Il 16 novembre è trascorso il
ventottesimo anniversario della mattanza dei sei gesuiti
dell’Universidad Centroamericana di El Salvador, uccisi dai militari
dell’esercito salvadoregno nel 1989. Quella strage, purtroppo, non solo è
rimasta impunita, ma una recente sentenza della Corte costituzionale,
emessa poco meno di tre mesi fa, ha umiliato, ancora di più, la memoria
dei religiosi e il diritto alla verità e alla giustizia di un intero
paese.
Quel 16 novembre, i militari del regime che si era instaurato fin dal
1980 nel paese centroamericano, fecero irruzione all’interno
dell’ugeniversità uccidendo cinque sacerdoti spagnoli (Ignacio
Ellacuría, Segundo Montes, Armando López, Ignacio Martín Baró e Juan
Ramón Moreno), il salvadoregno Joaquín López e due domestiche che
lavoravano con i religiosi, Elba Julia Ramos e la figlia Celina. La
recente sentenza della Corte, invece, non solo ha fatto orecchie da
mercante di fronte all’ordine di cattura emesso nel gennaio 2016 dal
giudice spagnolo Eloy Velasco, ma ha addirittura accettato il ricorso
formulato dai legali degli alti vertici militari di allora per presunte
violazioni della libertà personale. Non solo, quindi, non sarà dato
adito all’estradizione dei responsabili della mattanza in Spagna, ma si
favorisce e si rafforza quel clima di impunità dilagante in El Salvador
nonostante alla guida del paese ci sia il Frente Farabundo Martí para la
Liberación Nacional.
Del resto non c’è da sorprendersi poiché l’allora presidente Alfredo
Cristiani, della destrissima Alianza Republicana Nacionalista (Arena),
il partito che ha creato gli squadroni della morte ed ha promosso e
incoraggiato la tortura verso gli oppositori politici, non ha mai
chiesto scusa per l’omicidio dei religiosi. È così che i responsabili
della morte dei gesuiti, tra i quali Juan Rafael Bustillo, Rafael
Humberto Larios, Juan Orlando Zepeda, Francisco Elena Fuentes, Carlos
Mauricio Guzmán, pur essendo dei veri e propri criminali di guerra,
paradossalmente possono sostenere che la “democrazia, la legalità,
l’etica e la giustizia hanno trionfato”. Arpas El Salvador (Asociación
de Radios comunitarios) ha scritto che la magistratura, ancora oggi, è
controllata dall’oligarchia e gode della copertura e del sostegno dei
principali mezzi di comunicazione del paese, mentre la sinistra, per
quanto al governo, non è mai andata aldilà di critiche che poi si
concludono finendo con l’accettare l’arroganza dei poteri forti.
Definito come uno dei casi più emblematici del conflitto salvadoregno
(il regime militare è stato al potere fino al 1992, ma anche dal
ritorno in “democrazia” Arena ha governato fino al 2009), il martirio
dei religiosi della Uca ha sempre rappresentato un ingombrante scheletro
nell’armadio per le forze che simpatizzavano con la dittatura, tanto
che la giustizia ha tutelato in tutte le sedi gli autori materiali e
intellettuali della mattanza. Secondo la Commissione per la verità di El Salvador, che nel suo rapporto intitolato “Dalla pazzia alla speranza”
ha indagato a fondo sul caso, è emersa la responsabilità dell’ex
ministro della Difesa René Emilio Ponce, morto alcuni fa, ma noto per la
sua offensiva lanciata, in qualità di colonnello, contro il Frente
Farabundo Martí para la Liberación Nacional, quando la guerriglia
sembrava vicina a conquistare la capitale San Salvador. Fu proprio Ponce
ad ordinare l’irruzione all’interno della Uca per uccidere Ignacio
Ellacuría ed a chiedere deliberatamente ai suoi sottoposti di fare una
strage affinché non restassero testimoni. Cristiani, in qualità di
presidente del paese, ha sempre coperto i militari coinvolti che,
insieme a Ponce, facevano parte dell’Asvem, l’associazione dei veterani
militari. Nel 1991 un gruppo di militari che avevano partecipato alla
mattanza fu processato, ma nel 1993 giunse una legge di amnistia votata a
grande maggioranza dal Parlamento salvadoregno che servì per
scagionarli da ogni accusa, mentre nel 2012, per la prima volta, il
paese negò l’estradizione dei militari verso la Spagna.
Andreu Oliva, rettore della Uca, ha evidenziato come nel paese vi sia
tuttora una politica volta a favorire e a proteggere sistematicamente i
militari responsabili delle violazioni dei diritti umani, come accadde
anche in occasione del massacro di El Mozote, avvenuto il 10 dicembre
1981, quando il battaglione dell’esercito Atlacatl, lo stesso che uccise
i gesuiti, sterminò gli abitanti di questo piccolo villaggio perché,
secondo loro, offrivano appoggio e sostegno ai guerriglieri del Frente
Farabundo Martí para la Liberación Nacional.
Oggi, a distanza di ventotto anni, gran parte degli assassini di
Ignacio Ellacuría sono ancora a piede libero e conducono tranquillamente
la loro esistenza in maniera nemmeno troppo nascosta.
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