martedì 8 dicembre 2020

Patrick Zaki

Patrick Zaki è un cittadino egiziano.

L’Egitto è un paese sovrano.

Perché dovrei chiedere al mio governo

di intervenire per liberarlo?

E poi perché il mio paese dovrebbe fare qualcosa per lui se non sta facendo nulla per ottenere verità e giustizia per il cittadino italiano Regeni? Il buonismo è stucchevole, bisogna essere realisti. L’Egitto è un partner importante, se non facciamo affari con le dittature, ci penseranno altri stati senza scrupoli a farle. Avete sentito cosa ha detto Macron poche ore fa? Nemmeno lui vuole interrompere “i rapporti di dialogo con l'Egitto" ha spiegato, perché “vorrebbe dire influenzare negativamente il paese nella sua lotta al terrorismo”. Le armi all’Egitto servono anche per questo. Per difendere gli egiziani dai terroristi! E visto che noi italiani produciamo armi è bene che siamo noi a vendergliele. Vendere armi e prendere da loro le risorse del sottosuolo è indispensabile per l’Italia. Lo dice pure un intellettuale importante, Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, che “esiste un’importante ragion di Stato (l’Eni…) che invita ad evitare una rottura con l’Egitto”. L’ha scritto poche settimane fa che “E’ assai doloroso dirlo, ma che valgono dunque, se le cose stanno così, le invocazioni «#veritapergiulioregeni» e altre analoghe”?

E infatti dice che bisogna smetterla con questi appelli inutili e ha fatto la “proposta di intitolare al suo nome una via o una piazza in tutti i comuni della Penisola”.

E poi chi mi garantisce che Zaki non sia davvero un terrorista? Se fosse solo un innocuo studente che si batte per degli ipotetici diritti, perché tutti gli altri studenti egiziani che studiano all’estero non vengono arrestati quando tornano in patria per le vacanze? Magari non è un terrorista, ma è possibile che sia una testa calda, un provocatore. Uno che ha passato il segno. Si tratta di uno studente, una persona che ha studiato, dovrebbe saperlo che nel suo paese certi comportamenti sono un reato. E poi ho sentito dire che è un omosessuale. Io non sono gay, ma non ho niente contro i gay. Ho tanti amici gay. Non mi piace quando ostentano la loro diversità, quando fanno le parate con le piume in testa, ma nel loro privato sono liberi di fare quello che vogliono. Sono contrario al matrimonio tra gay, ma per il resto devono avere gli stessi diritti delle persone normali. In Italia è così, ma in certi paesi è un reato. Anche tanta gente di “sinistra” che lo difende dovrebbe saperlo. E dovrebbe ricordarsi che anche in Unione Sovietica era un reato.

Perché nessuno dice niente per i nostri pescatori sequestrati in Libia?

Perché non si stracciavano le vesti per i nostri marò?

Caro lettore, se sei arrivato fin qui e sei d’accordo con quanto hai letto sappi che sei un razzista. Che tra te e i carnefici che sequestrano, torturano, uccidono, che ci guadagnano denaro e potere

l’unica differenza

è che tu

non ci guadagni niente

a essere una carogna.

(Ascanio Celestini)


#FreePatrickZaki

giovedì 3 dicembre 2020

[IRAN] Nasrin Sotoudeh torna in carcere


Come anticipato ieri da diverse Ong, l'avvocatessa iraniana per i diritti umani Nasrin Sotoudeh è tornata in prigione meno di un mese dopo il suo rilascio temporaneo. Deve scontare una pena di 12 anni di carcere. A confermarlo è stato suo marito Reza Khandan: "Nasrin è tornata in prigione", ha detto.

Sotoudeh, 57 anni e vincitrice del premio Sakharov del Parlamento europeo, era stato rilasciata il 7 novembre dopo aver ottenuto un congedo temporaneo ed essere risultata positiva al Covid-19.

L'avvocatessa e attivista è in carcere dal 2018 per aver difeso una donna arrestata per le proteste contro l'obbligo per le donne iraniane di indossare l’hijab. 

All'epoca era stata condannata a cinque anni di carcere in contumacia per spionaggio, ma nel 2019 è stata le sono stati inflitti 12 anni di carcere "per aver incoraggiato la corruzione e la dissolutezza”.

Secondo suo marito, la salute di Sotoudeh si è gravemente compromessa durante la detenzione e a settembre l’attivista ha terminato uno sciopero della fame di 45 giorni che aveva cominciato per chiedere il rilascio dei prigionieri a causa della diffusione  della pandemia di coronavirus nelle carceri.  

Le "autorità giudiziarie hanno insistito perché tornasse oggi" in prigione, ha detto suo marito. L'avvocatessa è risultata positiva al Covid-19 pochi giorni dopo il suo rilascio temporaneo, ha detto Khandan.

Il mese scorso, l'Iran ha registrato quasi 49 mila decessi per coronavirus e oltre 989 mila casi. La Repubblica islamica è il paese più colpito del Medio Oriente.  Da marzo a più di 100 mila detenuti è stata concessa una liberazione temporanea per limitare la diffusione della malattia nelle carceri, molti però sono poi tornati in prigione. 

domenica 29 novembre 2020

Le parole dello stigma che si dovrebbero evitare

 

Giocare ai neurologi o agli psichiatri non è passato di moda sui media e mentre qualche settimana fa, come dadi, si lanciavano diagnosi casuali ai giovani che stando in casa o fuori sbagliano comunque, questi ultimi giorni hanno visto un ulteriore livello: sul tavolo sono balzate le persone negazioniste.
Al diffondersi delle teorie cospirazioniste e del negazionismo della COVID-19, che hanno conseguenze sulla salute pubblica per il rifiuto di adottare le misure di sicurezza, hanno dato un rilevante contribuito un’informazione contraddittoria e selettiva, diversi esperti ottimisti e tanta propaganda politica antiscientifica.

“Dementi”, “pazzi”, “psicotici” sono solo alcune delle pseudo-diagnosi affibbiate come insulti a chi nega le conseguenze del contagio da virus SARS-CoV-2 sulla salute delle persone e sul sistema sanitario per la necessità di trovare un appiglio nelle incertezze, per appartenenza a un gruppo o per interessi finanziari e politici.
Si tratta di etichette, assieme ad altre come “cerebroleso”, “ritardato”, “lobotomizzato”, “schizofrenico”, “autistico”, “bipolare”, “narcisista”, “psicopatico”, “sociopatico” e così via, che vengono elargite quotidianamente online e offline a chi abbia idee o comportamenti considerati non conformi o anormali.

Si ricorre alla neurologia e alla psichiatria per sostanziare il proprio giudizio morale sull’altro che di volta in volta rappresenta una minaccia, fa paura, non conosciamo, ha idee diverse dalle nostre o semplicemente ci sta antipatico. E partecipano al gioco anche giornalisti/e e – con sprezzo del codice deontologico – molti professionisti della salute mentale.
Il risultato è una più o meno esplicita dichiarazione di superiorità che, oltre a rivelare un lessico modesto e avvitato su un ristretto insieme di aggettivi ricorrenti, ha conseguenze sociali dannose.

In primo luogo, questa modalità di apostrofare l’altro non ne intacca il ragionamento e non ne rivela le fallacie ma spinge a un arroccamento difensivo e all’affiliazione a gruppi che sfruttano, a qualsiasi costo, il senso di vulnerabilità nelle incertezze. Tre bisogni psicologici sottostanno al parteggiare tesi cospirazioniste, come scrive Aleksandra Cichocka, psicologa politica all’Università di Kent, Canterbury, nel Regno Unito: il bisogno di comprendere il mondo, il bisogno di sentirsi al sicuro e il bisogno di sentirsi bene con sé stessi e con il proprio gruppo. Come si può intervenire? Con la prevenzione, il “prebunking” come scrive Cichocka, che si realizza attraverso la trasparenza delle informazioni, la comunicazione di un senso di appartenenza, di identità sociale e di solidarietà e offrendo uno scopo, quello di ridurre con i nostri comportamenti condivisi la trasmissione del virus, il numero di ammalati, il numero di persone morte e di famiglie in lutto, il sovraccarico fisico e psicologico delle operatrici e degli operatori sanitari.

Queste strategie erano già note fin da marzo ma né le istituzioni né i media generalisti hanno enfatizzato – e continuano a sfrattare – le misure di prevenzione per la salute fisica, per la salute psicologica e per un’informazione responsabile che aiuti a gestire la vulnerabilità delle persone e dell’intera società.
Accade con la pandemia ma la semplificazione delle spiegazioni attraverso il ricorso al dizionario psicopatologico è un automatismo che caratterizza anche le modalità con cui sono riportate e commentate le notizie di cronaca. L’associazione spuria violento-malato di mente affolla le prime pagine successive a un crimine e punteggia gli interventi di certi esperti al di là di ogni minima evidenza fattuale.

“In questi casi” affermano Jonathan Metzl e Kenneth MacLeish in un articolo del 2015 che analizza storicamente il ruolo della malattia mentale nella spiegazione delle sparatorie di massa e nelle politiche restrittive sull’uso delle armi negli Stati Uniti, “agli operatori della salute mentale viene chiesto di fornire diagnosi cliniche a problemi sociali ed economici” mentre “la competenza psichiatrica potrebbe essere meglio utilizzata” spostando l’attenzione “sulle ansie, sulle formazioni sociali e economiche” che minano la fiducia tra le persone e tra gruppi in determinati periodi storici.
Non deve meravigliare se poi cedono alle tentazioni diagnostiche anche i lettori non esperti.

