la metropoli
industriale del secolo, il capoluogo religioso con quello consumistico,
la capitale interreligiosa con quella multiculturale. E’ l’immagine di
una fede, quella del cardinale Martini, che non rinnega le proprie
origini ed il proprio depositum ma, al contrario, invece che
rinchiuderlo in una teca inavvicinabile ed intransigente, lo
approfondisce esegeticamente e lo presenta all’uomo contemporaneo per
comunicargli la Vita e da questi lasciarsi interrogare. E’ l’immagine di
una fede che parla (forse anche nel deserto), che affronta le sfide, i
problemi e le angosce dell’uomo del secondo millennio (Le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi….sono pure le
gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo- Concilio Vaticano II, GAUDIUM et SPES, 1)
e che, se così non fosse, resterebbe priva di senso e si ridurrebbe a
un semplice cimelio culturale e simbolico dell’epoca che fu. E’ la fede
che interpella e si lascia interpellare da chiunque, dall’uomo credente
come da qualsiasi non credente, non per risolversi in un relativismo
etico-religioso ma, al contrario, in una crescita reciproca della
coscienza di sé.
Per questo motivo, famosa e sorprendente in tutti i sensi risultò l’istituzione quando era Arcivescovo di Milano della Cattedra dei non credenti che le sue stesse parole ci illustrano: Io
ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente,
che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano
continuamente domande pungenti ed inquietanti l’uno all’altro. Il non
credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa. E’
importante l’appropriazione di questo dialogo interiore, poiché permette
a ciascuno di crescere nella coscienza di sé….Mi sembra opportuno che i
credenti erigano simbolicamente dentro di loro una cattedra dove il non
credente possa avere parola ed essere ascoltato; ed è altrettanto
opportuno e utile che chi non crede possa dare voce ed ascolto al
credente (C.M. MARTINI, Le ragioni del credere, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano 2011, pagg. 917-918).
Vito Chiariello
(da Diritto di Critica)
(da Diritto di Critica)
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