Sbaglia chi crede che a battersi contro l'alta velocità in Valsusa siano solo i grillini, gli ambientalisti e magari i black bloc. Qui, giusto o sbagliato che sia, c'è una comunità di 40 mila persone (famiglie, operai, contadini) in lotta da vent'anni
di Tommaso
Cerno,
l'Espresso (25
giugno 2013)
Sotto quel pilone di cemento armato c'è il professor
Gigi, che insegna Aristotele e Platone ai No Tav. La pensionata Ermanna, che
sforna 20 mila panini l'anno ai sit in. Il pescivendolo Emilio, che regala
branzini a chi fa la guerra contro l'Alta velocità. Il benzinaio Agip che
lavora per la Erg,
mentre il collega è di ronda. E poi gli dà il cambio. C'è la nonna black bloc,
protesi all'anca, che tira su nei boschi come una capra: «Prendete me, se ci
riuscite!». Sono loro l'altro popolo dei No Tav. L'altra Val di Susa. Quella
che pochi conoscono e nessuno racconta mai. Perché si pensa che i fotogrammi di
guerriglia nei cantieri di Clarea o della Maddalena, così come i lacrimogeni e
i manganelli, siano la protesta più forte e radicale che soffia da queste
montagne. Ma non è così. Adesso che è arrivata l'estate e il cantiere scaverà
cinque volte più veloce di prima, adesso che sta per essere messa in funzione
la "grande talpa", la trivella già nel mirino dei gruppi
ambientalisti, "l'Espresso" è tornato a Susa. Per raccontare chi sono
gli altri. Quarantamila anime abbarbicate sotto il monte Rocciamelone, in una
vallata già sfregiata dalla vecchia linea Torino-Lione, dall'austostrada A32
Frejus e da due statali. Tre generazioni appese al destino di un treno da 300 chilometri
l'ora. Nonni, figli e nipoti in guerra contro un mostro d'acciaio.
NUOVA RESISTENZA
Sotto la Sacra
di San Michele, il monastero simbolo del Piemonte che dall'alto del monte
Pirchiriano sorveglia la grande spianata della Dora, Val Susa ha tutta l'aria
di un'italica striscia di Gaza. Larga un paio di chilomentri, lunga una
sessantina. A Caprie le bandiere No Tav già sventolano dappertutto. E va così
fino a Chiomonte, sopra Susa, e fino al valico del Moncenisio. Ecco, qui non
vive solo una comunità montana. Qui non ci sono normali paesi, con i santi
patroni e le guerre di campanile. Qui migliaia di famiglie sono in simbiosi fra
loro. Legate da un patto d'amore e di lotta più forte del tifo, delle
parentele, del voto politico. «C'è il germe di una nuova Resistenza», racconta
Maurizio Galliano, assessore del comune di Sant'Ambrogio. Guadagna 120 euro al
mese e, quando parla di Roma, grida alla "casta" come Beppe Grillo,
che infatti nel suo Comune ha fatto boom. Lui è pronto a lasciare la poltrona
per tornare a essere solo un No Tav. Vuole comprarsi un bosco. E mandarci i
turisti a sentire i suoni della natura. Non ha paura di pronunciare la parola
"scontri". Né di raccontare i lacrimogeni. O i black bloc. E questo
perché a Susa il movimento No Tav è, ormai, ovunque. E' come un blob, come
l'acqua che tracima.
Qui ci si sposa dentro le baracche di legno dei presidi
No Tav. Con tanto di foto in abito bianco e bandiera. I bimbi ci fanno la prima
comunione sotto quei tendoni diroccati. Qui, per colpa di un treno fantasma, sono
saltate amicizie trentennali. Da Franco al ristorante non ci si va con i
parenti, che vogliono la ferrovia, ma con gli amici No Tav. Alle feste di paese
suonano gratis le bande No Tav. E cucinano i cuochi No Tav. Le maratone sono No
Tav. L'Anpi sfila con i No Tav. Gli alpini hanno lo stemma No Tav sul cappello.
