Passaggio di potere, ma anche di morti e feriti
Un morto, Juan Francisco Quinquedal, di 67 anni, circa un centinaio di persone arrestate, oltre cento feriti, sette ore di guerriglia urbana. Così è avvenuto a Città del Messico l’insediamento del nuovo presidente Enrique Peña Nieto.
Tra i feriti alcuni molto gravi. Juan Francisco Quinquendal, maestro di teatro, militante ed attivista, ha avuto il cranio squartato da un ordigno esplosivo.
Questa nella foto è una delle granate, in dotazione all’esercito, che lanciava la Polizia Federale tra i manifestanti ieri, insieme a proiettili di gomma, il cui uso indiscriminato, come quello dei lacrimogeni, direttamente sul corpo delle persone è condannato da tutti gli organismi internazionali di difesa dei diritti umani.
Un ragazzo di 25 anni, Carlos Yahir Valdivia, dato in un primo momento per morto e poi smentita la notizia, ha rischiato di perdere un occhio. Si trova in gravissime condizioni.
Ci sono stati alcuni episodi guerriglia urbana con negozi e banche assaltati, auto incendiate, furti e rapine. Come ha twitteato il giornalista messicano Epigmenio Ibarra “ Hanno manifestato, hanno votato, tutto è stato inutile. Si sono stancati. Si sono radicalizzati. Sono passati all’azione diretta. Questo non giustifica la violenza ma la spiega”.
Appare chiaro ed evidente solo a chi non vuol vedere, in Messico (e non solo) il fallimento della “democrazia rappresentativa”, che vedremo in futuro via via assumere toni più drammatici in tutto il mondo con l’aumentare della crisi, che va di pari passo con il diminuire per i giovani delle possibilità di un futuro dignitoso.
Resta la violenza? Sicuramente no, ma è una componente innegabile della rabbia… Non è violenza fine a se stessa come vogliono far credere i giornali. E’ rabbia di massa che esprime indignazione, miseria, opportunità negate, rifiuto di un governo corrotto e criminale che protegge se stesso con l’impunità.
Alla rabbia si contrappone la prepotenza e l’alterigia di un sistema, quello della “democrazia rappresentativa” che somiglia sempre di più una monarchia ereditaria. Ci sarebbe da domandarsi, se in Messico veramente era il caso, in una giornata come quella di ieri, dove era prevedibile ed erano previsti scontri e dove il conflitto sociale sta alzando i toni in maniera vertiginosa contro un sistema che riproduce se stesso ogni volta allontanandosi sempre di più dal popolo, portare avanti, come ad ogni cambio di governo, la farsa del “cambio di potere” , o dell’”assunzione di potere” o dell”insediamento”. Parole queste, che veramente rendono bene l’immagine di un potere che si insedia, che si trasferisce , che passa di mano in mano, che cambia senza cambiare nulla, che si assume, nel senso che assume se stesso, senza che la base del popolo senta veramente di averlo concesso. Un potere che, come in una “monarchia”, passa intatto da sovrano a sovrano e che in questo passaggio trova la sua conferma e la sua legittimazione.
Quella di ieri, la cerimonia ufficiale in cui il sovrano Felipe Calderón passa la bandiera messicana come se fosse uno scettro al suo successore Peña Nieto poteva e doveva essere evitata, se almeno la “monarchia” della quale stiamo parlando fosse stata una monarchia illuminata dal buon senso. Di fatto Calderón ha passato al suo successore Peña Nieto una bandiera piena di sangue e di dolore, quella delle oltre 60mila vittime che hanno caratterizzato il “sextenio lutuoso”, il sessennio luttuoso, come i messicani definiscono i suoi sei anni di governo.
A questo sangue, Peña Nieto aggiunge nel suo primo giorno, quello di Juan Francisco Quinquendal, che sicuramente giovane non era, ma che con i giovani, con quelli del movimento YoSoy132, con quelli dei simpatizzanti della Otra Campaña, con quelli di Atenco, perchè di Atenco era anche lui, condivideva sogni, speranze ed ideali. E tuttavia come dimenticare oggi Alexis Benhumea e Javier Cortès di soli 14 anni, gli altri morti di Peña Nieto, quelli di Atenco nel 2006, quando lui era governatore dello Stato del Messico e la polizia si macchiò di crimini orrendi nella repressione di quel movimento cittadino in lotta contro la costruzione del nuovo aeroporto internazionale sulle loro terre: violenza sessuale contro le donne arrestate, torture contro i detenuti, uso indiscriminato della forza contro i manifestanti, morti e feriti.
