Il processo dell’Isolotto
Saggio introduttivo di Enzo Mazzi
prefazione di Mario Capanna
Manifestolibri 2011
Quella della comunità fiorentina dell’Isolotto fu, alla fine degli anni Sessanta, una partecipata esperienza religiosa e laica, sociale, politica e culturale. E su di essa si abbattè una reazione tra le più immediate, virulente e indicative di quanto la presa di parola dal basso avesse allarmato i poteri costituiti. Nel processo del 1971 furono coinvolte quasi mille persone. Nel saggio introduttivo di Enzo Mazzi, attraverso l’esercizio della memoria, che accosta fatti e valutazioni, si mostra come il processo contro la comunità dell’Isolotto sia stato un passaggio esemplare verso una drammatica stagione di depistaggi, trame eversive e repressione sulla quale ancora oggi non è stata fatta chiarezza. Oltre alla ricostruzione dei fatti, il volume è completato dall’arringa di Lelio Basso durante il dibattimento, che costituisce un documento inedito di straordinario valore storico e giuridico, nonché dalle testimonianze che importanti personaggi quali Pietro Ingrao, Ernesto Balducci, Hans KÜng, Franco Cordero, Lucio Lombardo Radice e altri resero al tempo dei fatti.
Comunicato della Comunità
Anni "70" il processo alla comunità dell'Isolotto: un intero quartiere a
giudizio per non aver chinato il capo e non aver accettato passivamente
l'annientamento di una esperienza e di una identità. La memoria di ieri
per leggere i fatti dell'oggi.
Abbiamo riedito quella esperienza in una nuova pubblicazione che verrà
presentata giovedì 22 marzo alle ore 17 alla "biblioteca delle Oblate"
in via dell'Oriuolo 26 a Firenze
Estratti dal libro:
(Da "Il processo dell'Isolotto", Premessa della
Comunità dell'Isolotto, pp.13-18) Manifestolibri ed. 2011, passim).
1 - voi non andate a giudicare solo noi nove, voi non andate
a giudicare neppure il popolo dell’Isolotto. Giudicate una tendenza, una forza
viva che oggi c’è nella società, nella storia. Hanno detto gli avvocati che la
vostra sarà una sentenza storica. Noi crediamo che questo sia vero proprio
perché l’Isolotto è una parte, una piccola parte di un movimento molto più
ampio”.
2 - Questa dichiarazione concluse il dibattimento del
processo contro l’Isolotto prima della sentenza del Tribunale, il 5 luglio
1971. Fu letta da una delle nove persone sotto giudizio: quattro laici della
Comunità Isolotto e cinque preti di cui due fiorentini e tre di altre città
italiane. Rappresentava i sentimenti, le emozioni, le preoccupazioni di tutti,
non solo di coloro che erano giudicati in quel processo ma anche dei quasi
cinquecento che erano stati inizialmente rinviati a giudizio e poi amnistiati e
soprattutto era espressione dell’intera comunità.
3 - La nostra rivisitazione non è pura riesumazione di un
passato sepolto ma è“memoria storica” che ha senso per l’oggi. Perché la
memoria è creativa, generativa di presente e di futuro.
4 - La dichiarazione fu fatta anche a nome di un’intera
società civile che vedeva nel processo dell’Isolotto un momento particolare ma
forte ed emblematico di quell’imponente processo storico di trasformazione
globale della società che era stato ed era ancora il ’68.
5 - Tant’è vero che quando si tirano le somme della
repressione giudiziaria del movimento complessivo del ‘68-‘69, si trovano
accomunati in decine di migliaia di denunce e processi studenti, operai, preti
e laici, insegnanti, psichiatri, medici, ecc.
6 - Riteniamo di trovarci sulla stessa lunghezza d’onda dello
storico statunitense Howard Zinn: “Se la
storia ha da essere creativa in modo da anticipare un possibile futuro senza
negare il passato, essa dovrebbe mettere in evidenza nuove possibilità mettendo
in luce quegli episodi del passato che sono stati tenuti nascosti, quando,
anche se in brevi sprazzi, la gente dimostrò la sua capacità di resistere, di
mettersi insieme, e qualche volta di saper vincere.