I tornei di rugby sono No Tav. Il calcio è No Tav. Importa poco se tifi Milan o
Juve, importa se tifi treno oppure no. E così per le gare ciclistiche. Come
quelle che corre Aldo Giuliano, 49 anni, del Velo Club Val Susa. Pedala in
Italia e in Francia senza bisogno di un tunnel, dice. E sulla sua maglia c'è
solo una scritta.
Anche il tempo che passa, in Val di Susa, è No Tav. I calendari sulle pareti
non mostrano seni nudi, né frati che vaticinano il futuro. Raccontano
picchetti, sit in, proteste, botte nel cantiere. I fumogeni della polizia sono
i loro fuochi d'artificio a Capodanno. E le ferite da manganello le loro
stigmate a Pasqua. Alla scuola elementare, insieme ai libri di testo, si
leggono le favole scritte dalle maestre della valle. C'erano una volta i
partigiani, oggi ci sono i No Tav. E ancora il festival del cinema è No Tav. E
pure la fiera della lettura: "Una montagna di libri contro il Tav".
Se vai al bagno, non c'è scritto di lasciare pulito. C'è scritto così:
«Ricordati che l'acqua è un bene comune». E qui ci credono.
GANDHI TRA I MONTI
Chi liquida la questione Susa con i black bloc, insomma, si sbaglia di grosso.
Chi la mette giù parlando di violenti contro uomini del fare, sbaglia anche
lui. Non è storia facile, la protesta di Susa. Né è storia di questi mesi.
Tutto comincia nel 1990, dentro uno sgangherato cinema di paese. Si sente un
boato. Poi un treno che passa. Non sono i fratelli Lumière e quel coso non va a
vapore. E' il Tgv francese, lanciato a tutta velocità nelle vallate. A portarlo
in quella sala è stato Mario Cavargna, ingegnere del Politecnico di Torino. Ha
fissato su un nastro l'urlo di quel serpente di lamiera e l'ha fatto ascoltare
ai valsusini. In quei mesi sono nate Habitat e Pro Natura, antenate di una
rivolta che oggi ha più di vent'anni.
Quel giorno c'era anche Gigi Richetto. Di mestiere professore di filosofia al
liceo scientifico di Bussoleno. Un tipo esile, serafico, con due occhi celesti
che trapassano. Da queste parti lo conoscono tutti, eppure nei Tg nessuno parla
di lui. Zoppica sul piede sinistro, la voce è un sussurro. Mai uno scatto
d'ira. Bene, questo signore è il leader spiriturale dei No Tav. Qualcuno qui lo
chiama "Gandhi". E chi è salito in questi anni al presidio di Venaus,
o a Vaie, ha potuto vederlo all'opera con la moglie Maria. Come il suo amato
Aristotele, a passeggio sui prati alpini, fa lezione di filosofia ai No Tav.
Non parla di traffico merci. Né di linee ferroviarie. Per quello ci sono gli
ingegneri: «Io insegno la filosofia resistente», racconta a
"l'Espresso", «perché la nostra è una democrazia dei corpi, noi siamo
sempre in marcia, e non solo contro un'opera inutile, uno spreco di miliardi,
soprattutto in difesa della democrazia». E gli assalti? E la violenza? E la
guerriglia? «Qualcuno vorrebbe ridurre il movimento No Tav a una questione di
ordine pubblico, ma non è così. Negli scontri furono fatte cose canagliesche
dallo Stato: bruciarono i libri. E' da lì che abbiamo organizzato le lezioni di
filosofia nel campeggio No Tav, prima a Chiomonte, dove la polizia tirava i
fumogeni, poi altrove. L'idea è trasmettere il senso della misura. E' stata
commessa una violenza e non vogliamo cadere nella stessa tracotanza. Eppure
nessuno racconta questo, agli occhi dell'opinione pubblica i violenti saremmo
noi».