Proprio in questo momento , il movimento YoSoy132 emette un comunicato in cui diffonde la notizia che Juan Francisco Quinquendal non è morto, ma è mantenuto in coma farmacologico, le sue condizioni tuttavia restano gravissime.
Questo non toglie responsabilità alle autorità messicane che ieri hanno agito con metodi purtroppo tristemente noti, che riportano ad un passato neanche troppo lontano. Il potere si sente minacciato e al sentirsi minacciato risponde con la sua solita arroganza. Non solo in Messico i tempi che verranno non lasciano presagire nulla di buono. Forse la crisi economica rappresenterà un’occasione per smantellare le strutture obsolete e anacronistiche della cosiddetta “democrazia rappresentativa”, forse il momento concederà l’occasione per spostare l’ago della bilancia veramente verso “las mayorias”, che reclamano oltre che diritti, soprattutto maggior partecipazione politica. Questa parola in spagnolo, meglio che la sua traduzione italiana in “maggioranza/e” rende il concetto: la maggioranza è quella che ha eletto Peña Nieto, “las mayorias” sono quelli che ieri lo rifiutavano per strada, dopo aver votato, dopo aver assistito al gioco elettorale di compravendita dei voti, per una lavatrice nuova o una spesa al supermercato. Le elezioni in Messico, ma come accade anche nei grandi Stati Uniti o nella piccola Repubblica Dominicana le vince chi ha più soldi perché questi rappresentano oggi il vero potere. C’è chi si vende per un cellulare o per una lavatrice, c’è chi crede al suo voto e lo difende nelle urne sapendo che sarà inutile, c’è chi cova e nasconde la rabbia che prima o poi viene fuori. Una grande crepa, forse, per dirla alla John Holloway, si sta aprendo in Messico, nella struttura di potere. Ancora indefinita, ancora incerta sui suoi passi, indecisa e contraddittoria, ma una crepa e queste si sa, vanno solo in avanti.
Tra i feriti alcuni molto gravi. Juan Francisco Quinquendal, maestro di teatro, militante ed attivista, ha avuto il cranio squartato da un ordigno esplosivo.
Questa nella foto è una delle granate, in dotazione all’esercito, che lanciava la Polizia Federale tra i manifestanti ieri, insieme a proiettili di gomma, il cui uso indiscriminato, come quello dei lacrimogeni, direttamente sul corpo delle persone è condannato da tutti gli organismi internazionali di difesa dei diritti umani.
Un ragazzo di 25 anni, Carlos Yahir Valdivia, dato in un primo momento per morto e poi smentita la notizia, ha rischiato di perdere un occhio. Si trova in gravissime condizioni.
Ci sono stati alcuni episodi guerriglia urbana con negozi e banche assaltati, auto incendiate, furti e rapine. Come ha twitteato il giornalista messicano Epigmenio Ibarra “ Hanno manifestato, hanno votato, tutto è stato inutile. Si sono stancati. Si sono radicalizzati. Sono passati all’azione diretta. Questo non giustifica la violenza ma la spiega”.
Appare chiaro ed evidente solo a chi non vuol vedere, in Messico (e non solo) il fallimento della “democrazia rappresentativa”, che vedremo in futuro via via assumere toni più drammatici in tutto il mondo con l’aumentare della crisi, che va di pari passo con il diminuire per i giovani delle possibilità di un futuro dignitoso.
Resta la violenza? Sicuramente no, ma è una componente innegabile della rabbia… Non è violenza fine a se stessa come vogliono far credere i giornali. E’ rabbia di massa che esprime indignazione, miseria, opportunità negate, rifiuto di un governo corrotto e criminale che protegge se stesso con l’impunità.
