In Italia si approvano troppe leggi. Eppure è di moda
sostenere che bisogna velocizzare l’attività parlamentare. È uno dei
tanti luoghi comuni che sviano il dibattito pubblico. L’attività
legislativa è stata piegata ad esigenze di autorappresentazione del
potere politico, prescindendo da concrete esigenze di regolazione della
vita pubblica. Legifero, ergo sum è il motto del politico mediatico.
Questa riduzione della politica alla legislazione ha reso quasi ingestibile la macchina statale.
Ci sono le “leggi manifesto”, ad esempio molte leggi sulla sicurezza o
sulla corruzione scritte sull'onda di eventi drammatici si rivelano
successivamente insensati appesantimenti burocratici. Ci sono poi le
leggi ideologiche che spesso finiscono per arenarsi nel contenzioso
costituzionale, come nei casi delle ronde o della procreazione
assistita. Ci sono le leggi bugiarde che dicono una cosa positiva per
nascondere quella negativa facendo conto sulla confusione mediatica,
come la legge Gelmini che prometteva più competizione tra gli atenei
mentre li soffocava con la burocrazia. Ci sono le leggi approvate per
calmare i mercati, che si sono sempre risolte con il peggioramento del
debito, come dimostrano tutte le finanziarie di Tremonti.
L’attività
legislativa è stata dominata dalle ossessioni del dibattito politico.
Il fisco è stato travolto da un’alluvione normativa che non consentiva
di applicare neppure le regole appena emanate perché nel frattempo erano
già cambiate. Il governo Monti ha portato alla paralisi i Comuni
sconvolgendo in pochi mesi tutti i tributi locali già ripetutamente
modificati negli anni precedenti. In generale, può funzionare un Paese
in cui si cambiano ogni anno le norme sulla scuola, sulla sanità, sugli
incentivi alle imprese, sui servizi pubblici? E poi, senza senso del
ridicolo, si istituisce perfino un ministero della semplificazione
addetto a cancellare le norme che prima erano state ritenute miracolose.
I
ministri ormai hanno perduto il senso del proprio ruolo, non
amministrano più la macchina statale ma si sentono obbligati a lasciare
un segno riscrivendo le norme di propria competenza. Il governo chiede
tante deleghe legislative che poi non è in grado di utilizzare. Non si
approvano più leggi organiche, ma solo leggi omnibus costituite da micro
norme, che creano problemi interpretativi e contenziosi senza fine.
Perfino nel linguaggio corrente la parola riforma ormai indica la mera approvazione di una legge. Invece, la vera riforma dovrebbe essere un processo graduale e multifunzionale:
definizione condivisa degli obiettivi; ricognizione delle risorse
finanziarie, professionali e organizzative; analisi di esperienze
analoghe; implementazione sociale delle regole; organizzazione delle
strutture preposte all'attuazione; formazione degli operatori;
monitoraggio degli interventi; valutazione dei risultati e modifiche in
corso d’opera. In questo contesto, la norma dovrebbe essere solo uno
degli strumenti per dare cogenza al processo. Al contrario, proprio il
riduzionismo normativo è la causa principale del fallimento delle pseudo
riforme italiane.
La bulimia legislativa rischia di soffocare la
funzionalità dello Stato e la vitalità sociale. Eppure, nella mia
esperienza parlamentare ho constatato scarsa consapevolezza del
problema. Si è fatto credere all’opinione pubblica che con le regole di
oggi non è possibile approvare leggi in tempi brevi; non solo è falso,
ma di solito le più veloci sono anche le più sbagliate: il Porcellum e
le norme ad personam sono state approvate in poche settimane; la
manovra pensionistica della Fornero, viziata da errori gravi sugli
esodati, in soli quindici giorni. Ciò nonostante si reclama la velocità
parlamentare . Con un argomento tanto banale quanto falso: il mondo
cambia e le leggi devono correre.
È solo un insensato futurismo
legislativo. Aveva ragione Luigi Einaudi che considerava la lentezza
parlamentare una fortuna per il Paese proprio perché limita l’ipertrofia
normativa. Bisogna riscoprire la virtù dell'indugio parlamentare che fa
decantare la discussione pubblica fino a che non si deposita in solide
certezze alle quali si potrà dare il sigillo della forza dello Stato.
Restituire
centralità al Parlamento è oggi un’esigenza ampiamente sentita, anche
all’estero, come dimostra ad esempio il rapporto Norton sul caso
britannico. Sulla base della mia esperienza propongo cinque
miglioramenti che sono possibili anche a Costituzione invariata.
1 - Ridurre
l’attività legislativa che oggi impegna quasi totalmente il tempo di
lavoro parlamentare e limita tutte le altre funzioni. Sono sufficienti
poche leggi l’anno, purché affrontino in modo organico i diversi
argomenti, stabilizzando le decisioni per gli anni a venire ed
eliminando tutta la micro legislazione che si è accumulata negli anni
precedenti. Le prime dovranno essere ampie delegificazioni che delegano
molte competenze all'amministrazione. In questo modo si ottengono due
vantaggi, da una parte il Governo può provvedere alla gestione della
cosa pubblica senza ricorrere a modifiche normative e nel contempo
l'attività del Parlamento viene liberata da minuzie amministrative,
compresi alcuni impegni di spesa, e può dedicarsi ad alta legislazione
con la produzione di Codici unitari nei diversi campi.
