di Annalisa
Melandri
Il
2013 appena iniziato si profila un anno denso di appuntamenti elettorali per
l’America latina. Si
chiude invece il 2012, almeno per i venezuelani, con molta apprensione per le
condizioni di salute del presidente Hugo Chávez Frias, che l’11
dicembre scorso è stato sottoposto a Cuba ad un nuovo intervento chirurgico (il
quarto in un anno e mezzo) per rimuovere una lesione cancerosa al colon.
Il
decorso post’operatorio di quest’ultimo intervento appare notevolmente più
complicato dei precedenti per una serie di gravi complicazioni, tanto da far
circolare in queste ore alcune agenzie rispetto
ad un suo probabile
‘coma indotto’. Non è stato tuttavia sufficiente l’intervista
rilasciata il 1 gennaio scorso da l’Avana del vicepresidente Nicolás
Maduro appena dopo il suo incontro con Chávez, nella quale afferma di
averlo visto con una “forza
gigantesca” a tranquillizzare i venezuelani simpatizzanti del presidente.
Sicuramente
della gravità della sua situazione è al corrente lo stesso Chávez, tanto da
fargli dichiarare in una conferenza stampa tenuta qualche settimana prima
dell’intervento, che se fosse stato necessario, nel caso si “fosse
presentata qualche circostanza” che lo avesse inabilitato a continuare a
governare, i
venezuelani avrebbero dovuto scegliere come nuovo presidente (quindi in uno
scenario di nuove elezioni) proprio Nicolàs Maduro.
Il
10 gennaio prossimo, anche se appare poco probabile, Chávez
dovrebbe essere a Caracas per assumere formalmente il nuovo
mandato dopo le recentissime elezioni del 7 ottobre scorso. Se ci fosse
la necessità di indire nuove elezioni, il vicepresidente Maduro dovrebbe
assumere la presidenza pro tempore. A
questo punto si riaprirebbero i giochi elettorali in Venezuela che potrebbero
riservare al chavismo,
se non affronterà la situazione con la coesione e la maturità necessaria,
molte sorprese. L’opposizione ricandiderebbe infatti sicuramente
Henrique Capriles Radonski, probabilmente il migliore e il più onesto di tutti
quelli che hanno tentato di incrinare il consolidato potere di Hugo
Chávez.
In
un clima sicuramente più sereno sarà l’Ecuador invece il
primo dei paesi dell’America latina a
presentarsi all’appuntamento elettorale, previsto per il prossimo 17
febbraio. Proprio oggi inizierà la campagna elettorale ed il
presidente Rafael
Correa ha già ottenuto autorizzazione dall’Assemblea Nazionale per
poter cedere momentaneamente i poteri al vicepresidente Lenín
Moreno e dedicarsi ad essa con il suo partito Alianza
País.
L’ultimo
sondaggio della società Perfiles de Opinión, concluso il 21
dicembre scorso, lo
vede vincitore al primo turno con il 60,6 % delle intenzioni di
voto, seguito dall’ex banchiere ed imprenditore Guillermo Lasso (11,2%)
candidato del movimento di destra Creando
Oportunidades (CREO). Correa
deve inoltre affrontare gli sfidanti di sempre e cioè Lucio
Gutierrez(4,5%), ex militare ed ex presidente (2003–2005) destituito da
una ribellione popolare che si presenta con il centrista Partido
Sociedad Patriotíca, e
l’imprenditore bananiero Alvaro Noboa (1,8%), l’uomo più ricco del
paese che per la quinta volta si candida alla presidenza, adesso con il
neoliberista Partido
Renovador Institucional Acción Nacional (PRINA).
Sono
quattro gli altri candidati minori tra i quali Alberto
Acosta (3,5%), rappresentante della sinistra alternativa a quella
ufficialista, della quale almeno fino a poco tempo fa è stato parte integrante,
essendo uno dei principali ideologi della Revolución
Ciudadana, il progetto politico per il paese portato avanti da Rafael
Correa.