7 - Siamo preoccupati, indignati per quello che sta
succedendo nella vita politica e nella stessa vita ecclesiale. Soprattutto
siamo disorientati. Come abbiamo potuto ridurci in questo stato? Come se ne
esce? Forse abbiamo cercato soluzioni girando intorno all'asse del potere,
lottando o facendo il tifo per chi lottava con gli stessi metodi e con gli
stessi schemi culturali dei centri di potere, convinti che una volta raggiunto
il mitico potere lo avremmo usato diversamente. Non vogliamo dire che bisogna
abbandonare la lotta politica. Ma che occorre rovesciare lo schema di pensiero.
Partire dal basso, dalla vita, dalle relazioni essenziali, dalla solidarietà
strutturale e fondamentale, dalle piccole cose, invece che dall'alto.
8 - Luis Macas, intellettuale quichua ecuadoriano, afferma:
“La politica organizza l’esistente: non crea realtà nuove.
L’unica cosa che può cambiare in profondità l’esistente consiste nel creare e
nel porre nella realtà data realtà nuove, che mettono in discussione
l’esistente e con la loro presenza lo portano a ristrutturarsi. La principale e
decisiva attività trasformatrice è l’attività creativa, quella capace di
introdurre effettive novità storiche”.
Qualche altro ha
scritto: “Non si possono risolvere i problemi con gli stessi schemi di pensiero
con cui sono stati creati”.
9 - Barach Obama al Parlamento del Ghana: “Il mondo sarà come
voi lo costruite. Voi avete la forza per chiamare il vostri leader a render
conto del proprio operato, per costruire istituzioni che siano a servizio del
popolo. Potete sconfiggere le malattie, mettere fine ai conflitti e creare il
cambiamento partendo dal basso. Potete farlo. Sì, voi potete. Perché ora la
storia sta cambiando”.
(Da “la frontiera della memoria” di Enzo Mazzi, pp.19-62 del
libro, passim)
La “Chiesa dei poveri”, la Chiesa delle comunità di base e
della teologia della liberazione, la Chiesa di ispirazione conciliare, la Chiesa
del dialogo deve essere repressa, in America Latina, come nelle Filippine, come
nel Nord del mondo. Va fermata anch’essa“con ogni mezzo”: finché è possibile con gli
strumenti del Diritto Canonico, ma se non basta ci vuole il braccio secolare. Viene perciò finanziata, sostenuta e
potenziata la parte di Chiesa conservatrice, assistenzialista, autoritaria,
spiritualista, anticomunista, per aiutarla a emarginare e reprimere al suo
interno le esperienze conciliari. Ma ove, come nel Terzo Mondo, non sia
sufficiente la repressione intraecclesiale, la strategia repressiva dovrà usare
mezzi violenti come i massacri di preti, vescovi, leader laici di comunità di
base.
