venerdì 16 marzo 2012

Il processo dell'Isolotto di Firenze

Il processo dell’Isolotto
Saggio introduttivo di Enzo Mazzi
prefazione di Mario Capanna
Manifestolibri 2011

Quella della comunità fiorentina dell’Isolotto fu, alla fine degli anni Sessanta, una partecipata esperienza religiosa e laica, sociale, politica e culturale. E su di essa si abbattè una reazione tra le più immediate, virulente e indicative di quanto la presa di parola dal basso avesse allarmato i poteri costituiti. Nel processo del 1971 furono coinvolte quasi mille persone. Nel saggio introduttivo di Enzo Mazzi, attraverso l’esercizio della memoria, che accosta fatti e valutazioni, si mostra come il processo contro la comunità dell’Isolotto sia stato un passaggio esemplare verso una drammatica stagione di depistaggi, trame eversive e repressione sulla quale ancora oggi non è stata fatta chiarezza. Oltre alla ricostruzione dei fatti, il volume è completato dall’arringa di Lelio Basso durante il dibattimento, che costituisce un documento inedito di straordinario valore storico e giuridico, nonché dalle testimonianze che importanti personaggi quali Pietro Ingrao, Ernesto Balducci, Hans KÜng, Franco Cordero, Lucio Lombardo Radice e altri resero al tempo dei fatti.

Comunicato della Comunità Anni "70"  il processo alla comunità dell'Isolotto: un intero quartiere a giudizio per non aver chinato il capo e non aver accettato passivamente l'annientamento di una esperienza e di una identità. La memoria di ieri per leggere i fatti dell'oggi.
Abbiamo riedito quella esperienza in una nuova pubblicazione che verrà presentata giovedì 22 marzo alle ore 17 alla "biblioteca delle Oblate" in via dell'Oriuolo 26 a Firenze


Estratti dal libro:


(Da "Il processo dell'Isolotto", Premessa della Comunità dell'Isolotto, pp.13-18) Manifestolibri ed. 2011,  passim).
1 - voi non andate a giudicare solo noi nove, voi non andate a giudicare neppure il popolo dell’Isolotto. Giudicate una tendenza, una forza viva che oggi c’è nella società, nella storia. Hanno detto gli avvocati che la vostra sarà una sentenza storica. Noi crediamo che questo sia vero proprio perché l’Isolotto è una parte, una piccola parte di un movimento molto più ampio”. 
2 - Questa dichiarazione concluse il dibattimento del processo contro l’Isolotto prima della sentenza del Tribunale, il 5 luglio 1971. Fu letta da una delle nove persone sotto giudizio: quattro laici della Comunità Isolotto e cinque preti di cui due fiorentini e tre di altre città italiane. Rappresentava i sentimenti, le emozioni, le preoccupazioni di tutti, non solo di coloro che erano giudicati in quel processo ma anche dei quasi cinquecento che erano stati inizialmente rinviati a giudizio e poi amnistiati e soprattutto era espressione dell’intera comunità. 
3 - La nostra rivisitazione non è pura riesumazione di un passato sepolto ma è“memoria storica” che ha senso per l’oggi. Perché la memoria è creativa, generativa di presente e di futuro.  
4 - La dichiarazione fu fatta anche a nome di un’intera società civile che vedeva nel processo dell’Isolotto un momento particolare ma forte ed emblematico di quell’imponente processo storico di trasformazione globale della società che era stato ed era ancora il ’68. 
5 - Tant’è vero che quando si tirano le somme della repressione giudiziaria del movimento complessivo del ‘68-‘69, si trovano accomunati in decine di migliaia di denunce e processi studenti, operai, preti e laici, insegnanti, psichiatri, medici, ecc. 
6 - Riteniamo di trovarci sulla stessa lunghezza d’onda dello storico statunitense Howard  Zinn: “Se la storia ha da essere creativa in modo da anticipare un possibile futuro senza negare il passato, essa dovrebbe mettere in evidenza nuove possibilità mettendo in luce quegli episodi del passato che sono stati tenuti nascosti, quando, anche se in brevi sprazzi, la gente dimostrò la sua capacità di resistere, di mettersi insieme, e qualche volta di saper vincere. 
7 - Siamo preoccupati, indignati per quello che sta succedendo nella vita politica e nella stessa vita ecclesiale. Soprattutto siamo disorientati. Come abbiamo potuto ridurci in questo stato? Come se ne esce? Forse abbiamo cercato soluzioni girando intorno all'asse del potere, lottando o facendo il tifo per chi lottava con gli stessi metodi e con gli stessi schemi culturali dei centri di potere, convinti che una volta raggiunto il mitico potere lo avremmo usato diversamente. Non vogliamo dire che bisogna abbandonare la lotta politica. Ma che occorre rovesciare lo schema di pensiero. Partire dal basso, dalla vita, dalle relazioni essenziali, dalla solidarietà strutturale e fondamentale, dalle piccole cose, invece che dall'alto. 
8 - Luis Macas, intellettuale quichua ecuadoriano, afferma:
“La politica organizza l’esistente: non crea realtà nuove. L’unica cosa che può cambiare in profondità l’esistente consiste nel creare e nel porre nella realtà data realtà nuove, che mettono in discussione l’esistente e con la loro presenza lo portano a ristrutturarsi. La principale e decisiva attività trasformatrice è l’attività creativa, quella capace di introdurre effettive novità storiche”.
 Qualche altro ha scritto: “Non si possono risolvere i problemi con gli stessi schemi di pensiero con cui sono stati creati”.  
9 - Barach Obama al Parlamento del Ghana: “Il mondo sarà come voi lo costruite. Voi avete la forza per chiamare il vostri leader a render conto del proprio operato, per costruire istituzioni che siano a servizio del popolo. Potete sconfiggere le malattie, mettere fine ai conflitti e creare il cambiamento partendo dal basso. Potete farlo. Sì, voi potete. Perché ora la storia sta cambiando”.    
(Da “la frontiera della memoria” di Enzo Mazzi, pp.19-62 del libro, passim)
La “Chiesa dei poveri”, la Chiesa delle comunità di base e della teologia della liberazione, la Chiesa di ispirazione conciliare, la Chiesa del dialogo deve essere repressa, in America Latina, come nelle Filippine, come nel Nord del mondo.  Va fermata anch’essa“con ogni mezzo”: finché è possibile con gli strumenti del Diritto Canonico, ma se non basta ci vuole il braccio secolare.  Viene perciò finanziata, sostenuta e potenziata la parte di Chiesa conservatrice, assistenzialista, autoritaria, spiritualista, anticomunista, per aiutarla a emarginare e reprimere al suo interno le esperienze conciliari. Ma ove, come nel Terzo Mondo, non sia sufficiente la repressione intraecclesiale, la strategia repressiva dovrà usare mezzi violenti come i massacri di preti, vescovi, leader laici di comunità di base.