In secondo luogo, l’elargizione di etichette banalizza il complesso percorso di accertamenti clinici e strumentali che seguono le équipe di specialisti per giungere a un’interpretazione diagnostica codificata. Si diffonde così la credenza che le diagnosi neurologiche e psichiatriche siano facili, immediate, fatte ad occhio e non richiedano una complessa raccolta di informazioni direttamente dalle fonti e un accurato processo decisionale. Di conseguenza, la stessa vanità di alcuni esperti mina, e a lungo termine, la fiducia negli specialisti che lavorano in scienza e coscienza, a vantaggio dei ciarlatani che forniscono risposte immediate.
La costruzione e sedimentazione di una cultura scientifica diventa davvero un’azione impervia.

Infine, utilizzare una diagnosi come insulto, danneggia tutte le persone che sono realmente affette da quella condizione e di cui non sono responsabili. Oltre a essere offensivo e irrispettoso, questo automatismo può confondere le conoscenze sulla propria condizione e spaventare rispetto al proprio futuro e al proprio posto nella società.
Perpetuare lo stigma è un danno a lungo termine che va a peggiorare la condizione di milioni di persone nella realtà della vita quotidiana.

Lo stigma è l’esclusione sociale, basata sul pregiudizio e sulla discriminazione, delle persone che affrontano condizioni neurologiche, psichiatriche, dipendenze, disabilità. Si concretizza nelle difficoltà ad avere accesso a un’istruzione continua e individualizzata, a ottenere accettazione nel contesto familiare e sociale, a ricevere un’assistenza adeguata ai propri bisogni, a trovare e mantenere un lavoro, a stabilire relazioni significative, a partecipare alle attività di una comunità.
Contemplare le coloriture attraverso le quali la propria condizione viene associata a tutti i tipi di misfatti, devianze e crimini, inevitabilmente accentua il disagio, le preoccupazioni, la vergogna, la colpa convincendosi che tutto quanto è capitato sia meritato. Questo processo di solito si propaga al nucleo famigliare o alla ristretta rete di riferimento. Ne consegue una minore propensione a chiedere aiuto, a intraprendere percorsi e cure che potrebbero alleviare la propria condizione o il carico dell’assistenza, a partecipare alla vita sociale, a rendersi visibili.

La ricaduta nel lungo periodo in termini di costi sociali e sanitari sarà molto più gravosa – basti pensare alle demenze – di quella misurabile in una comunità che riconosce i bisogni individuali e di appartenenza, fornisce con trasparenza i dati di realtà, opera scelte razionali e non respinge la complessità delle condizioni neurologiche e psichiatriche (acute, croniche, degenerative) ma fornisce gli spazi e gli strumenti per una loro migliore comprensione e per un incremento di consapevolezza in tutti i suoi membri.

Se guardiamo a due studi del 2017 che hanno analizzato la copertura mediatica delle malattie mentali in Canada, ci rendiamo conto che la situazione può cambiare. Rob Whitley e JiaWei Wang hanno valutato prima i contenuti televisivi nel triennio 2013-2015, registrando un incremento dal 10% al 40% dei contenuti positivi con cui è stata descritta la malattia mentale e una maggiore diffusione di risorse dedicate, pur restando dominanti le associazioni con i crimini e le violenze.
Successivamente, i due autori hanno esaminato i contenuti stigmatizzanti pubblicati sui giornali, nelle edizioni a stampa e online, rilevandone la riduzione di un terzo tra il 2005 e il 2015. Per Whitley e Wang tali risultati sono la prova di efficacia delle diverse campagne intraprese per ridurre lo stigma e incrementare la consapevolezza sulle malattie mentali. In particolare, l’iniziativa governativa anti-stigma ‘Opening Minds’ della Commissione canadese sulla salute mentale (Mental Health Commission Canada, MHCC) è stata “deliberatamente orientata ai media negli ultimi anni, finanziando la stesura e la diffusione di linee guida, oltre al lavoro con le scuole di giornalismo e le organizzazioni dei media per sensibilizzare i giornalisti ai problemi di salute mentale”.

Come dimostra anche la revisione sistematica degli interventi anti-stigma attuati per i professionisti dei media, pubblicata nel 2017 da Alessandra Maiorano dell’Università di Verona a dalle sue collaboratrici, la copertura delle malattie mentali può essere migliorata. Dal momento che il ruolo dei media nel rafforzare gli stereotipi legati ai disturbi mentali è stato ampiamente dimostrato e si realizza nella rappresentazione negativa delle persone che li sperimentano, i professionisti dei media costituiscono un target ottimale per i programmi anti-stigma.
Per Maiorano e collaboratrici, gli interventi più promettenti sono sia gli approcci educativi che permettono a giornaliste e giornalisti di entrare in contatto con persone che affrontano i disturbi mentali, sia le linee guida sviluppate da istituzioni nazionali autorevoli. “Dovrebbe essere utile promuovere e diffondere interventi educativi mirati ai giornalisti e includere moduli specifici sui temi di salute mentale nei curricula formativi di studenti di giornalismo”. Una collaborazione tra le associazioni dedicate alle diverse condizioni neurologiche e psichiatriche e le associazioni professionali di giornalisti aiuterebbe a migliorare le modalità con cui le notizie e le storie pubblicate affrontano i problemi di salute mentale, “sfidando costantemente lo stigma strutturale mediato dai mass media”.

In attesa di interventi dedicati, alcune raccomandazioni generali e di semplice applicazione riguardano, in particolare in questo periodo di rischi e prolungate difficoltà: la scelta responsabile delle parole usate per descrivere fenomeni complessi; l’attenzione a riconoscere dignità e rispetto alle persone delle quali non si conosce la vulnerabilità; la copertura di esempi di comportamenti prosociali che, attraverso il rispetto delle regole di sicurezza (mascherina, distanziamento, igiene, aerazione) portano a un minore impatto della pandemia; lo spazio a iniziative di supporto alle persone più esposte all’interno delle comunità.

Tiziana METITIERI,
PER SOSTENERE Valigia Blu

sabato 14 novembre 2020

Ha senso parlare? Uno scritto di Mauro Portello

Non so bene cosa dire, non so che parole usare. Dice: E allora stai zitto! Ma no, nonostante tutto, ho voglia di parlare, di dire la mia, così in generale, su tutto, qualunque cosa va bene, purché io possa dire, parlare. Perché è di questo che adesso ho bisogno: di parlare, di esercitare il mio “diritto animale” di parlare, di esprimermi, esprimere il mio personale bisogno di estrinsecare, come posso, tutto quello che mi passa per la mente mentre sto davanti a questo immenso stordimento concettuale che via via, in questi giorni, si sta configurando nella sua massa enorme, smisurata. Tutti hanno bisogno di dire, di esprimere, di raccontare. Fiumi di parole, come diceva la nota canzoncina. Tutti sentono come l’urgenza di misurarsi con la loro propria verbalizzazione dell’evento che ci colpisce. Tutti devono provare a spiegare che cosa succede, che cosa succederà. Ognuno a modo suo, con gli strumenti più o meno sgangherati o sofisticati che possiede. Non è la ricchezza linguistica o intellettuale che decide per me: l’importante è che io lo faccia, che lo possa fare. Perché è un “naturale” modo di elaborare ed esorcizzare il terrore che ci invade: terrore di morire o di avere un futuro invisibile e troppo insopportabilmente minaccioso. È lo scudo delle parole che io alzo istintivamente per ripararmi, per separarmi dal disastro che, finché io parlo, vuole dire che non mi ha ancora colpito. Parlo perché vivo. Parlo finché vivo.
È l’istinto di sopravvivenza che il sapiens mette in azione nel momento in cui sente le condizioni della sua esistenza poste fisicamente in discussione. Un conflitto primordiale tra l’uomo cosciente e la biosfera. Uno scontro assoluto che solo nei momenti estremi si manifesta in tutta la sua muscolarità. La possibile negazione del proprio futuro mette in campo la potenza del verbale dell’homo sapiens. Non mi riferisco al potere della parola di orientare il mondo (questo lo ha spiegato benissimo David Grossman alla Buchmesse di Francoforte – vedi Le parole cambiano il mondo su Repubblica dello scorso 17 ottobre), ma alla pressione verbale quantitativa, di quando si ha come il bisogno di agire con una materiale sovrapproduzione di parole, di dire tanto, quasi che la massa delle parole potesse fare da diga alla catastrofe. È un sentire di guerra che – a dispetto dei precisini che ci fanno osservare che questa non è in senso stretto una guerra –, è più che sufficiente a scatenare la psiche. 
C’è il tasto kantiano da suonare, ne abbiamo bisogno per capire veramente. Poi c’è il tasto brechtiano, per realizzare bene che cosa succede. Ma soprattutto c’è il tasto pulsionale, quello che ci dice semplicemente, appunto, che siamo ancora vivi.
Lo stesso venir meno della solidità delle istituzioni, della loro materiale efficacia, ha in qualche modo incrementato la verbalizzazione del disagio. Fa impressione il profluvio di riflessioni, idee, opinioni che in questi giorni si sta riversando nel mondo della comunicazione, di cui la rete è, naturalmente, il formidabile moltiplicatore. Una massa che si aggiunge ai pensieri, alle riflessioni e ai discorsi che le persone stanno producendo in relazione alla situazione di allarme globale che stiamo vivendo. Tutto converge su questo. Il comune sentire è all’unisono, unipatico, e fa stare tutti allo stesso modo. Il vagare dei significati, il tremolare delle categorie (il tempo, la salute, il benessere, la felicità, l’infelicità, la solitudine…) in un sobbollire cosmico che è cominciato e continua a emanare un odore buono e cattivo, come il minestrone della nonna con tutte le sue verdure.
Al di là delle implicazioni per la salute e, poi, l’economia, c’è quasi uno sbalorditivo azzeramento delle altre implicazioni. Non si pensa più ad altro se non come a delle reminiscenze di un prima che non si sa più bene se esista ancora o sia completamente stato spazzato via dal virus. Accanto alla sacrosanta funzione informativa della stampa – su cui molto c’è da dire, ma non nel fuoco della battaglia –, si assiste a un lavoro alacre di tutti coloro che sono in grado di formulare pensiero complesso e articolato (intellettuali, opinionisti, scrittori, artisti) per spiegare, far capire, un gran darsi da fare a elencare ciò che c’era e che non potrà più esserci e a prefigurare un nuovo futuro. Con una specie di ansia di cancellazione e di rinnovamento, con i tentativi più o meno argutamente sostenuti di segnalare che cosa precisamente sarà diverso, in che modo questo che cosa si modificherà giocoforza dopo questo flagello. E tutti (noi) a cercare un qualsivoglia conforto, una rassicurazione sul proprio grado di sopravvivenza. D’altronde le guerre inducono una tabula rasa della riflessione e dell’espressione, come se solo i conflitti mortali potessero costringere il pensiero a riformularsi rapidamente. 
I musicisti, i disegni dei bambini, i nomi, tutto parla di più: l’ambiente (vigliaccamente ignorato), la povertà (vecchia e nuova), il lavoro (riformulato e dislocato), la scuola (ormai una sfida sociale ed educativa), la socialità (esplosa), l’emotività (completamente ridimensionata). Un’impressionante quantità di parole, meglio, di discorsi che probabilmente stanno elaborando una nuova configurazione della sostanza umana attorno alla quale ogni specificità settoriale dovrà rivedere i suoi fondamenti, e dovranno tenere conto della “necessità che trascende il nostro potere e che ci riconsegna a quella “natura” che credevamo, ingenuamente, di aver evaso”, come bene ha detto recentemente Rocco Ronchi (Seconda ondata, l’angoscia, Doppiozero, 25.10.2020). 
 
