Sono
quattro mesi esatti che Patrick George Zaki è in prigione nel carcere
di Tora al Cairo, la capitale del suo Paese, incolpato di non si sa bene
quali malefatte contro il regime di Abdel Fattah al Sisi. Un egiziano
alle prese con la malagiustizia egiziana. Affari loro? Il fatto è che Zaki, nato da una famiglia borghese copta a Mansoura, 120
chilometri dalla capitale, dal settembre scorso si era guadagnato un
master europeo all’Università di Bologna, diventando studente in Italia.
Dopo aver brillantemente superato un esame complicato, si concede come
premio un breve ritorno a casa dalla sua famiglia.
È il 7 febbraio,
quando non si sono ancora spenti gli echi dell’ultima commissione
d’inchiesta parlamentare sulla morte indecente di un altro studente
italiano, ma di stanza a Cambridge, Giulio Regeni. I familiari, stremati
da quattro anni di inutili battaglie per avere almeno un po’ di verità
sulla fine atroce e misteriosa di loro figlio, accusano apertamente di
omicidio la «dittatura sanguinaria» di Al Sisi. Tre giorni dopo, Patrick
Zaki atterra al Cairo, e forse proprio in quanto «italiano» viene arrestato, torturato, interrogato senza esito anche su presunti legami con i Regeni, che non conosceva.
Da allora, di 15 giorni in 15 giorni, la sua custodia preventiva viene
rinnovata, in attesa di un processo per «istigamento al rovesciamento
del governo» che si celebrerà forse tra un anno ma nessuno può dirlo.
Nel frattempo, oltre al sospetto
che il suo sia stato un sequestro a scopo di avvertimento alle nostre
istituzioni (basta indagini su Regeni), il Covid 19 ha fatto la prima
vittima anche nel penitenziario di Tora. Patrick è asmatico: un’infezione polmonare, già debilitato com’è, gli sarebbe fatale. Stiamo facendo qualcosa per lui? Stiamo continuando a fare qualcosa per Giulio Regeni? Doppio zero.
Una
democrazia, la nostra, che lascia che due giovani di 28 anni, entrambi
impegnati nello studio e nella pratica dei diritti civili, vengano
inghiottiti da una ex repubblica socialista guidata da un presidente
padrone e supinamente ne accetta l’insolenza, non brilla né per forza né
per decenza. Ma anche se magari non sembra, è un problema che non
riguarda solo la coscienza di un Paese.
Riguarda il peso che abbiamo, e soprattutto che dovremmo avere, nelle
complicate trattative finanziarie che ci attendono al varco a Bruxelles e
dintorni.
Specie in questo tempo sospeso,
imboccato il ponte fragile tra il prima e il dopo Covid, vale la cruda
verità annunciata per sempre da Marguerite Duras: «Si crede che quando
una cosa finisce, un’altra ricomincia immediatamente. No. Tra le due
cose, c’è lo scompiglio». Ecco, noi siamo proprio in quel punto, nello scompiglio, in ordine sparso. Se
guardiamo giù, da un lato ci affacciamo sul precipizio di una crisi
economica senza fondo, dall’altro si scorgono le sagome di un milione di
senza lavoro precipitati in un buco nel quale rischiano di essere
raggiunti da tanti altri disarcionati dal virus. A guidarci
nell’incertezza, tra vaghi «piani di rinascita» (meglio sarebbe almeno
cambiargli il nome, visto il passato piduista che evocano) e certezze di
ripartenza, a cominciare dalla scuola, instabili come le assi su cui
camminiamo, c’è un presidente del Consiglio indebolito dagli attacchi
dentro e fuori la sua maggioranza e un pacchetto elettorale previsto per
settembre che non gli agevola il comando. La speranza è il soccorso
alpino dell’Europa, ma molto dipende dalla compattezza con cui ci
presenteremo ai prossimi tavoli e dalla credibilità di nazione che
riusciremo a esibire. E una piccola
storia ignobile come quella di Patrick Zaki, gemella, speriamo non negli
esiti, con la fine martoriata e mai spiegata di Giulio Regeni,
rappresentano due ombre che non aiutano l’immagine di un Paese che
dovrebbe fare rispettare, oltre al proprio onore, anche i propri
cittadini, naturali o acquisiti che siano.
Restano qui e là in Italia, per
esempio sulla facciata di Palazzo Marino del comune di Milano, gli
striscioni gialli con la scritta «Verità per Giulio Regeni».
Bologna tutta, a cominciare dall’università dove non smettono di
invocare il ritorno del loro compagno Zaki, è unita nella lotta, per
quanto impari. Anche se, dopo quattro mesi, qualche segno di resa
comincia a intravvedersi. Fino a una settimana fa, un murale con Patrick circondato dal filo spinato,
opera di Gianluca Costantini, copriva un’intera facciata del Palazzo
dei Notai, vicino a San Petronio. È stato sostituito con il poster di
una banca. Un altro murale, questa volta a Roma, via Salaria,
ambasciata d’Egitto, realizzato dallo street artist Laika, vede due
bravi ragazzi col volto gentile e una barbetta ancora adolescenziale. Uno è Giulio Regeni che abbraccia sorridendo il compagno di sventura Patrick George Zaki e lo rassicura: «Stavolta andrà tutto bene». Stavolta, non come a lui. Tutto bene, nelle condizioni date, è davvero un atto di fede.
Carlo VERDELLI,
Corriere.it
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