La personalità, il messaggio e l’uccisione di mons. Romero
sono ormai note in tutto il mondo. C’è perfino una causa di beatificazione che
giace in Vaticano in attesa di tempi opportuni. Tempi che arriveranno, perché il
potere ecclesiastico ha fame di santi. La mitizzazione/santificazione di
soggetti umani che emergono per il loro eroismo crea nella massa sensi di
frustrazione morale di fronte a modelli di santità irraggiungibile, genera in
tutti noi sensi di colpa, produce personalità insicure, dipendenti e quindi
inclini alla eterodirezione e alla ubbidienza. Ecco il motivo profondo della
santificazione ufficiale: favorire il dominio. Noi, le formiche, i comuni
mortali, la povera gente del popolo, ci sentiamo insignificanti, bisognosi
della protezione del potere, come bambini indotti dalla loro insicurezza a
gettarsi nelle braccia della mamma. San Romero d’America servirà a far
dimenticare che egli quando era in vita è stato ostacolato, combattuto e ucciso
da quegli stessi poteri che poi hanno favorito la sua santificazione. È vero
che mons. Romero è stato fatto santo dal popolo di El Salvador e di tutta
l’America latina già subito dopo l’uccisione. Anche il popolo ha bisogno di
santi. È un bisogno che ha molte motivazioni e che però presenta anche
rilevanti contraddizioni. Un potente, uno della casta sacrale, un vescovo che
si fa popolo può diventare simbolo della capacità della lotta di liberazione di
essere efficace e di penetrare fin dentro i palazzi per sgretolare il sistema
del dominio oppressivo. Romero santo può significare il riscatto della santità
del popolo. Ma il potere non sta a guardare. E con i suoi riti potenti, che
penetrano fin dentro l’intimo delle coscienze, sradica il simbolo del riscatto
dalla lotta del popolo, lo eleva sugli altari, ne fa oggetto di culto anziché
di ispirazione, lo rende strumento di alienazione. Meno noti e meno
recuperabili per la santificazione sono le centinaia di preti e teologi della
liberazione che furono uccisi in America Latina come Romero perché erano a
fianco del popolo e ne favorivano la coscientizzazione. La teologia della
liberazione che essi elaboravano e diffondevano costituisce la versione
centroamericana di una teologia incarnata nella storia della liberazione dei
poveri, degli sfruttati, degli oppressi. La parola “teologia” può portare fuori
strada perché può indurre a pensare a una teorizzazione accademica e
dottrinale. In realtà si tratta di una riflessione che parte dalla vita, dalla
lotta, dalle esperienze pratiche e a queste sempre riconduce. Si tratta di una
teologia che di fondo, non certo direttamente né in tutti i suoi aspetti, ha
ispirato papa Giovanni XXIII, ha dato anima al Concilio Vaticano II e poi si è
diffusa in tutto il mondo prendendo vari indirizzi e nomi nei diversi contesti
culturali.
Ritengo che forse questo tempo della notte fonda, della
nebbia fitta, è il tempo che richiede lo sguardo attento ai segni minimi dell’avvento
di una nuova stagione. Forse è il tempo di una solidarietà rinnovata negli
obiettivi e nei metodi che privilegi le relazioni più che le realizzazioni, che
faccia crescere la consapevolezza complessiva più che indicare un preciso
nemico, che crei identità collettive di gente consapevole della propria dignità
più che addormentare con promesse salvifiche dall’alto, che tenti esperienze
nuove di relazione, comunità oltre i confini, mentre si oppone alle relazioni e
alle comunitarietà chiuse, fondate sul dominio del danaro e sulle sue
istituzioni.
Ha espresso con la sensibilità consueta queste stesse cose
Pietro Ingrao in una Tavola rotonda sulla Violenza del sacro, svoltasi a Firenze
in un gremitissimo salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, nell’ambito del
Convegno del 1987 delle comunità di base sulla Laicità. Alla fine
dell’intervento volle regalarci una sua poesia di tre versi:
“Mordi musica, anima, vita,/
domanda, parla, grida il desiderio deriso, le
fragili comunioni,/
leva in alto la sconfitta”.
E poi spiegò: Levare in
alto la sconfitta vuol dire che quello che appare impossibile matura però nel
grembo delle cose. E le fragili comunioni, pur essendo fragili e non ancora
vittoriose, recano in sé, sia pure esposto, debole, ma in una misura che preme,
il germe di un altro rapporto fra esseri umani, un rapporto dove ceda il dominio
ed entri in campo la comunicazione, dove ciascuno di noi non sia più
possessore, proprietario, vincitore, non più chiuso nella gabbia del dominio
incomunicante, ridotto solo ad essere parte,soltanto parte. Levare in alto la
sconfitta vuol dire sperare di entrare in una connessione che valorizzi ma
anche oltrepassi l’enorme straordinarietà del singolo, ne superi i limiti e i
confini, ne scavalchi anche la frantumazione e l’accaduto irrimediabile e la
lacerante solitudine nella folla e finalmente apra una strada per una vita che abbia
come primo senso il comunicare…”.
Info
Comunità
dell’Isolotto – via degli aceri, 1 – 50142 Firenze tel. 055 711362 .
E-mail comis@videosoft.it, bibliotecadelleoblate@comune.fi.it