Il fatto è che per molti di noi parlare è la suprema coscienza di noi stessi, la vera sostanza del nostro stare al mondo. E quando supera lo stadio solo emotivo di “logorrea ansiosa”, come direbbe lo psicologo, questo parlare oltre misura ha evidentemente dei significati più larghi e fondi. Ecco il punto: siamo soli, davanti allo shock generalizzato della pandemia ci sentiamo abbandonati a noi stessi. Persino le rassicuranti “convinzioni” scientifiche vacillano, gli uomini tirano fuori le armi desuete dell’”oscurantismo” (complottismi, ecc. ecc.), scopriamo che i conforti generalizzati della goduria neoliberista (ristoranti, vacanze, viaggi, nottate a ballare, a bere e strafarsi, consumi incessanti, di cose e persone…) possono non essere più dati per scontati. E allora ci agitiamo e parliamo, guardando in tutte le direzioni, scrutando una bussola che sembra essersi smagnetizzata. E quando ci si percepisce soli si è preda del corpo, delle sue spietate meccaniche di sopravvivenza. Soli e smarriti, si diventa egoisti, e abbiamo bisogno di iperverbalizzare, alla ricerca fisica di dare un senso, una interpretazione a tutto questo (i sociologi della comunicazione avranno il loro bel da fare nei prossimi anni). 
C’è un’oscillazione frenetica e costante tra il generale e il particolare, tra il collettivo e l’individuale, ma soprattutto è maturata una vera angoscia per il futuro. “È una lezione clinica – dice Massimo Recalcati –: il ritorno del trauma — la sua recidiva — può essere più traumatico della sua prima volta. Il panico della seconda ondata porta con sé il sentimento di non poter più ritornare alla vita” (Se cresce la paura del futuro, in Repubblica, 31.10.2020).
 
E ancora più soli ci percepiamo se ci misuriamo con le vastità dei sistemi sociali e politici certamente destinati a rivedere il loro funzionamento e le loro “filosofie”. Verifichiamo, infatti, che “la morte non è democratica”, perché le condizioni sociali condannano i più deboli, ma soprattutto sperimentiamo sulla nostra pelle (anzi, sulla nostra solitudine) quale sia il potenziale di coercizione del controllo digitale anche nelle società liberiste, come dice il filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han: “Il liberalismo occidentale è minacciato non solo dalla pandemia, ma anche dal totalitarismo digitale. […] Le informazioni che divulghiamo ci controllano e ci guidano. Il governo neoliberista non sopprime la libertà, fa uso della libertà stessa. Viviamo oggi in questo paradosso dell’autosfruttamento volontario che va di pari passo con la percezione della libertà. ("Noi, schiavi felici della pandemia digitale" intervista a Repubblica, 31.10.2020).
 
Sono nuove realtà, nuove sensibilità, nuovi errori di cui ha senso che io parli, purché ne nasca una discussione, e non un’istanza malata della mia (nuova) solitudine. Non posso non chiudere con le parole di Chandra Livia Candiani (Doppiozero, 03.11.2020): «Il fatto è che le cose sono complesse e se vedi un lato ne manchi un altro e non ho parole rotonde. Tutto sommato, credo che ascolterò e basta, lascerò dire a ognuno la sua e intanto respirerò. Certe volte, così facendo, qualcuno mi dice: “Grazie, mi fa bene parlare con te.” “A me invece fa bene respirare,” penso io, un po’ malinconicamente”».

Mauro Portello,
DoppioZero.com

sabato 12 settembre 2020

[IRAN] nessuna pietà per Navid

Questa mattina Navid Afkari, 27enne campione iraniano di lotta greco-romana, è stato impiccato nella città di Shiraz. Lo scrive il sito della televisione di Stato, che cita il procuratore generale della provincia di Fars, Karem Mousavi.

La sentenza di "qesas", cioè la "legge di ritorsione", una condanna di "punizione", è stata eseguita questa mattina nel carcere della città natia di Afkari. Afkari era stato arrestato con due suoi fratelli, dopo brevi e farraginose indagini, il 17 settembre 2018 dalle autorità iraniane per aver partecipato alle manifestazioni contro il governo nell’agosto dello stesso anno. Accusato di aver ucciso un agente in servizio a Shiraz e di aver fomentanto le proteste, Afkari si era dichiarato più volte innocente. 

Il verdetto è stato emesso sulla base di confessioni arrivate da testimoni che – secondo il suo legale – erano stati sottoposti a torture. La condanna è stata eseguita anche se la famiglia di Hassan Torkman, accoltellato durante i disordini, aveva accettato di perdonare il lottatore (la sentenza però riporta in modo contraddittorio che l'esecuzione è avvenuta anche per la richiesta dei parenti di avere giustizia) e nonostante la pressione internazionale esercitata: oltre 85mila atleti mondiali hanno chiesto la scarcerazione dell'uomo, che aveva denunciato di essere stato torturato in carcere. Human Rights Watch e Amnesty International ma anche il Comitato Olimpico Internazionale e alcuni campioni di wrestling mondiali avevano lanciato appelli accorati. Lo stesso presidente degli Stati Uniti Donald Trump, via twitter, aveva chiesto di risparmiare la vita a #NavidAfkari.

Stamane il tragico epilogo.
I fratelli di Navid, Vahid e Habib, sono a loro volta stati condannati rispettivamente a 54 anni di carcere e 74 frustate, e a 27 anni di carcere e 74 frustate.


 

sabato 29 agosto 2020

[IRAN] Tre al petto, uno al cuore e uno alla testa


Hanno sparato 5 colpi a Pejman Gholipour.
Tre al petto, uno al cuore e uno alla testa.

Ogni volta che piove nella sua città, la sua mamma porta un ombrello sulla tomba del figlio.
 