2 - A
fronte di una maggiore autonomia nella gestione della cosa pubblica il
Governo è sottoposto ad un effettivo potere di indirizzo e controllo,
che va reso cogente con regole molto più precise. Oggi una mozione
serve come bandierina per chi la propone ma nella maggior parte dei casi
non ha alcuna conseguenza pratica. Le interrogazioni sono attività
burocratiche la cui risposta dipende dal ghiribizzo del Governo. Le
stesse interrogazioni formali dovrebbero essere ridotte a questioni di
rilevanza generale, mettendo però a disposizione dei parlamentari e dei
cittadini strumenti diretti di accesso alle informazioni. Le audizioni
parlamentari di funzionari dell’amministrazione e di manager di aziende
pubbliche dovrebbero diventare strumenti temuti dalle burocrazie come
accade nel parlamento americano.
3 - Le Camere devono dotarsi di strumenti efficienti di monitoraggio di tutte le attività amministrative. In particolare, bisogna istituire una struttura professionale di Policy analysis
per verificare i risultati ottenuti dal Governo nell’attuazione delle
leggi e acquisire indicazioni utili per la legislazione successiva.
Questa attività di rendiconto è oggi completamente ignorata e spesso si
approvano leggi che ripetono pedissequamente gli errori già compiuti.
All'attività di controllo e indirizzo bisognerebbe dedicare gran parte
del tempo disponibile.
4 - Il Parlamento deve essere la Casa
delle Autonomie, il luogo di confronto e di concertazione permanente con
le Regioni e gli Enti Locali, secondo l'ispirazione dell'articolo
cinque della Costituzione, quel mirabile principio del Riconoscimento
che fonda un prius storico e nazionale nelle comunità territoriali
rispetto alla formazione statale. L’intuizione dei padri costituenti è
stata smarrita da quando si è preso a parlare di federalismo e si è
affermata l'usanza di collocare la Conferenza Stato-Regioni presso il
Governo, escludendo il Parlamento da questa fondamentale relazione
costituzionale.
5 - Infine, l'ascolto delle forze vive del paese dovrebbe essere il cuore dell'attività parlamentare.
Non solo utilizzando tutte le tecnologie disponibili per garantire
l'accesso alle informazioni e il dialogo con i cittadini, ma attivando
canali di consultazione delle forze sociali, di associazioni e di
esperienze significative della vita sociale e culturale. I lavoratori di
una fabbrica, i cittadini che organizzano una petizione, gli studenti
che invocano provvedimenti a favore dell'istruzione - per fare solo
alcuni esempi - sono esperienze che devono trovare udienza e confronto
secondo procedure ordinarie e ben definite.
Le competenze, le
istituzioni culturali, le personalità che danno lustro al Paese
dovrebbero essere di casa nelle sedi parlamentari per essere consultate
sulle decisioni da prendere. Anche col supporto di un rinnovato ruolo
del Cnel la concertazione sociale dovrebbe trovare un punto di
riferimento costante nel Parlamento. Le iniziative legislative dei
cittadini devono avere una maggiore garanzia di accesso al dibattito
parlamentare, costringendo le parti politiche a dare risposte chiare sia
positive sia negative.
Ma tutte queste innovazioni non sono
sufficienti se non si ricostruisce il prestigio del Parlamento e dei
suoi membri. Bisogna cancellare la parola privilegio dal dibattito
politico. Gli emolumenti dei parlamentari si possono almeno dimezzare.
Già oggi, infatti, il 50% di quello che ricevono non va nelle loro
retribuzioni, ma finanzia la politica scaricando però su di loro un
prezzo di immagine rispetto ai colleghi europei.
La gestione
coordinata di una parte di tali risorse consentirebbe ulteriori risparmi
e aumenterebbe la qualità del nostro lavoro. Si potrebbe condividere
una moderna piattaforma tecnologica, utilizzando alte professionalità,
per realizzare una potente macchina di comunicazione. Ci consentirebbe
di tenere informati e ascoltare tutti i giorni i cittadini delle
primarie, seguendo l’esempio della piattaforma Organizing for America di Obama.
Infine,
è ineludibile la legge di attuazione dell’articolo 49 sui partiti al
fine di assicurarne la trasparenza democratica e di ripensarne le
modalità di finanziamento. L’unica via che può legittimare un contributo
pubblico è il coinvolgimento dei cittadini nella scelta di
finanziamento di ciascun partito. Ne abbiamo ragionato in un gruppetto
di parlamentari ed è venuto fuori un disegno di legge che individua due
strumenti: contributo pari all’uno per mille del gettito Irpef da
ripartire secondo le indicazioni dei contribuenti; forte credito
d’imposta per le libere donazioni private, secondo la proposta di
Pellegrino Capaldo. Anche il presidente Letta ha espresso analoghi
intendimenti nelle sue dichiarazioni programmatiche. Si può fare presto.
Questo
modo di finanziamento sarebbe un incentivo a riformare la nostra
organizzazione. Tutti i giorni, non solo le domeniche dei gazebo,
dovremmo cercare il sostegno del popolo delle primarie, non solo per
ottenere i finanziamenti, ma per mettere a frutto la disponibilità di
milioni di elettori, coinvolgendoli nelle decisioni e nell’ampliamento
dei consensi. Sarebbe il primo passo per costruire il grande partito
popolare che il PD non è ancora riuscito a diventare.
Walter Tocci
Deputato PD (TamTamDemocratico)
Deputato PD (TamTamDemocratico)
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