Alla rabbia si contrappone la prepotenza e l’alterigia di un sistema, quello della “democrazia rappresentativa” che somiglia sempre di più una monarchia ereditaria. Ci sarebbe da domandarsi, se in Messico veramente era il caso, in una giornata come quella di ieri, dove era prevedibile ed erano previsti scontri e dove il conflitto sociale sta alzando i toni in maniera vertiginosa contro un sistema che riproduce se stesso ogni volta allontanandosi sempre di più dal popolo, portare avanti, come ad ogni cambio di governo, la farsa del “cambio di potere” , o dell’”assunzione di potere” o dell”insediamento”. Parole queste, che veramente rendono bene l’immagine di un potere che si insedia, che si trasferisce , che passa di mano in mano, che cambia senza cambiare nulla, che si assume, nel senso che assume se stesso, senza che la base del popolo senta veramente di averlo concesso. Un potere che, come in una “monarchia”, passa intatto da sovrano a sovrano e che in questo passaggio trova la sua conferma e la sua legittimazione.
Quella di ieri, la cerimonia ufficiale in cui il sovrano Felipe Calderón passa la bandiera messicana come se fosse uno scettro al suo successore Peña Nieto poteva e doveva essere evitata, se almeno la “monarchia” della quale stiamo parlando fosse stata una monarchia illuminata dal buon senso. Di fatto Calderón ha passato al suo successore Peña Nieto una bandiera piena di sangue e di dolore, quella delle oltre 60mila vittime che hanno caratterizzato il “sextenio lutuoso”, il sessennio luttuoso, come i messicani definiscono i suoi sei anni di governo.
A questo sangue, Peña Nieto aggiunge nel suo primo giorno, quello di Juan Francisco Quinquendal, che sicuramente giovane non era, ma che con i giovani, con quelli del movimento YoSoy132, con quelli dei simpatizzanti della Otra Campaña, con quelli di Atenco, perchè di Atenco era anche lui, condivideva sogni, speranze ed ideali. E tuttavia come dimenticare oggi Alexis Benhumea e Javier Cortès di soli 14 anni, gli altri morti di Peña Nieto, quelli di Atenco nel 2006, quando lui era governatore dello Stato del Messico e la polizia si macchiò di crimini orrendi nella repressione di quel movimento cittadino in lotta contro la costruzione del nuovo aeroporto internazionale sulle loro terre: violenza sessuale contro le donne arrestate, torture contro i detenuti, uso indiscriminato della forza contro i manifestanti, morti e feriti.
Proprio in questo momento , il movimento YoSoy132 emette un comunicato in cui diffonde la notizia che Juan Francisco Quinquendal non è morto, ma è mantenuto in coma farmacologico, le sue condizioni tuttavia restano gravissime.
Questo non toglie responsabilità alle autorità messicane che ieri hanno agito con metodi purtroppo tristemente noti, che riportano ad un passato neanche troppo lontano. Il potere si sente minacciato e al sentirsi minacciato risponde con la sua solita arroganza. Non solo in Messico i tempi che verranno non lasciano presagire nulla di buono. Forse la crisi economica rappresenterà un’occasione per smantellare le strutture obsolete e anacronistiche della cosiddetta “democrazia rappresentativa”, forse il momento concederà l’occasione per spostare l’ago della bilancia veramente verso “las mayorias”, che reclamano oltre che diritti, soprattutto maggior partecipazione politica. Questa parola in spagnolo, meglio che la sua traduzione italiana in “maggioranza/e” rende il concetto: la maggioranza è quella che ha eletto Peña Nieto, “las mayorias” sono quelli che ieri lo rifiutavano per strada, dopo aver votato, dopo aver assistito al gioco elettorale di compravendita dei voti, per una lavatrice nuova o una spesa al supermercato. Le elezioni in Messico, ma come accade anche nei grandi Stati Uniti o nella piccola Repubblica Dominicana le vince chi ha più soldi perché questi rappresentano oggi il vero potere. C’è chi si vende per un cellulare o per una lavatrice, c’è chi crede al suo voto e lo difende nelle urne sapendo che sarà inutile, c’è chi cova e nasconde la rabbia che prima o poi viene fuori. Una grande crepa, forse, per dirla alla John Holloway, si sta aprendo in Messico, nella struttura di potere. Ancora indefinita, ancora incerta sui suoi passi, indecisa e contraddittoria, ma una crepa e queste si sa, vanno solo in avanti.
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