Se il regime iraniano non avesse sparato a lui lo scorso novembre durante le proteste contro l'aumento del costo della benzina, oggi Ali avrebbe compiuto 19 anni
 
JAS

domenica 7 giugno 2020

Zaki l’italiano in carcere da quattro mesi e i doveri di un Paese

Sono quattro mesi esatti che Patrick George Zaki è in prigione nel carcere di Tora al Cairo, la capitale del suo Paese, incolpato di non si sa bene quali malefatte contro il regime di Abdel Fattah al Sisi. Un egiziano alle prese con la malagiustizia egiziana. Affari loro? Il fatto è che Zaki, nato da una famiglia borghese copta a Mansoura, 120 chilometri dalla capitale, dal settembre scorso si era guadagnato un master europeo all’Università di Bologna, diventando studente in Italia. Dopo aver brillantemente superato un esame complicato, si concede come premio un breve ritorno a casa dalla sua famiglia.
È il 7 febbraio, quando non si sono ancora spenti gli echi dell’ultima commissione d’inchiesta parlamentare sulla morte indecente di un altro studente italiano, ma di stanza a Cambridge, Giulio Regeni. I familiari, stremati da quattro anni di inutili battaglie per avere almeno un po’ di verità sulla fine atroce e misteriosa di loro figlio, accusano apertamente di omicidio la «dittatura sanguinaria» di Al Sisi. Tre giorni dopo, Patrick Zaki atterra al Cairo, e forse proprio in quanto «italiano» viene arrestato, torturato, interrogato senza esito anche su presunti legami con i Regeni, che non conosceva. Da allora, di 15 giorni in 15 giorni, la sua custodia preventiva viene rinnovata, in attesa di un processo per «istigamento al rovesciamento del governo» che si celebrerà forse tra un anno ma nessuno può dirlo.
Nel frattempo, oltre al sospetto che il suo sia stato un sequestro a scopo di avvertimento alle nostre istituzioni (basta indagini su Regeni), il Covid 19 ha fatto la prima vittima anche nel penitenziario di Tora. Patrick è asmatico: un’infezione polmonare, già debilitato com’è, gli sarebbe fatale. Stiamo facendo qualcosa per lui? Stiamo continuando a fare qualcosa per Giulio Regeni? Doppio zero. 
Una democrazia, la nostra, che lascia che due giovani di 28 anni, entrambi impegnati nello studio e nella pratica dei diritti civili, vengano inghiottiti da una ex repubblica socialista guidata da un presidente padrone e supinamente ne accetta l’insolenza, non brilla né per forza né per decenza. Ma anche se magari non sembra, è un problema che non riguarda solo la coscienza di un Paese. Riguarda il peso che abbiamo, e soprattutto che dovremmo avere, nelle complicate trattative finanziarie che ci attendono al varco a Bruxelles e dintorni.
 
Specie in questo tempo sospeso, imboccato il ponte fragile tra il prima e il dopo Covid, vale la cruda verità annunciata per sempre da Marguerite Duras: «Si crede che quando una cosa finisce, un’altra ricomincia immediatamente. No. Tra le due cose, c’è lo scompiglio». Ecco, noi siamo proprio in quel punto, nello scompiglio, in ordine sparso. Se guardiamo giù, da un lato ci affacciamo sul precipizio di una crisi economica senza fondo, dall’altro si scorgono le sagome di un milione di senza lavoro precipitati in un buco nel quale rischiano di essere raggiunti da tanti altri disarcionati dal virus. A guidarci nell’incertezza, tra vaghi «piani di rinascita» (meglio sarebbe almeno cambiargli il nome, visto il passato piduista che evocano) e certezze di ripartenza, a cominciare dalla scuola, instabili come le assi su cui camminiamo, c’è un presidente del Consiglio indebolito dagli attacchi dentro e fuori la sua maggioranza e un pacchetto elettorale previsto per settembre che non gli agevola il comando. La speranza è il soccorso alpino dell’Europa, ma molto dipende dalla compattezza con cui ci presenteremo ai prossimi tavoli e dalla credibilità di nazione che riusciremo a esibire. E una piccola storia ignobile come quella di Patrick Zaki, gemella, speriamo non negli esiti, con la fine martoriata e mai spiegata di Giulio Regeni, rappresentano due ombre che non aiutano l’immagine di un Paese che dovrebbe fare rispettare, oltre al proprio onore, anche i propri cittadini, naturali o acquisiti che siano.


Rifugiarsi nella ragion di Stato è un comodo espediente per non dire che, oltre un po’ di innocuo baccano diplomatico (compreso il provvisorio ritiro del nostro ambasciatore dopo lo strazio di Regeni, ma dall’agosto 2017 ne è tornato un altro in sede), l’Egitto è un partner da maneggiare con cura sia per gli equilibri geopolitici nella zona sia perché è un più che discreto giacimento di affari. Oltre all’Eni, più di 130 aziende italiane ci lavorano con ottimo profitto (2 miliardi e mezzo di dollari di fatturato, commesse militari, due fregate della Fincantieri pronte ad essere vendute in loco).
Restano qui e là in Italia, per esempio sulla facciata di Palazzo Marino del comune di Milano, gli striscioni gialli con la scritta «Verità per Giulio Regeni». Bologna tutta, a cominciare dall’università dove non smettono di invocare il ritorno del loro compagno Zaki, è unita nella lotta, per quanto impari. Anche se, dopo quattro mesi, qualche segno di resa comincia a intravvedersi. Fino a una settimana fa, un murale con Patrick circondato dal filo spinato, opera di Gianluca Costantini, copriva un’intera facciata del Palazzo dei Notai, vicino a San Petronio. È stato sostituito con il poster di una banca. Un altro murale, questa volta a Roma, via Salaria, ambasciata d’Egitto, realizzato dallo street artist Laika, vede due bravi ragazzi col volto gentile e una barbetta ancora adolescenziale. Uno è Giulio Regeni che abbraccia sorridendo il compagno di sventura Patrick George Zaki e lo rassicura: «Stavolta andrà tutto bene». Stavolta, non come a lui. Tutto bene, nelle condizioni date, è davvero un atto di fede.

Carlo VERDELLI,
Corriere.it

giovedì 14 maggio 2020

[IRAN] il virus degli altri


Era mercoledì 26 febbraio quando è uscita la notizia della morte di due uomini in un ospedale a Qom, città religiosa vicina a Tehran. La loro morte ha scatenato un delirio tra gli utenti iraniani sui social: “Uno degli uomini deceduti poche ore fa è il fratello di un politico importante. Questi avrebbe chiesto alle autorità di indagare la causa della morte di suo fratello. Il fratello è morto di Covid 19. Se non fosse stato un parente di una persona importante, il governo avrebbe continuato a nascondere la verità, nessuno avrebbe saputo nulla di questo virus!”

Perché il governo iraniano avrebbe mantenuta nascosta una cosa così importante? Dopo il lockdown in Cina, quando nessuna compagnia aerea avrebbe trasferito passeggeri dalla Cina in altri Paesi per via del virus, la compagnia iraniana MAHAN Airlines, ha continuato a fare viaggi tra le città cinesi, portando i passeggeri in Iran e da qui in altri Paesi. La popolazione iraniana ha condannato tutta questa finta “umanità”, così è stata definito dal governo questo gesto folle, e hanno sempre assicurato al popolo di avere preso tutte le misure di sicurezza necessarie e che il virus non sarebbe mai entrato in Iran. Seicento studenti cinesi che studiavano religione a Qom, sono tornati in Iran con la Mahan Airlines proprio quando Wuhan era in piena fase uno. È forse un caso che i primi decessi per covid in Iran siano stati proprio a Qom?

Dopo la morte di quei due uomini a Qom, tante persone, da medici a attori e artisti, hanno chiesto al governo iraniano di mettere il Paese in quarantena e di chiudere le strade che entrano ed escono da Qom. Il governo però, ha sempre dichiarato che non serviva, che la situazione era sotto controllo e che “mettere un paese in quarantena” era un metodo medievale! Il 10% della popolazione di Qom ha abbandonato la città in questo periodo per paura di prendere il virus. Metà di loro sono andati a Tehran e nella regione Mazandaran (al nord del Paese) ed è subito diventata la regione più colpita dal virus. La situazione era così grave che non c’erano più posti per seppellire i defunti e quindi hanno seppellito tante persone in fosse comuni a gruppi di trenta. Nel frattempo l’Italia, insieme a molti altri Paesi europei entrava in quarantena. Tutti Paesi del terzo mondo con governi medievali!
Da allora tutti i medici e gli infermieri in tutte le città iraniane hanno denunciato sui social le numerose morti a causa del coronavirus, e che le autorità hanno loro ordinato di dire che è la causa di questi decessi era “per problemi gravi polmonari”. Ovviamente tanti di questi medici sono stati arrestati. Tanti di loro hanno perso la vita a causa del virus. Tanti altri continuano ancora ad informare la gente di come evitare il contagio e continuano a lottare contro il virus e contro chi non vuole che si sappia della situazione reale del Paese! Solo ieri, 11 maggio, il ministro della salute iraniano ha dichiarato che il coronavirus era in Iran già da dicembre, ma che loro l’hanno scoperto solo in gennaio!

Il nuovo anno persiano inizia il 21 marzo e ogni anno ci sono tredici giorni di ferie per tutti e quasi tutto il Paese è chiuso. Il governo ha approfittato di questa chiusura festiva per mettere tutte le città in quarantena, dopo quasi un mese di richieste e lotte di attivisti e medici! Alla fine delle ferie, il governo ha dichiarato che il Paese era entrato nella fase di quarantena obbligatoria e quindi per le successive due settimane sarebbero state aperte solo banche, ospedali e uffici governativi necessari (la verità è però che nessuno degli uffici governativi ha mai lavorato in quel periodo!) Più aumentavano i decessi più il regime iraniano utilizzava la carta “sanzioni americani contro il regime iraniano” per poter chiedere a altri Paesi sovvenzioni e attrezzature sanitarie e  fare pressioni affinché Trump togliesse una parte delle sanzioni messe recentemente. Ovviamente tutto invano.

Ufficialmente l’Iran è tornato alla normalità da sabato scorso, saranno ancora chiuse le scuole fino alla fine del Ramadan; la quarantena è finita e la gente esce di casa come niente fosse, tanti indossando mascherine e guanti, ma tanti altri senza alcuna protezione. Aumentano i casi di contagio nel sud del Paese, ma ormai il governo iraniano ha deciso che userà l’immunità di gregge per fermare il virus.
Alla fine il regime iraniano non ci ha mai visti altro che come un gregge!

