In
questa storia ci sono un bambino, una mina antiuomo, un mutilato, un
professore. Il bambino si chiama Soran ed è nato nel Kurdistan iracheno.
Ha una testa piena di capelli scuri, gli occhi grandi e un difetto: gli
piace giocare. E giocare, si sa, è una delle attività “ad alto rischio”
per i civili in tempo di guerra. La mina antiuomo si chiama Valmara 69.
È nata in Italia, per la precisione a Castenedolo,
provincia di Brescia, e da allora ne ha fatta di strada: Angola,
Mozambico, Iran, Egitto, Sahara occidentale, Sudan… le Valmara 69 hanno
girato il mondo e si sono fatte un nome, perché sono un’arma
potentissima e micidiale, che uccide nel raggio di 25 metri
dall’esplosione, e dissemina le schegge contenute al suo interno ferendo
e mutilando in un raggio fino a 200 metri. Quando un bambino a cui
piace giocare nei campi incontra una Valmara 69, la storia spesso
finisce bruscamente: nel giro di tre secondi e nel raggio di 25 metri.
Invece Soran, insieme a tre amici, era un po’ più lontano. Il boato, le
urla, qualcuno che corre a prenderli e li carica su una jeep, poi 6 ore
su strade dissestate fino ad arrivare, ormai è notte, alla porta di un
ospedale, e poi in sala operatoria. Il mattino dopo, quattro ragazzini
mutilati si guardano attorno, nel giardino dell’ospedale. Soran ha perso
la gamba destra, e non è il più grave. [...] Dopo qualche giorno, i
ragazzini mutilati tecnicamente sarebbero “guariti”. Potrebbero essere
dimessi e mandati a casa: «Ecco la tua sedia a rotelle, immagino che
sarai destinato a un futuro di invalidità, tu non potrai lavorare e
qualcuno della tua famiglia nemmeno perché dovrà occuparsi di te – è
proprio per questo che le mine antiuomo sono così apprezzate da chi fa
la guerra, sai, un buon investimento per mettere in ginocchio la
popolazione nemica – però magari potrai chiedere l’elemosina, chissà; ha
vinto la mina, arrivederci e grazie, questo è il foglio di dimissioni»,
e fine della storia. Invece no, perché in quell’ospedale i medici –
italiani, come la mina – hanno altri progetti. Due mesi e mezzo di
fisioterapia e poi, finalmente, si può provare una protesi, fatta su
misura. Un’ora al giorno, poi due, poi tre. Soran ha imparato a mettersi
la protesi da solo, sistema bene i pantaloni, si guarda attorno. Fa tre
passi, poi si mette a correre nel giardino dell’ospedale. Sorride.
Ancora qualche giorno, e spunta un pallone da calcio: Soran e i suoi
amici si mettono a giocare. Possono farlo ancora. Possono di nuovo
camminare, correre, giocare, non sono destinati a un futuro di
invalidità, potranno lavorare, potranno essere autonomi. Hanno vinto
loro, non la mina. Fine della storia. E il professore? Giusto. Il
professore ha ventisette anni, insegna il curdo a quattro classi di
bambini di 5 e 6 anni. È sposato, ha due figlie e una testa di capelli
scuri. Quindici anni prima aveva incontrato una mina italiana, e la sua
storia poteva finire lì. Invece ha incontrato dei medici italiani, e
oggi può scriversi da solo la sua storia, ogni giorno. Si chiama Soran.
Cecilia Strada,
Quindici anni di vita, Emergency #66
Quindici anni di vita, Emergency #66
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