Netanyahu e Trump la proclamano capitale indivisibile di
Israele. Ma Gerusalemme è spaccata in due: un ovest che si disinteressa totalmente dei
palestinesi e un est arabo che protesta e cerca di sopravvivere
Gerusalemme, 18.12.17 - Situato alle spalle della centrale via Giaffa
e di fronte agli uffici del ministero dell'interno che rilasciano i visti
di soggiorno, al negozio e studio fotografico della signora Lilia non
mancano i clienti.
«Qualche volta va bene, altre meno. Questo è il commercio»,
commenta la donna. Poco più avanti israeliani e turisti affollano i
caffè di tendenza. L'atmosfera è serena. È una giornata come le altre
nella zona ovest, ebraica, di Gerusalemme ma a poche centinaia di metri
la tensione è alta. Mai come in questi giorni Gerusalemme conferma di
essere una città divisa, spaccata in due, malgrado i proclami di unità sotto
la sovranità israeliana. Superando il Municipio già appaiono le mura
della città vecchia e Porta Nuova.
Comincia la zona est, araba, occupata nel 1967 dall'esercito
israeliano e annessa unilateralmente allo Stato ebraico. Gli abitanti
palestinesi da giorni protestano e manifestano - l'hanno anche ieri, per
ore, alla Porta di Damasco e in via Salah Edin - contro il riconoscimento di
Gerusalemme come capitale di Israele fatto dal presidente americano
Donald Trump, un altro atto unilaterale, contro le risoluzioni
internazionali. E l'Amministrazione Usa ha fatto sapere di considerare anche
il Muro del pianto, nella città vecchia, già parte di Israele. «Non
accetteremo alcun cambiamento sul confine di Gerusalemme est», ha
replicato Nabil Abu Rudeineh, il portavoce del presidente palestinese Abu Mazen.
Lilia ammette di non andare mai nella zona araba. Allora,
chiediamo, perché volete tenerla tutta questa città? «Mio padre diceva
che l'unica città dove avrebbe vissuto è Gerusalemme perché Gerusalemme
è del popolo ebraico. Aveva ragione», ci risponde. La storia,
replichiamo, però racconta di una città di eccezionale importanza anche per i
palestinesi, per gli arabi, per i cristiani e i musulmani nel mondo.
«Tutti hanno diritto di pregare a Gerusalemme, di visitarla, ma la città
è di Israele», insiste Lilia. Frasi simili a quelle che, in
questi giorni, pronuncia il premier Netanyahu. Su Gerusalemme gli
israeliani sono un po' tutti Netanyahu. Nazionalisti, religiosi, progressisti, di
ogni fede politica, ceto sociale e livello d'istruzione. Solo una
minoranza esigua vorrebbe la città capitale di Israele e Palestina.
D'altronde fu l'establishment laburista, fondatore del Paese
che, appena occupata ai primi di giugno del 1967, dichiarò la zona araba
annessa a Israele. «Questa mattina l'Idf (le forze armate) ha liberato
Gerusalemme.
Abbiamo riunito la Gerusalemme divisa, la capitale di
Israele che era stata divisa in due. Abbiamo fatto ritorno ai nostri luoghi più
sacri e siamo tornati per non abbandonarli mai più», proclamò il ministro
della difesa Moshe Dayan già il 10 giugno dopo essere entrato nella città
vecchia.
Intento a sorseggiare il suo afuk, il cappuccino in versione
locale, Motti, un impiegato, non si scompone quando gli domandiamo la sua
opinione sulle proteste palestinesi. «Strilleranno un po' come fanno
sempre, poi la smetteranno e finirà tutto questo clamore. Gerusalemme è di
Israele, devono rassegnarsi», ci dice. Il suo collega, Shlomi è più
ruvido: «se agli arabi non piace l'autorità di Israele allora posso
andare via dalla città, nessuno li trattiene». Al caffé Hillel dove Shlomi ci
illustra la sua "soluzione" non giungono i boati delle granate
assordanti che la polizia lancia in questi giorni per disperdere i
manifestanti palestinesi che si radunano alla Porta di Damasco, l'ingresso principale
della città vecchia.
A Gerusalemme ovest si vive un'altra vita rispetto alla zona
est dove gli israeliani non vanno mai. Chi va al Muro del Pianto lo fa
attraverso la Porta di Giaffa, lungo una strada che costeggia ma non entra
nel mercato palestinese. All'interno di quella che Israele proclama la
sua capitale unita e indivisibile, le vite di israeliani e palestinesi
non si incontrano quasi mai. E quando avviene è quasi sempre per motivi di
lavoro - i palestinesi occupati nel settore ebraico - o perché ci si
ritrova negli stessi uffici pubblici. Non c'è coesistenza nella
Gerusalemme della dichiarazione di Donald Trump ma indifferenza degli uni
verso gli altri.
Gli israeliani controllano la città ma i palestinesi non
smettono di considerarli gli occupanti.
E l'occupante impone la sua legge. Musa, ci chiede di non
pubblicare il suo cognome, è un manovale e vive nel sobborgo palestinese di
Jabal al Mukaber. Da quando Trump ha riconosciuto Gerusalemme
capitale di Israele è molto preoccupato. Teme che il comune si senta autorizzato,
più di prima, a demolire le abitazioni che i palestinesi costruiscono
senza il permesso edilizio. «Per anni gli israeliani hanno sempre respinto la
mia richiesta ma ho cinque figli che stanno diventando grandi e ho deciso
di costruire per loro una casa», ci spiega.
Il comune parla di lotta «all'abusivismo edilizio» ma dalla
finestra della casa di Musa si scorgono palazzine e villette di
Armona HaNetsiv, una delle colonie ebraiche che Israele ha edificato in
violazione delle leggi internazionali nella zona est di Gerusalemme. «Se mi
porteranno l'ordine di demolizione sarò costretto ad abbattere la casa con le
mie mani, per evitare di pagare una multa salata. Non ho quei soldi», ci
dice Musa. Il comune infatti presenta agli "abusivi" il conto
delle spese della demolizione, tra 15 e 20mila dollari. Quest'anno già 22
famiglie palestinesi hanno distrutto le loro case. Lo scorso anno
sono state 28.
L'articolo 53 della IV Convenzione di Ginevra IV probisce
all'occupante la distruzione delle case e delle proprietà dell'occupato, se
non per operazioni militari assolutamente necessarie. Ma Trump della
Convenzione di Ginevra forse non ha mai sentito parlare...
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