Jass,
La Persiana Aperta
(tratto da ildieci.com)


Glifosato probabile fattore di rischio per il Parkinson

I sospetti restano. E si fanno, man mano che passa il tempo, sempre più fondati. Almeno nella comunità scientifica l’ipotesi che il glifosato sia tra le cause probabili del morbo di Parkinson trova nuove evidenze. Nel silenzio colpevole delle due grandi autorità pubbliche al di qua e al di là dell’Oceano – Epa ed Efsa sembrano del tutto cieche di fronte alle pesanti ombre sul pesticida più usato nella storia dell’umanità – gli indizi assumono la forma di prove.

L’ultimo lavoro è pubblicato su Neuroscience letters del 7 maggio e firmato da una équipe di ricercatori dell’Università giapponese di Chiba. Vale la pena leggere la conclusione dell’abstract per tentare di comprenderne gli esiti: “Questo studio suggerisce che l’esposizione al glifosato potrebbe esacerbare la neurotossicità dopaminergica indotta da MPTP nello striato e nel SNr di topi adulti”. Un linguaggio da addetti ai lavori che però viene sciolto senza possibilità di equivoci con la frase successiva: “È probabile che l’esposizione al glifosato possa essere un fattore di rischio ambientale per il morbo di Parkinson, poiché il glifosato è stato ampiamente utilizzato nel mondo”.

Non è la prima evidenza in tal senso. E probabilmente non sarà l’ultima. Poco più di un mese fa aveva fatto rumore l’indagine del gruppo di ricerca guidato da Mariah Caballero che aveva incrociato le mappe sull’uso dei pesticidi del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti e i dati dei decessi del Dipartimento della Sanità di Washington. In alcuni casi, i ricercatori avevano scoperto che le persone che vivono entro 1 km da un’area irrorata da glifosato avevano circa un terzo in più di probabilità di morire di morbo di Parkinson prima di raggiungere i 75 anni.
In quel caso la ricerca era stata firmata dal Community Health and Spidial Epidemiology Lab della Washington State University e pubblicata sull’International Journal of Environmental Research and Public Health.
“Non siamo in grado di affermare che ci sia un nesso di causalità”, avevano spiegato gli scienziati, affrettandosi ad aggiungere “Stiamo solo osservando e vedendo una relazione. C’è bisogno di indagare di più”.
Ora le evidenze sembrano esserci. Ma c’è da giurare che all’Autorità europea per la sicurezza alimentare e a quella (ben più sdraiata sugli interessi industriali) per la Protezione ambientale statunitense, non basteranno. Volete scommetterci?

Riccardo Quintili
IlSalvagente.it

venerdì 8 maggio 2020

“Maggio, il più crudele dei mesi”

Lettera di Maria Fida Moro agli italiani, in occasione del 9 maggio


“Mi rivolgo agli italiani tutti per fare un parallelo tanto dolente quanto doveroso. La frase iniziale non è mia. L’ho presa in prestito, accorpando le parole da un articolo a firma Massimiliano Panarari, uscito su La Stampa il 20 aprile ultimo scorso. Vorrei condividere un’annotazione, anzi due, su maggio e il coronavirus. Questa tragica pandemia si è portata via tante persone che si sono ammalate, sono state trasportate in ospedale e sono morte. Senza che i relativi familiari potessero mai più vederle né vive né morte. Quindi adesso è più facile comprendere cosa abbiamo provato noi il 16 marzo del 1978 quando nostro padre Aldo Moro è stato rapito e poi fatto ritrovare morto, crivellato di colpi, in una Renault4 rossa il 9 maggio. Questa è la prima similitudine. 
La seconda è che le coincidenze della vita quasi mai sono coincidenze. Ad esempio il Covid19 (numero che rappresenta la morte nella numerologia della grande piramide) ci ha “imprigionati” in casa l’8 marzo e rimessi in giro, in una parvenza di libertà, il 4 maggio. Se contiamo si tratta di 56 giorni. Mio padre è stato rapito il 16 marzo e ucciso il 9 maggio: 55 giorni, giorni nei quali non si sapeva niente di certo. Ad oggi gli italiani sono in grado, avendolo sperimentato sulla propria pelle, quanto siano lunghi e drammatici 55 giorni. Ma non finisce qui. Sono anni che, a voce e per iscritto, io dico che l’Italia non si salverà se non si assumerà la responsabilità etica della crudelissima ed ingiusta morte di un innocente. Non mi riferisco ad una responsabilità giudiziaria o giuridica, bensì alla responsabilità morale che pesa su tutti, nessuno escluso. Perché non è una specie di vendetta o punizione celeste (tipo le piaghe di Egitto), ma la diretta conseguenza di una causa. Non intendo essere profeta di sventure, mi limito a ricordare che gli effetti di un danno così grave ricadono, in varie forme, su tutti noi. Papà, cristiano di serie A, credente, buono, misericordioso e gentile aveva scritto in una lettera dal carcere del popolo “il mio sangue ricadrà su di voi”. Non malediceva i suoi assassini, ma lungimirante in modo speciale, ricordava quali sarebbero state le conseguenze umane e politiche della propria morte. Non si può riportare in vita Aldo Moro, ma lo Stato può e deve, con un ritardo di ben 42 anni, sanare, almeno in parte, l’orrore di quella morte.

Speravo, almeno quest’anno, di salvarmi dalle vacue celebrazioni, che da sempre accompagnano il 16 marzo ed il 9 maggio, e che sembrano sempre aggiungere al danno le beffe. Non è stato così perché c’è sempre qualcuno che si deve prendere la scena con parole inutili per farsi auto pubblicità non pago delle “sceneggiate” pubbliche. C’è una cosa che proprio questa volta lo Stato deve fare prima che si abbattano tsunami vari sul nostro povero Paese. E cioè applicare anche per Aldo Moro la legge 206 del 2004 in favore delle vittime del terrorismo, legge speciale ed in deroga che è stata applicata per tutte le vittime tranne mio padre. Mio figlio Luca ci tiene a sottolineare che la suddetta legge non è intitolata “contro Aldo Moro” anche se è proprio quello che sembra essere. Inoltre è un nonsense che il giorno della memoria sia proprio il 9 maggio, data della morte di mio padre.
Mi appello alla Corte Costituzionale “custode della Costituzione”, ai giuristi italiani (Italia patria del diritto), agli uomini di buona volontà. Non voglio né un regalo né una elemosina, ma l’integrale applicazione di un diritto previsto e riconosciuto dalla legge. I cittadini devono fare quello che dispone la legge ed anche lo Stato, le Istituzioni ed il Parlamento. In questa noiosa quarantena abbiamo avuto ordini, contrordini, limitazioni che si sovrapponevano o si elidevano, decreti fumosi ai quali abbiamo aderito con diligenza. Non possono esserci due pesi e due misure. Lo Stato non può non dare il buon esempio. È obbligato dalla legge fondamentale: la Costituzione. Se una legge promulgata è in vigore neppure lo Stato può fare orecchie da mercante e non applicarla come se avesse il diritto legittimo di comportarsi così. Se gli italiani seguono alla lettera le delibere, le ordinanze, i decreti, non esiste che lo Stato, il Governo, le Istituzioni, il Parlamento ignorino lo spirito e la forma di una legge come se essa non esistesse. Si sa che la legge non è uguale per tutti! Tanto meno per Aldo Moro.
Mio figlio ed io siamo nella casta seguente a quella degli invisibili, siamo trasparenti per la sola ragione che ci siamo schierati a fianco di Aldo Moro rivendicando per lui, almeno da morto, la pari dignità. Non un trattamento più favorevole, beninteso, ma lo stesso identico già dato agli altri aventi diritto. Aldo Moro ha scritto la Costituzione formale, occupandosi in particolare dei diritti inviolabili dell’uomo, era il più giovane cattedratico italiano, statista illuminato, straordinario professore universitario, era amorevole e gentile, mai in tutta la vita è stato sgarbato con qualcuno e potrei seguitare a lungo, ma non lo faccio.

Invito il Presidente Conte a smettere di dichiarare che nessuno resterà indietro né sarà abbandonato. Il nostro personale coronavirus è vecchio di 42 anni e noi stiamo ancora nel limbo. Noi veniamo dopo gli ultimi, lo sappiamo bene, abitiamo nel luogo dei perdenti e per noi valgono solo i doveri mai i diritti. Mettetevi una mano sulla coscienza prima che sia troppo tardi per voi. Non sto scherzando, sento arrivare l’oscurità come ne ‘Il Signore degli Anelli’. Il male avanza (da un anonimo del 600: “Il male fiorisce dove chi può non fa il bene” detto tanto caro a papà). Non reclamo queste cose per me, ma per mio padre e mio figlio che mai ha avuto una vita e che è legato in modo inseparabile al “nonnino” per tutta l’eternità. Se avessi ancora lacrime queste pagine sarebbero illeggibili. Attenzione alle vostre lacrime. Il Covid avrebbe almeno dovuto insegnare che siamo in un mondo globale e che la sorte di ognuno ci riguarda da vicino.