Che sia lui a mettere in bella la parabola dei No Tav, lo si capisce pure al
mercatino di Condove. Perché là parlano tutti come Richetto. Il salumiere, la
parrucchiera, l'ambulante venditrice di cappelli, gli studenti e gli operai. E
basta sfogliare un libro di storia della Val Susa per capire che nemmeno questo
è un caso. I No Tav, da queste parti, sono nati prima ancora dell'Alta
velocità. Siamo nel 1970, quando il treno più moderno faceva poco più dei cento
all'ora. A Bussoleno si parlava solo della Moncenisio, la prima fabbrica in
Italia a sospendere la produzione di armi su imposizione degli operai. A
guidarli c'era Achille Croce, classe '35, nativo di Condove. Ed era lui, prima
di Gigi, il Gandhi della vallata. Attorno a quel voto molti volti noti dei No
Tav di oggi, a partire dal leader Alberto Perino. Fino a Richetto, che ospitava
l'operaio pacifista nel suo liceo. Anche allora a far lezione di filosofia.
Anche allora ai ragazzi della vallata.
SPIRITELLO GIACU
A guardare la rete metallica che ingabbia il cantiere, il filo spinato, il
Lince di guardia, l'esercito dispiegato e tutto il resto, ti domandi dove
corra, a Susa, il sottile confine fra guerra e pace. Da queste parti la risposta
è "Giacu". Già. Proprio come nelle leggende dei pellerossa, di notte,
fra i pini, senti spesso invocare lo spiritello: «Giacu! Giacu! Giacu!
Uhuhuh...». Mette i brividi ascoltare gli ululati, lungo il sentiero che porta
in Clarea, sotto la cima dell'Ambin, dove il cantiere del Tav si sta
inghiottendo roccia e bosco. Perché Giacu non è solo leggenda quassù. Giacu
prende vita quasi tutte le notti. Da Susa come da Bussoleno, da Caprie come da
Sant'Ambrogio, i più combattivi della vallata salgono al cantiere dopo il
tramonto. Un modo per farsi sentire. Per tenere alta l'attenzione: «E' lì che
evochiamo Giacu. Qualcuno grida da nord, qualcun altro da sud», racconta Emilio
Scalzo, il pescivendolo della Val Susa. Al mercato non c'è un ambulante che non
lo saluti come un fratello. Siciliano, fronte larga, pelle di cuoio, mani come
badili, sguardo dritto. Lui sta con la gente, ma sta anche nel ventre della
montagna a lottare. Lui un confine netto fra guerra e pace non ce l'ha, né
vuole erigerlo: «Quando i poliziotti sentono chiamare Giacu, cercano di capire
quanti siamo e da dove veniamo. E noi ci spostiamo sempre e grattiamo con le
pietre sui cancelli. Facciamo rumore, serve a tenerli svegli, visto che il
governo ci ripete che quel cantiere lavora 24 ore su 24», ride amaro: «Questo è
Giacu. L'anima della montagna. Siamo noi. Io, prima dei No Tav, avevo
pregiudizi sui centri sociali e sui no global. Oggi dico che sono ragazzi
meravigliosi. Il No Tav ci ha aperto la mente. Ci ha fatti adulti».
LAUDATE SUSA
Capita pure di incrociare una Panda lanciata a bomba sulla Statale 25 del
Moncenisio. Al volante una signora bionda, sui cinquanta, che sorride sempre.
Si chiama Gabriella e, ogni santo giorno, si fa tutta la vallata per
raccogliere pellegrini. Già, pellegrini. Lei è cristiana, cattolica,
osservante. E quella via Francigena che passa per Susa è il suo cammino di
Santiago, fino al cantiere del Tav. Sono una quarantina di minuti, se non sei
un alpinista provetto. Li chiamano i "cattolici per la vita della valle"
e pregano là, dove giornali e tivù tante volte hanno mostrano violenza e
feriti, dove la montagna s'è piegata alle ruspe: «Iubilate deo, Alleluya»,
intona Gabriella. E gli altri dietro. A volte dieci. A volte cento. Tutti in
cerchio attorno alla statua di San Pio da Pietrelcina, proprio sotto i piloni
dell'autostrada. Prima avevano la loro colonna votiva. Poi se l'è inghiottita
il cantiere che avanza. «Preghiamo per la Val di Susa, ma anche per un mondo più giusto,
dove le persone siano rispettate, aiutate dal potere politico e non umiliate e
depredate».