Correa,
al suo secondo mandato e governa fin dal 2006 si troverebbe così alla sua terza
rielezione, ma ha dalla sua la realizzazione di molti degli obiettivi
di governo soprattutto in tema di salute,
sovranità popolare e riduzione della povertà. Non è stato esente da
critiche soprattutto per i rapporti con i potenti mezzi di comunicazione
privati del paese, ma anche da parte di alcuni settori intransigenti di sinistra
e di associazioni indigene.
Il Paraguay esce
invece da un anno politico abbastanza turbolento, in gran parte dovuto
alle conseguenze
internazionali a seguito del colpo di Stato parlamentare con il quale
il Congresso, il 22 giugno scorso ha deposto nel giro di 24 ore, il
presidente Fernando
Lugo prendendo come scusa per il suo impeachment gravi
incidenti avvenuti un mese prima tra tra polizia e contadini. Assunse il
mandato in quell’occasione l’allora vicepresidente Federico
Franco.
Da
quel momento il
Paraguay venne espulso dagli organismi economici e politici
regionali quali l’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR) e il
Mercato Comune del Sud (MERCOSUR), sospensione confermata almeno fino alla
presa in carico del prossimo presidente. Le elezioni si terranno il 21 aprile
prossimo e verranno eletti il presidente e il vicepresidente, membri del
Congresso e governatori. Probabilmente
tra tutte le elezioni del 2013 in America latina, queste in Paraguay saranno le
più osservate visti gli avvenimenti di quest’anno e il malessere serpeggiante
tra la popolazione.
In
Paraguay fino alle ultime elezioni del 2008, vinte da Fernando Lugo alla testa
di un’ampia ed eterogenea coalizione di vari partiti tra i quali il Partido
Liberal Radical Auténtico (PLRA), la seconda forza politica del paese,
aveva dominato
egemonicamente per oltre 61 anni (anche durante i 35 anni della dittatura di
Alfredo Stroessner) la Asociación
Nacional Republicana – Partido
Colorado, di destra.
In
queste prossime elezioni tutto lascia immaginare che il conservatore Partido
Colorado tornerà al potere, il suo candidato infatti, l’imprenditore
Horacio Cartes ha il 22,3% delle intenzioni di voto, seguito dal candidato
del Partido
Liberal Efraín Alegre con il 18,5%. Le forze di sinistra che si
presentano divise, soltanto unendosi, potrebbero riuscire a diventare la terza
forza politica del paese. L’ex presidente Lugo
invece si è candidato come senatore con il Frente
Guasú (una delle due coalizioni progressiste). Ancora poco chiari i
programmi dei candidati presidenziali, per ora predomina la volontà
soprattutto da parte di Horacio Cartes, sul quale pesano tra l’altro pesanti
accuse di vincoli con il narcotraffico, da lui sempre smentite, di “riportare
al potere il partido Colorado” ma la prossima sfida sarà, indipendentemente
dal vincitore, quella di riuscire a riacquistare fiducia e credibilità con i
partner regionali dopo la crisi politica del giugno scorso.
Il
10 novembre l’Honduras torna
al voto dopo le discusse elezioni del novembre 2009 seguite al colpo di Stato di
qualche mese prima, organizzato dal Congresso e dalla Corte Suprema di Giustizia
e messo in atto dall’esercito, con il quale il presidente Manuel Zelaya fu
espulso dal paese.
L’attuale
presidente Porfirio Lobo, del Partido
Nacional, di destra, si è trovato in questi anni a governare in mezzo ad
una profonda crisi politica e sociale, seguita al colpo di Stato, del quale il
paese sta ancora subendo le conseguenze. L’impunità
ha caratterizzato l’atteggiamento del governo rispetto alle violazioni dei
diritti umani commesse sia nei giorni del golpe che successivamente. Inoltre
l’aumento vertiginoso del narcotraffico ha reso l’Honduras uno dei paesi più
violenti in Amarica latina e Tegucigalpa, la sua capitale, una delle
città più violente al mondo, con indici di omicidi per abitante anche superiori
alla già tristemente nota Ciudad Juárez in Messico.