Io non ho tempo, nel senso che non ho vita terrena, perché sono immortale non “immoribile”. Cosa devo dire ancora per scuotere le coscienze? Ho finito anche le parole insieme alle lacrime. Ripenso a Papa Francesco a piedi verso la chiesa ed al Presidente Mattarella in solitaria all’Altare della Patria. Ottime immagini emblematiche della solitudine e del dolore. Scrutate nei vostri cuori, uomini e donne, popolo sovrano, e fate molta attenzione a come si comportano coloro che ci governano, coloro che fanno le leggi, coloro che le applicano oppure no. Una ingiustizia qualsiasi non è solo contro il singolo ma contro tutti. La grandezza del diritto e la sua giuridicità risiede nel fatto che la legge nasce sempre in favore dell’uomo (me lo ha insegnato mio padre mentre la mamma comprava le mozzarelle per cena un’estate a Terracina e noi la aspettavamo in macchina. Avrò avuto tredici anni ma lo ricorderò sine die).
La vita senza libertà non ha senso e senza giustizia diventa senza cuore. Io ho consolato tutti, da quando ero piccola, e nessuno ha voluto mai consolare me”.

lunedì 13 aprile 2020

Creativi



Fino a qualche settimana fa i cileni riempivano le strade di Santiago ogni venerdì per protestare contro l’aumento del costo della vita. A Hong Kong per otto mesi migliaia di persone hanno manifestato chiedendo più democrazia. A febbraio decine di migliaia di donne argentine sono scese in piazza appoggiando una proposta di legge per la legalizzazione dell’aborto. In India per mesi ci sono state proteste contro l’emendamento alla legge sulla cittadinanza che discrimina la comunità musulmana. In Iraq, in Libano e in Algeria fino a metà marzo c’erano grandi manifestazioni contro i rispettivi governi.
Tra gli effetti collaterali del covid-19 c’è quello di aver spento di colpo qualunque forma di protesta. Con grande sollievo per i regimi autoritari e i governi impopolari, ma non solo loro. Il sociologo francese Geoffroy de Lagasnerie parla di una “sottomissione nazionalista”: il sentimento di appartenenza a un corpo nazionale nei cui confronti ognuno sente di avere degli obblighi, con tutti i pericoli di scivolamento autoritario che ne derivano. L’emergenza di queste settimane fornisce il pretesto per alimentare il controllo sociale, rafforzare i poteri di polizia, ridurre al silenzio le voci critiche, mettere a rischio intere categorie di lavoratori in nome di un interesse nazionale.
La risposta a tutto questo non può che essere creativa e prevedere la sperimentazione di nuovi modi di esprimere il dissenso, come quelli suggeriti dal collettivo di artisti cileni Depresión intermedia che ha pubblicato su Instagram un manuale per protestare da casa; come quelli di milioni di brasiliani che hanno manifestato contro Bolsonaro battendo pentole e coperchi dai balconi di casa; come i quasi seicentomila israeliani che hanno seguito in diretta su Facebook una protesta contro Netanyahu; come Greta Thunberg, che ha spostato online il suo sciopero della scuola con l’hashtag #digitalstrike.

Questo articolo è uscito sul numero 1353 di Internazionale

È il momento di pensare al mondo che verrà


Le affascinanti fioriture primaverili di Zagabria hanno un’aria un po’ malinconica. In fondo stanno vivendo la prima primavera senza il loro pubblico abituale, il genere umano. In realtà forse ricorderemo la primavera del 2020 come il primo momento in cui la natura è appartenuta unicamente a se stessa. Solo alcuni passanti hanno notato i ciliegi in fiore nel giardino botanico chiuso al pubblico. Sfortunatamente siamo tutti troppo impegnati a trasformare radicalmente le nostre abitudini di vita nel tentativo di sopravvivere alla pandemia globale: facendo deviazioni quando passiamo vicino ad altre persone, mettendoci a un metro dall’altro quando aspettiamo al semaforo e chiedendoci nel frattempo se sopravvivremo a questo caos planetario.
Ogni volta che vedo persone che si baciano o che si toccano in un film sento un brivido lungo la schiena. Ogni volta che vedo un contatto umano affettuoso, che normalmente mi scalderebbe il cuore, mi sembra di vedere persone già morte. Il nostro cervello è sorprendentemente efficace nel riorganizzare le proprie abitudini, quando abbiamo paura. Il cervello è una materia plasmabile. Ma non ha un’elasticità illimitata, e quindi non è in grado di reinventarsi costantemente.
Se e quando arriverà il giorno in cui tutto questo sarà finito, probabilmente non sarà il momento del ritorno alla normalità. A quanto pare avremo una normalità nuova di zecca. E visto che siamo tutti a casa e abbiamo meno cose da fare, invece di ossessionarci con il conteggio dei morti o guardare video musicali fatti in casa, possiamo cominciare a immaginare il mondo che verrà. 

Nuovi problemi, nuove soluzioni
Viviamo in tempi segnati da un immenso cinismo, e dare voce a riflessioni simili è rischioso. Quasi ci preoccupiamo di suggerire soluzioni, perché sappiamo bene che qualsiasi idea rischia di venire subito soffocata con feroce sarcasmo. Tuttavia penso che le ultime settimane ci abbiano insegnato che, in quanto esseri umani, non possiamo più permetterci di comportarci come adolescenti volubili. È arrivato il momento di trovare una soluzione ai problemi che oggi ci riguardano, a costo di passare per degli ingenui idealisti.
È ormai qualche tempo che la storia ha avuto un’accelerazione. Il capitalismo si è praticamente disgregato, a causa di leader incapaci o autoritari, e la crisi climatica ci ha già fatto intravedere la tragica fine della storia del genere umano. La crisi dei rifugiati, con il suo epico fallimento morale globale, ci ha messo di fronte al fatto che la fine dell’umanità non ha bisogno di drammatiche apocalissi, ma può avvenire nella maniera più banale, come un reality show trasmesso in televisione. Stiamo tutti cercando di tenerci al passo con i caotici sviluppi politici e naturali, come se fossimo attori scaraventati in un film dell’orrore che vagano senza avere idea della sceneggiatura. Grazie al nuovo coronavirus quest’accelerazione ha raggiunto la sua velocità massima.
Due cambiamenti importanti stanno prendendo forma: la giustizia sociale è percepita come una cosa necessaria (semplicemente non vogliamo morire come vittime di un sistema sanitario pubblico senza risorse) e la scienza ha ritrovato il suo onore (non vogliamo morire in un mondo dominato dall’idiozia). Il genere umano sta finalmente accettando il fatto che, per sopravvivere, deve abbandonare l’avidità istituzionalizzata e seguire i fatti, la verità e la morale.

Dopo aver rifiutato la scienza e marginalizzato gli esperti con l’aiuto dei leader della destra populista di tutto il mondo, oggi il pianeta pende disperatamente dalle labbra di studiosi e medici. E tutta la battaglia, durata una generazione, per spiegare al genere umano che la disuguaglianza è una cosa idiota e, a lungo termine, insostenibile sta finalmente dando i suoi frutti. Alla fine gli abitanti della Terra si sono convinti che le cose non possono andare avanti così. Mio padre e mia madre sono entrambi socialdemocratici. L’altro giorno, prendendoli in giro, gli ho detto: “E quindi, alla fine, non sarà la lotta di classe, ma uno stupido virus a mettere fine al capitalismo”. Mio padre mi ha risposto con una battuta leninista: “Siamo ancora qui, no? Aspettavamo solo che i tempi fossero maturi”.
In questo momento le condizioni del mondo sono propizie: possono prevalere la razionalità, l’umanità e la salute mentale. La domanda è: in che modo dovremmo reinventare la solidarietà per ottenere il potere politico necessario a cambiare il pianeta? Come potremo restare in contatto l’uno con l’altro e con la realtà circostante mentre cerchiamo di dare una forma a questo mondo in cui il contatto fisico è vietato? Immagino che, grazie al distanziamento sociale, per la prima volta da generazioni, disponiamo del tempo sufficiente per pensare a delle soluzioni.

(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul numero 1352 di Internazionale

domenica 5 aprile 2020

Questo non è un uomo


E ritorna la domanda di chi sia l'uomo, non in astratto, ma chi sia questo uomo, l'uomo del millennio appena iniziato, che si presenta con segni drammatici e apocalittici. Un uomo che non sembra in grado di governare nemmeno gli strumenti che ha introdotto nella natura, incapace di uscire da logiche che egli stesso denuncia, ma che poi segue inconsapevolmente o forzatamente.
Un uomo dell'inutile, del tempo perduto. L'uomo soprattutto del potere che aspira ad avere cose e a soggiogare persone, fino a schiavizzare i propri figli e chi con lui divide la vita. Ammalato di successo, attento solo ad apparire. Un uomo che vorrebbe uccidere il dolore che non sopporta, poiché gli pone questioni la cui risposta va contro la forza, la potenza e soprattutto contro il bisogno di immortalità.