I soldati di corvée a bordo del Lince, in questo piccolo Afghanistan in terra
di Barolo, hanno l'ordine di presidiare ogni angolo. Basta che un'ombra
s'allunghi lungo il costone del monte, che quelli si mettono in assetto.
Binocoli, radio, piantoni. Con i pellegrini, però, c'è imbarazzo. Alcuni
militari salutano con la mano, altri no: «Una volta ci siamo persi nei sentieri
durante uno scontro», racconta Angela: «Siamo finiti in bocca a un plotone.
Finché una donna poliziotto ci ha aiutati. Io l'ho abbracciata, nonostante
fosse della polizia. E ho pensato che Cristo, ogni tanto, manda anche a loro un
po' di umanità. C'è diffidenza, ma sono cristiani». La questione non è, però,
di fede. E' che Stato e cittadini, qui a Susa, hanno il divieto di parlarsi.
Poi, fuori, cambiano registro anche gli agenti: «Se ci mandano qui, noi che
possiamo farci? Lavoriamo tantissimo, senza un euro di straordinario. E
sembriamo noi i nemici». Nemici no, ma divisi da qualcosa di più del filo
spinato, quello sì. E sorvegliati da un occhio più attento delle telecamere a
circuito chiuso.
A pochi passi c'è il campo della memoria, un minuscolo cimitero di guerra che
ormai dista poco dalle fauci del mostro. Ancora qualche metro e appare un villaggio
neolitico. Grotte e antri come in un film. Rischia di essere inghiottito dalle
ruspe pure quello, ma chissenefrega nel Paese che lascia crollare Pompei. Per i
No Tav sarebbe l'ennesimo sfregio alla valle: «Sugli alberi ci avevamo
costruito le case di legno, per presidiare il cantiere. I poliziotti ce le
hanno abbattute. Resta qualche trave incastrata fra i rami. Ma fu un'esperienza
straordinaria. I vecchi mandavano i ragazzi in cima ai castani e insegnavano
loro a usare la motosega, a battere i chiodi, a legare gli steccati. Per
difendere la Val
di Susa c'è stato un passaggio di saperi, di tradizioni», racconta Federico.
Poi indica un castagno col tronco grosso come un pilone dell'A32. In tre non si
riesce ad abbracciarlo: «E' stato piantato 270 anni fa, prima della Rivoluzione
francese. Ce n'era un intero bosco, serviva per fermare le frane. Se noi
tagliamo un ramo secco finiamo nei guai con la Forestale, loro hanno
abbattuto centinaia di alberti secolari». E il problema si riproporrà a breve
proprio con quel castagno. La polizia teme che l'estate sarà calda anche per
questo. Ma loro ci sperano ancora. Fra sacro e profano: «Ci sono Cristo e Giacu
a proteggere la valle».
DONNE CONTRO
Se segui per Chianocco, dove avrebbe dovuto passare il Tav nel vecchio
progetto, sbatti su una baita coperta di edera. Dentro ci passano le giornate
tre pensionate. Si chiamano Ermanna Ronca, Lilia Biancodolino e Marina Martin.
Per riportare lavoro in valle, si sono comprate pecore e capre. Filano la lana
e hanno messo in piedi una scuola di cucito. Fanno maglie e coperte per
scaldare i No Tav durante i sit in. Da buone mamme, hanno aperto pure la scuola
di cucina e sfamato un milione di persone dal '91, quando ci fu la prima
manifestazione: «Facciamo migliaia di panini in pochissimo tempo, ormai, e ogni
euro finisce al movimento. Ognuno paga quanto può. Se hai un euro, costa un
euro, altri poi magari te ne lasciano 10 o 20». Ultima trovata è il corso di
Tai Chi. Non per moda, «l'arte cinese insegna a restare in piedi per ore senza
dolori», spiega Marina che ha cresciuto figli e nipoti a pane e No Tav.