Il Partido
Nacional si presenta con il candidato Juan
Hernández, l’attuale presidente del Congresso, il Partido
Liberal, l’altro attore dell’ormai secolare bipartitismo honduregno corre
con l’avvocato Mauricio
Villeda e la sinistra dopo il golpe è riuscita a riorganizzarsi intorno
a Xiomara
Castro, moglie dell’ex presidente Manuel Zelaya, nel Partido
Libre.
E’
ancora troppo presto per parlare di intenzioni di voto e di programmi
elettorali, le forze politiche hanno a che fare con un clima interno
attuale tutt’altro che sereno, con dispute anche con altri settori del potere,
come la magistratura, pesano
forti dubbi di infiltrazioni del narcotraffico sulla futura campagna
elettorale e la sinistra ha il duro compito di incrinare il modello
bipartitista sempre dominante nel paese.
Le
elezioni presidenziali in Cile avranno
luogo il 17 novembre. Due sono le novità per questo paese: per
la prima volta il voto non sarà obbligatorio e i candidati verranno
decisi da elezioni primarie da tenersi entro giugno. Sebastián
Piñera, dopo quattro anni di governo (2009–2013) della Coaliciòn
por el Cambio, una coalizione di partiti di destra con la quale nel 2009,
per la prima volta dopo due decenni risultarono sconfitte le forze di centro
sinistra riunite nella Concertacion
de Partidos por la Democracia (con il candidato Eduardo Frei Ruiz — Tagle),
lascia
un paese che ha raggiunto importanti tassi di crescita economica anche molto
superiori rispetto al resto dei paesi della regione. Il suo governo
tuttavia sta registrando indici di gradimento molto bassi (a settembre era del
32%), soprattutto durante le proteste studentesche, represse duramente, che si
sono susseguite tra il 2011 e il 2012.
I
precandidati per la Coalición
por el Cambio sono l’ingegnere Laurence
Golborne, ex ministro delle Miniere ed attualmente Ministro dei Lavori
Pubblici e Andrés
Allamand, ex ministro della Difesa e fondatore del partito
conservatore Renovación
Nacional come candidato del quale si presenta alle elezioni nella Coalición
por el Cambio.
A
sinistra si ipotizza un possibile ritorno al governo di Michelle
Bachelet, la quale sebbene non abbia confermato pubblicamente la sua
candidatura appare come favorita già al primo turno nelle intenzioni di voto,
con il 54%. Tutto lascia presagire quindi che con la Bachelet, che attualmente
ricopre la carica di Direttore Esecutivo di UN Women (l’agenzia dell’ONU per le
questioni di genere), la
coalizione di sinistra della Concertación possa
tornare al potere, il che confermerebbe anche la tendenza nella regione
al ritorno dei vecchi gruppi di potere al governo.
Sarà
comunque un anno di continuità nel quale l’ormai
avviato processo di integrazione regionale impostato da Néstor Kirchner in
Argentina e da Hugo Chávez in Venezuela si dimostra irreversibile anche
per le relazioni economiche e politiche tra quei paesi diversi per ideologia
dominante, come per esempio Colombia e Venezuela, notevolmente
migliorate.
Vale
la pena inoltre segnalare l’importante presenza femminile in questo panorama
politico; se ipoteticamente dovessero raggiungere la presidenza Michelle
Bachelet in Cile e Xiomara Castro in Honduras, insieme a Dilma Rousself attuale
presidente del Brasile, Cristina Fernández presidente dell’Argentina e Laura
Chinchilla Miranda presidente del Costa Rica darebbero all’ America
latina una notevole impronta ‘rosa’ e oltremodo progressista.
Annalisa Melandri
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