L'uomo del tempo presente ha maggiori capacità di agire, di fare. E per realizzare tutto quanto è possibile si è disancorato da qualsiasi regola, da ogni legge morale, ha cancellato i limiti per poter fare quanto vuole e per diventare potente, più potente di quanto non lo fossero il proprio padre e la propria madre. Oggi più potente di ieri, e domani più di oggi. Un uomo che, per esistere visibilmente, diventa un falsario, un fedifrago, un infedele, un incoerente e che subito trova una filosofia che fa della flessibilità una dote e della coerenza una malattia, una rinuncia al mercato dell'imporsi e dunque dell'esistere. Un uomo che considera la saggezza una triste modalità di rappresentare la propria incapacità a vivere in questo mondo, e il saggio chi nostalgicamente si rifugia in un angolo della terra e vive morto chiacchierando e facendo riferimenti ai significati dell'uomo, dell'uomo che perde, dell'uomo dell'emarginazione.
Un uomo attaccato solo al presente, che così cancella l'eterno e il senso o il dramma della morte, e riduce la vita a una serie di momenti, uno staccato dall'altro, ciascuno con un proprio non-senso.
Il significato del fare, del muoversi: stare fermi e magari pensare sa di fine, di incapacità a gestire la propria esistenza sul mercato della finzione. In teatro un attore non può stare immobile, diventerebbe una statua, un pezzo di arredamento di scena, non un protagonista. E allora si fa e solo dopo, semmai, si pensa a cosa ne è sortito, ben consapevoli che la risposta giusta è l'aumento del proprio potere rispetto a quello del giorno appena passato, rispetto alla storia a cui si è ancorati ma da cui bisogna togliersi con ogni mezzo e con ogni sistema.
Questo non è un uomo. Chi si sente eterno e ignora di poter morire fra un attimo, è un burattino ubriaco con l'effigie di uomo. La morte è attaccata addosso a ciascuno di noi, è confezionata con la vita, che appunto è un transito in attesa di venire sacrificati da un destino che è parte dello stesso esistere.
L'uomo è consapevole della morte, sa che deve morire e sa anche che lottare solo per accumulare cose, togliendole magari a chi non ha nulla, è stupidità, e se si chiama ricchezza, la ricchezza è semplicemente idiozia.
Chi si sente forte e ignora che basta un virus invisibile che si attacchi al torace e morsichi la radice di uno soltanto dei nervi intercostali per fiaccarlo e farlo piangere di dolore, non è un uomo, ma un esaltato, uno che delira, e il delirio è un'errata interpretazione del mondo.
Non è uomo chi violenta un bambino per una convulsione di piacere, perché un bambino ha bisogno di aiuto e la violenza lo lascerà per sempre nella paura. Questo non è un uomo.

Chi usa le proprie mani, che possono accarezzare, per dare invece sberle o per stringerle intorno al collo di un innocente, è un folle, un sadico: di umano ha solo le sembianze, questo non è un uomo. Chi non rispetta il proprio vicino ma lo sfrutta, chi prende vantaggio dalla sua ingenuità o dal suo amore, non è un uomo, perché l'uomo rispetta l'uomo e ha pietà per chi è in difficoltà, non cerca di trarne vantaggio.
Non è uomo chi pensa di essere perfetto, di appartenere a una razza superiore e colloca tutti gli altri nella pattumiera del mondo, e li massacra e li abbandona. I campi di concentramento oggi sono nelle strade, dove circolano uomini senza essere visti, considerati solo sterco.
Chi lascia morire un bambino che chiede solo di avere un po' di cibo, soltanto un po' di quello che viene buttato, non è un uomo. Chi fa la guerra per ottenere potere e paga la carne ammazzata con un monumento falso e ridicolo, non è un uomo.

Io non so dire chi sia e come debba essere l'uomo, il vero uomo, ma sono certo che chi uccide per il proprio potere non è un uomo. So per certo che chi odia il proprio vicino semplicemente perché non ha i colori alla moda, non è un uomo. So che un potente che vive sulla miseria di chi grida di dolore o di fame e di fame di dignità senza essere sentito, non è un uomo.
Non so chi sia l'uomo e come debba essere, ma sono sicuro che chi mostra un volto che non gli appartiene, usando strategie di falsità, non è un uomo. L'uomo che si atteggia a potente e ignora la propria fragilità, non è un uomo. Chi crede di essere onnipotente e sta per morire, non è un uomo. Chi chiude gli occhi davanti a un bambino che implora aiuto perché è solo, senza mamma e papà, non è un uomo. Sembrano uomini, ma non lo sono.

E il mondo ormai è pieno di non-uomini vestiti con l'abito dell'uomo; è pieno persino di sacerdoti che non credono in Dio, di donne che invece di diventare madri si vendono per comperare un abito con griffe.
Questo non è un uomo. Uno che non comprende il dolore di chi gli sta vicino o lo provoca per indebolirlo, che odia invece di capire, che non sa amare perché l'amore non è uno strumento di successo e allora mercanteggia i sentimenti, non è un uomo, anche se lo rappresenta, come in un teatro in cui si recitano parti e si fingono ruoli.
L'uomo è colui che dà un senso all'essere nel mondo, anche se non sa definirsi e se ogni definizione rimane avvolta dal mistero.
Ma non sono mistero l'onestà, la generosità, la sensibilità all'altro e ai suoi bisogni. Non è mistero la voglia di servire per poter essere a propria volta aiutato nel pericolo e nella disperazione. Non è mistero la solitudine: la sensazione attonita di vedere un deserto senza nessuno, e percepire che la propria voce si perde tra granelli di sabbia e tra il fischiar€ del vento. Chi non interrompe la solitudine di un uomo solo è fuori dall'umanità. Questo non è un uomo.
Provocare dolore che a differenza di quello del destino, potrebbe tacere, è fuori dell'umano.
Questo non è un uomo.

Fingere di non sentire chi piange sopraffatto da un male a cui non riesce a dare un senso e che ignora come possa e se possa finire, lasciarlo solo dentro il dolore e dentro la paura che aumenta, non è umano. Il dolore quando è gigantesco copre ogni pensiero e la dimensione dell'essere si fa dolore. E in questa catastrofe occorre che almeno un uomo vegli, sia presente, faccia sentire che il mondo è più vasto del proprio mondo fatto solo di dolore. Se tutti scappano per dedicarsi agli affari o ai propri piaceri, allora il mondo diventa una disgrazia e l'esistenza scompare non dentro il mistero, ma dentro il male, e tutto diventa male. Questo non è un uomo.
Perché uno si fermi vicino a un ammalato deve sapere di potersi ammalare. Deve conoscere il dolore fisico, quello esistenzià1e che insieme riducono la terra a un inferno. L'inferno non è frutto della fantasia di un poeta o di un artista che lo ha rappresentato, ma la cronaca del dolore su questa terra e del dolore dell'uomo. E le urla di dolore si confondono con l'orgia dionisiaca del piacere stolto.
Questo non è un uomo.

Guardo seduto sulle rive dell'oceano, qui a Inverkirkaig, i gabbiani, gli aironi, i cormorani e penso al male che possono fare a un altro gabbiano, a un altro airone o a un altro cormorano.
Mi sembrano incapaci di attenzioni raffinate e di carezze umane, ma anche incapaci di uccidere, di aggiungere dolore al dolore che un uccello di mare può provare.
Ho visto padri picchiare i propri figli perché piangevano dal dolore e disturbavano.
L'uomo del tempo presente mi appare un eccesso di violenza e di cattiveria, guidato dalla rabbia, incapace di dare senso ai propri gesti. Questo non è un uomo.
La fragilità non è all'origine della cattiveria e della volgarità. Non è la fonte del male. Anzi la percezione del proprio limite porta a considerare e a capire il limite degli altri.
La violenza è data dalla constatazione di non essere forti come si vorrebbe, dalla delusione di non avere ottenuto il successo a cui si pensava di aver diritto. Lo scarto tra il desiderio di potenza e la cronaca scatena la furia e le pulsioni che annientano, oltre alla vittima, anche la propria umanità, poiché questo non è un uomo.

L'uomo fragile non è mai violento.
C'è chi uccide ogni giorno e poi una volta salva una vita e lo fa per mostrare il coraggio e l'eccezionalità dei gesti. Questo non è un uomo.

È solo attraverso le piccole cose che si scopre l'uomo, nella comprensione di ogni giorno, nel poter guardare in viso l'altro da sé e coglierne i segni del dolore visibili in un'espressione che sa di fine, mentre si chiede inutilmente perché ancora dolore. Una domanda che rimanda alla paura.
Se non si conosce il perché del dolore, tutti i perché, di qualsivoglia origine, finiscono per disegnare un mondo di mostri, in cui si è vittima inconsapevole di un destino che è in mano all'ignoto. E allora l'uomo diventa un mostro guidato da un mistero fatto di mostri.
Perché la carne del vicino non ha mai pianto dal dolore? Perché io, perché non lui?
Il mistero, la fortuna, la colpa inventata.
Al dolore si associa la colpa, e al dolore del corpo, che gronda di piaghe, si aggiunge quello dell'esistere, dell'essere al mondo: il dolore diventa annuncio di morte.
E questi pensieri girano nella solitudine senza che nessuno sappia fermarli e riportarli in un contesto meno tragico. Tutti sono scappati e stanno coltivando la propria grandezza ignorando che la vita è dolore.
Il perché della vita, il perché della sofferenza, il perché di questi perché.
Il corpo si è fatto piaga, l'esistenza si è fatta piaga. E nessuno assiste a questa apocalisse di una vita, una vita che è passata nel dolore e scompare nel dolore senza che nessuno se ne sia accorto.
C'è un dolore talmente forte che persino i pensieri fanno male e ogni considerazione sanguina. La vita diventa un torrente insanguinato e ogni affermazione è dolorosa e produce dolore.
Non è possibile consolarsi se si è avvolti da questo mondo impaurito. Occorre che ci sia un uomo vicino che ricordi che anche dopo un temporale che ha sradicato un villaggio uscirà il sole e risplenderà la luce, e che gli uccelli cinguetteranno e la vita continuerà. Occorre un uomo che sappia cosa è il dolore perché ne è stato colpito e non ha dimenticato; un uomo con i nervi massacrati da un virus non può ritenersi dio onnipotente. Questo è un uomo, questo forse è l'uomo.
Chi conosce il dolore sa come stare con chi soffre. Chi sa soffrire, ma anche mostrare la luce laddove tutto si fa buio, perché la propria esperienza passata garantisce che il dolore passa.
L'uomo del dolore, l'uomo della fragilità, l'uomo della comprensione, l'uomo della consolazione. Questo è un uomo.