A sei anni, i bimbi sono già in piazza. Quando a Susa è
passato il Giro d'Italia c'erano le scorte della polizia. I bambini le hanno
viste e hanno cominciato gridare: «No Tav, No Tav, No Tav!». Ai tempi degli
scontri di Venaus, invece, le strade furono chiuse e gli scolari obbligati a
mostrare i documenti per andare in classe. Così pure le vecchine in visita al
camposanto: «Dicono che siamo violenti, ma da noi non parte nemmeno un'oliva.
Ci ha viste? Invece una mia amica è stata calpestata, un'altra picchiata»,
sussurra Ermanna, che ha due protesi alle gambe, ma scala i monti quando c'è da
fare un presidio. Lilia, poi, ha lasciato il marito all'ospedale. «Doveva
operarsi di tumore, gli ho detto: "Amore, andrà tutto bene, ma io non ci
sarò. C'è il presidio No Tav. E noi non possiamo essere da un'altra
parte". Era d'accordo anche lui».
Un'altra volta, sotto la neve di dicembre, migliaia di persone si sono messe in
fila dal notaio. Volevano comprare un metro quadrato di terra. In Val Susa non
vale molto, ma per loro era l'affare della vita. Perché quel puzzle di
famiglie, omonimie, comproprietà poteva far saltare l'iter degli espropri. «Lo
Stato ha sempre strumenti per batterci», scuotono la testa. «Ma quel giorno
ognuno di noi aveva la coscienza di un pellerossa, con la tenda piantata sul
suo metro di terra, ad aspettare i sudisti pro Tav».
AIUTO, ETINOMIA
Non son tutti di Susa, però, i veri valsusini. Daniele Forte, per esempio, è un
ingegnere di 37 anni. Ha lasciato Torino per salire fin qui. S'è comprato una
baita a Rubiano e ci vive con la moglie. Non cercava silenzio, né fiordalisi o
scoiattoli: «Sono venuto qui perché c'era il movimento No Tav. Tanti da Torino
lo stanno facendo. In questa valle c'è un fenomeno unico in Italia, si sta
vivendo una rivoluzione». Una rivoluzione che, da due anni, ha un baricentro.
Si chiama Etinomia, da etica ed economia, è un'associazione come le antesignane
Habitat e Pro Natura negli anni Novanta. Daniele è il presidente e da mesi
riceve mail da mezza Europa. Gruppi, movimenti, associazioni che vogliono
importare il modello Susa. E poi si scrive con i giovani turchi di Istanbul,
che seguono da tempo i No Tav.
Chi pensa a Etinomia, insomma, come un'azienda, non ha
capito bene la musica. «Se cerchi un idraulico in Val Susa, chiami Etinomia. Se
ti serve un elettricista, telefoni a Etinomia», spiega Daniele. Qui tutto è No
Tav. Quando il barbiere Mario è finito ai domiciliari dopo gli ultimi scontri al
cantiere, Etinomia in poche ore ha messo in piedi una catena di solidarietà. E
nel negozio di Bussoleno si sono alternati i barbieri di tutta la valle, senza
pretendere un euro: «E' il superamento del concetto di concorrenza, si può dire
che noi siamo il "sì" dentro il "no" di questo movimento.
Se lo Stato pensa di fermare questo processo, possiamo dire che ha già perso».
Ogni giorno, Etinomia aiuta qualcuno. I ragazzi sfigurati dall'esplosione di un
ordigno bellico. Le famiglie dei bikers morti in strada. Le donne incinte che
perdono il lavoro. Un welfare alternativo allo Stato, che unisce migliaia di
valsusini. Dal riccone che ha ristrutturato "il fortino" romano,
offrendolo gratis per matrimoni, anniversari e feste comandate. Fino a chi deve
tirare sull'euro. Così, se di sera non sai che fare, niente discoteca. In Val
Susa c'è di sicuro un convegno di Etinomia. E là centinaia di persone che
sorridono. Più che sulla pista da ballo.