Fino a qualche settimana fa i cileni riempivano le strade di Santiago
ogni venerdì per protestare contro l’aumento del costo della vita. A
Hong Kong per otto mesi migliaia di persone hanno manifestato chiedendo più democrazia.
A febbraio decine di migliaia di donne argentine sono scese in piazza
appoggiando una proposta di legge per la legalizzazione dell’aborto. In
India per mesi ci sono state proteste contro l’emendamento alla legge
sulla cittadinanza che discrimina la comunità musulmana. In Iraq, in Libano e in Algeria fino a metà marzo c’erano grandi manifestazioni contro i rispettivi governi.
Tra gli effetti collaterali del covid-19 c’è quello di aver spento di
colpo qualunque forma di protesta. Con grande sollievo per i regimi
autoritari e i governi impopolari, ma non solo loro. Il sociologo
francese Geoffroy de Lagasnerie parla di una “sottomissione nazionalista”:
il sentimento di appartenenza a un corpo nazionale nei cui confronti
ognuno sente di avere degli obblighi, con tutti i pericoli di
scivolamento autoritario che ne derivano. L’emergenza di queste
settimane fornisce il pretesto per alimentare il controllo sociale,
rafforzare i poteri di polizia, ridurre al silenzio le voci critiche,
mettere a rischio intere categorie di lavoratori in nome di un interesse
nazionale.
La risposta a tutto questo non può che essere creativa e prevedere la
sperimentazione di nuovi modi di esprimere il dissenso, come quelli
suggeriti dal collettivo di artisti cileni Depresión intermedia che ha pubblicato su Instagram un manuale per protestare da casa; come quelli di milioni di brasiliani che hanno manifestato contro Bolsonaro
battendo pentole e coperchi dai balconi di casa; come i quasi
seicentomila israeliani che hanno seguito in diretta su Facebook una
protesta contro Netanyahu; come Greta Thunberg, che ha spostato online il suo sciopero della scuola con l’hashtag #digitalstrike.
Questo articolo è uscito sul numero 1353 di Internazionale
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