C'è un male inevitabile, o almeno così appare. Un male che forse domani sarà curato e prevenuto, ma che lascerà il posto a un altro che apparirà fuori dalle proprie possibilità di dominio. L'uomo vittima di un male fatale.
E poi c'è la morte: nel dolore immane appare come una salvezza, ma è segno della disperazione per cui la non-esistenza sembra sopportabile, mentre la vita dolente non lo è.
La morte è male poiché porta via senza sapere dove e perché, senza che si presenti con chiarezza, senza poter intravedere il senso di quel viaggio: forse verso il nulla, forse verso qualcosa che coinvolge ancora la coscienza di esserci. E allora la morte si fa spaventosa.
La morte come disastro, la morte come fine, certo anche del dolore, ma al tempo stesso della speranza, del desiderio. E l'immaginazione si chiude e sullo schermo si mostra una macchia nera. Nero su nero. E si muore senza che nessuno ti racconti cosa succede, senza che tuo padre, che è morto, sia venuto a dirti cosa sia, e lui non racconterebbe bugie. Per questo non risponde alle mie domande, ai tanti perché che vengono svelati negli inferi.
La morte è il più grande dei limiti dell'uomo. Il limite alle proprie possibilità transeunti, il limite all'arroganza, il limite al potere, al non-senso del potere.
La morte deve promuovere la voglia di comprendere l'altro, di conoscerlo, di poterlo aiutare. Ogni compagno di viaggio deve essere disposto a darsi a chi ne avesse necessità, sapendo che può accadere di averne altrettanto bisogno; e allora colui che si è aiutato in una occasione è lo stesso che ti aiuta quando ti senti incapace di far fronte alle tue difficoltà. E ogni difficoltà è già dolore senza un uomo che ti guardi e ti sorrida.
In questo mondo folle di fronte al dolore si tende a prescrivere un lenimento e non a dare un supporto di umanità. Una ricetta, invece che un sorriso. Una pasticca, invece che una stretta di mano.
Gli antidolorifici sono una grazia della scienza e si trovano in natura prima che nei laboratori, e aiutano a vivere, ma c'è un dolore che non risponde ai farmaci, a nessun farmaco: il dolore di vivere, quel male che sembra attaccarsi al respiro, all'esserci.
Painkiller pills, pillole per ammazzare il dolore. Una espressione che, anche se con violenza, mostra la forza sconvolgente del dolore che si impossessa dell'uomo e lo travolge, facendone un essere che non percepisce altro che il male.
Ma se il dolore si attacca alla vita, allora si placa solo con la morte. Non c'è pillola che uccida il dolore della malinconia, il dolore della colpa, il dolore di essere stato un non-uomo mentre si poteva appartenere al genere umano, anche se si tratta di un genere infelice.
C'è un dolore che l'uomo non riesce a uccidere, un dolore che si può togliere solo provocandosi la morte, che fa paura.
Uomo è certamente chi sa piangere e disperarsi, chi lancia grida di aiuto, chi mostra la propria fragilità e riferisce le proprie paure, chi canta inni di speranza e giunge persino a pregare un Signore che forse non c'è, ma che se ci fosse, sarebbe bene delegargli la propria inconsistenza, la propria insufficienza, i propri limiti.
Un uomo sa mostrare le proprie piaghe e descrivere il proprio dolore. Chiede aiuto perché un uomo solo non è un uomo. Ha bisogno dell'altro. È parte di un insieme e deve gridare al mondo che sta cercando chi si possa alleare con lui, almeno con un legame di amicizia. Deve dichiarare di avere bisogno, di avere necessità di vedere qualcuno attorno a sé, che gli presti attenzione. Un uomo è un bambino che, anche se adulto o vecchio, ha desiderio di chiamare la propria madre che non c'è più, di chiedere un seno dove potersi attaccare poiché è troppo fragile. L'uomo è un gigante che porta dentro di sé un bambino ed è bene che dica, che mostri che quella stazza gigantesca non deve intimorire poiché è piena di bontà, di voglia di essere amato, magari da un nano, da chi pensa di esser troppo piccolo per vivere ma può diventare necessario a un gigante. Questo è un uomo.
Un tempo insegnavano a nascondere le debolezze e pensavano che la fragilità fosse un segno di infelicità e di insuccesso. Uno stigma di chi soccombe rispetto ai forti, a chi non chiede mai, semmai dà e si impone su tutto e su tutti. Gli uomini vincenti, i giganti d'argilla che nascondono la fragilità che significa bisogno dell'altro, necessità di far parte di una coppia, di una famiglia allargata, di una società che emani calore. Questo non è un uomo.

Un uomo talvolta sente di dover pregare e non sa a chi rivolgersi.
Io prego mio padre che non c'è più, e gli chiedo aiuto quando mi pare di aver fallito e di essermi incamminato lungo una strada fatta di errori. E lui nel silenzio mi risponde, o forse semplicemente promuove la mia stessa risposta. Talora mi rivolgo anche a un Dio che forse non c'è. Grande, anche se non ci fosse. Talora l'uomo lo sfida, lo insulta nella sua onnipotenza, gli chiede ragione di quel dolore che l'ha colpito nel corpo, mentre sente ancora la paura di un male che poteva portare a morte, di un male che è già morte, un dolore di morte. Lo bestemmia, perché come Giobbe non capisce che cosa abbia mai fatto per meritare il castigo, un simile castigo.
E si chiede se sia un dio degno di questo nome o sia come tutti i potenti, che hanno forza ma non sanno amare, che giustiziano ma non capiscono e non stanno ad ascoltare le parole del dolore e di un dolore che è oltre la possibilità di sopportazione. Gli chiede quale piano malefico esista su di lui da meritare un male che fa perdere la dignità fino a condannare Dio.
Se si crede in un dio, allora non lo si può bestemmiare, mai. Se si crede, ci si deve comportare non come Giobbe, ma come Abramo che prende il proprio figlio Isacco e lo porta sul monte per sacrificarlo al Signore, poiché il Signore lo ha chiesto. Se si crede, anche la più sconvolgente e ingiusta delle richieste diventa accettabile, poiché può sfuggire al fedele ciò che è presente al proprio Padre celeste.
Il mio dio, che non c'è ma che prego, è un dio ingiusto e un dio potente.
E io non amo il potere, l'ho sempre sfuggito, e quando mi ci avvicinavo, sentivo un terrore che mi faceva scappare e mi riportava a iniziare una strada nuova lasciando quella che faceva intravedere il successo e l'encomio, che sono ancelle del potere.
Cerco un dio della fragilità, un dio minore che sappia capire e amare, ascoltare e aspettare vicino a me che temo la solitudine e il dolore, nel deserto, nel mio deserto. Un dio piccolo che aiuti con la propria paura, che affermi che questo mondo è malato e quest'uomo non è un uomo. Questo è Dio.
Il dio dei potenti, il re dei re, è freddo, irritabile, tremendo. Genera paura, non quiete. Mi terrorizza, non lenisce il mio tremore. Mi fa sentire indegno, perché la mia dignità si lega alla mia fragilità.
Sono un uomo di vetro non di ferro e ho bisogno di un dio fatto di un vetro ancora più sottile e che può infrangersi al solo batter di vento. Il dio forte è più fragile di ogni uomo, un campione di forza nella fragilità. Questo è Dio.

Non posso condividere lo stesso dio dei despoti, di chi non mi vede e non mi sente quando piagato mostro il mio costato tappezzato di macchie di dolore. Voglio un dio che abbia paura della morte anche se è eterno, perché la morte atterrisce tutti. È la più grande disgrazia della storia e della terra.
Non voglio un dio che si erga nella giustizia assoluta, nella potenza illimitata, nella intelligenza somma e perfetta, tanto da non essere perfettibile. Sarebbe un dio che non conosce i sentimenti, l'angoscia dell'errore, la voglia di accarezzare mentre si produce un lamento di dolore.
Mi ritorna alla mente continuamente la figura del Cristo. È certo l'immagine di dio che più si avvicina alla mia paura e alla mia fragilità. Ha pianto, ha rimproverato il Dio che è nei cieli, ha sofferto sulla croce, è stato insultato, ha agito nella impotenza e nella fragilità ed è morto di fragilità.
Sembra troppo umano per essere un dio.
Un dio poveretto, lasciato solo nel Getsemani mentre suda sangue e si sente abbandonato.
L'abbandono è la peggiore delle solitudini poiché non si lega a una dimenticanza, ma a un rifiuto consapevole.
Cristo, un grande uomo che meriterebbe di essere Dio, ma gli ebrei che sono il popolo eletto da Jahvé non lo riconoscono: non può essere un capo, un padre. E non può essere dio chi piange e si lamenta.
Ecco il mio dio, il dio per l'uomo, ma forse è semplicemente un uomo, non un dio.
Questo è un uomo.




Vittorino Andreoli
L'uomo di vetro,
la forza della fragilità
(Rizzoli, 2008)