La personalità, il messaggio e l’uccisione di mons. Romero sono ormai note in tutto il mondo. C’è perfino una causa di beatificazione che giace in Vaticano in attesa di tempi opportuni. Tempi che arriveranno, perché  il potere ecclesiastico ha fame di santi. La mitizzazione/santificazione di soggetti umani che emergono per il loro eroismo crea nella massa sensi di frustrazione morale di fronte a modelli di santità irraggiungibile, genera in tutti noi sensi di colpa, produce personalità insicure, dipendenti e quindi inclini alla eterodirezione e alla ubbidienza. Ecco il motivo profondo della santificazione ufficiale: favorire il dominio. Noi, le formiche, i comuni mortali, la povera gente del popolo, ci sentiamo insignificanti, bisognosi della protezione del potere, come bambini indotti dalla loro insicurezza a gettarsi nelle braccia della mamma. San Romero d’America servirà a far dimenticare che egli quando era in vita è stato ostacolato, combattuto e ucciso da quegli stessi poteri che poi hanno favorito la sua santificazione. È vero che mons. Romero è stato fatto santo dal popolo di El Salvador e di tutta l’America latina già subito dopo l’uccisione. Anche il popolo ha bisogno di santi. È un bisogno che ha molte motivazioni e che però presenta anche rilevanti contraddizioni. Un potente, uno della casta sacrale, un vescovo che si fa popolo può diventare simbolo della capacità della lotta di liberazione di essere efficace e di penetrare fin dentro i palazzi per sgretolare il sistema del dominio oppressivo. Romero santo può significare il riscatto della santità del popolo. Ma il potere non sta a guardare. E con i suoi riti potenti, che penetrano fin dentro l’intimo delle coscienze, sradica il simbolo del riscatto dalla lotta del popolo, lo eleva sugli altari, ne fa oggetto di culto anziché di ispirazione, lo rende strumento di alienazione. Meno noti e meno recuperabili per la santificazione sono le centinaia di preti e teologi della liberazione che furono uccisi in America Latina come Romero perché erano a fianco del popolo e ne favorivano la coscientizzazione. La teologia della liberazione che essi elaboravano e diffondevano costituisce la versione centroamericana di una teologia incarnata nella storia della liberazione dei poveri, degli sfruttati, degli oppressi. La parola “teologia” può portare fuori strada perché può indurre a pensare a una teorizzazione accademica e dottrinale. In realtà si tratta di una riflessione che parte dalla vita, dalla lotta, dalle esperienze pratiche e a queste sempre riconduce. Si tratta di una teologia che di fondo, non certo direttamente né in tutti i suoi aspetti, ha ispirato papa Giovanni XXIII, ha dato anima al Concilio Vaticano II e poi si è diffusa in tutto il mondo prendendo vari indirizzi e nomi nei diversi contesti culturali.
Ritengo che forse questo tempo della notte fonda, della nebbia fitta, è il tempo che richiede lo sguardo attento ai segni minimi dell’avvento di una nuova stagione. Forse è il tempo di una solidarietà rinnovata negli obiettivi e nei metodi che privilegi le relazioni più che le realizzazioni, che faccia crescere la consapevolezza complessiva più che indicare un preciso nemico, che crei identità collettive di gente consapevole della propria dignità più che addormentare con promesse salvifiche dall’alto, che tenti esperienze nuove di relazione, comunità oltre i confini, mentre si oppone alle relazioni e alle comunitarietà chiuse, fondate sul dominio del danaro e sulle sue istituzioni.
Ha espresso con la sensibilità consueta queste stesse cose Pietro Ingrao in una Tavola rotonda sulla Violenza del sacro, svoltasi a Firenze in un gremitissimo salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, nell’ambito del Convegno del 1987 delle comunità di base sulla Laicità. Alla fine dell’intervento volle regalarci una sua poesia di tre versi:
 “Mordi musica, anima, vita,/
 domanda, parla, grida il desiderio deriso, le fragili comunioni,/
leva in alto la sconfitta”.
E poi spiegò: Levare in alto la sconfitta vuol dire che quello che appare impossibile matura però nel grembo delle cose. E le fragili comunioni, pur essendo fragili e non ancora vittoriose, recano in sé, sia pure esposto, debole, ma in una misura che preme, il germe di un altro rapporto fra esseri umani, un rapporto dove ceda il dominio ed entri in campo la comunicazione, dove ciascuno di noi non sia più possessore, proprietario, vincitore, non più chiuso nella gabbia del dominio incomunicante, ridotto solo ad essere parte,soltanto parte. Levare in alto la sconfitta vuol dire sperare di entrare in una connessione che valorizzi ma anche oltrepassi l’enorme straordinarietà del singolo, ne superi i limiti e i confini, ne scavalchi anche la frantumazione e l’accaduto irrimediabile e la lacerante solitudine nella folla e finalmente apra una strada per una vita che abbia come primo senso il comunicare…”.

Info
Comunità dell’Isolotto – via degli aceri, 1 – 50142 Firenze  tel. 055 711362      .
E-mail comis@videosoft.it, bibliotecadelleoblate@comune.fi.it

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