Questa visione è confermata dalle riduzioni di budget per alcuni
ministeri tra cui: Sviluppo economico, con una riduzione di più del 30%
delle risorse (da 13,9 miliardi nel 2013 a 10 miliardi nel 2015);
Istruzione che nel 2015 perde circa 700 milioni di euro, o il ministero
della Salute (100 milioni di euro in meno nel 2015). Invece, il
ministero della Difesa aumenta le risorse a disposizione, e come
affermato nella nota integrativa del bilancio, con questo provvedimento
il governo compirebbe i primi passi verso le parole chiave del futuro
della difesa ovvero ammodernamento, riduzione degli organici e maggiori
investimenti, ma in realtà nella freddezza dei prospetti contabili si
nota il mantenimento delle scelte di spesa tradizionali.
I tagli della Spending Review non risultano dalla Legge di Bilancio
quanto dal Decreto di Stabilità in discussione in cui debbono essere
specificati. La Legge del Bilancio di previsione, nel complesso delle
spese di competenza per ogni singolo ministero, mostra come nel triennio
2013-2015 la tendenza sia quella di mantenere il rigore generale per
contenere la spesa pubblica.
In tre anni, il ministero della Difesa aumenta del 5,3% le proprie
risorse, pari a più di un miliardo di euro. L’aumento è superiore ai
tagli previsti dalla Spending Review per il ministero: 236,1 milioni nel
2013, 176,4 milioni nel 2014 e 269,5 milioni di euro nel 2015.
Con l’avvio dell’iter parlamentare del Bilancio di Previsione dello
Stato per l’anno finanziario 2013 e del bilancio pluriennale per il
triennio 2013-2015, il governo Monti mostra la sua visione del ruolo
dello stato e della spesa dei ministeri per i prossimi tre anni. In un
contesto di riduzione della spesa pubblica e dei servizi ai cittadini,
sanciti da tagli sia ai ministeri, sia agli enti locali, sia da
provvedimenti come la Spendine Review e manovre di stabilità che si sono
concretizzate in tagli lineari nello stile del ministro Tremonti,
risalta il ministero della Difesa che riesce a mettere a bilancio un
aumento del proprio budget nel prossimo triennio. Il bilancio del
ministero passa infatti dai 19.962 milioni dell’esercizio 2012 a 20.935
di euro nel 2013, fino a 21.024 milioni di euro nel 2015.
Nei mesi scorsi il ministro della Difesa e ammiraglio della Marina,
Giampaolo Di Paola, ha rivendicato le scelte del governo italiano di
investimento nella difesa come una particolare forma di “keynesismo
militare”. Spendere nei prossimi anni 14 miliardi di euro per 90
cacciabombardieri F35 e oltre 200 miliardi per la nuova riforma delle
Forze armate, così come disegnata dal disegno di legge governativo
presentato nella scorsa primavera, farebbe ripartire l’economia, darebbe
nuove opportunità alle imprese, creerebbe nuovi posti di lavoro.
Di Paola non è un “liberal”, né – probabilmente – un attento lettore
di Stiglitz e Krugman, né tanto meno di Keynes, che nei libri delle
accademie militari è difficile trovare citato. È semplicemente il
difensore degli interessi spiccioli di una corporazione – forse si può
definire “casta” – quella dei militari. Una corporazione che in questi
anni, nonostante la crisi, è stata a malapena sfiorata dai tagli alla
spesa pubblica.
Non siamo in guerra (almeno che qualcuno non la auspichi sperando
così di ritirare su le sorti dell’economia) e quindi non c’è da chiamare
in causa il “keynesismo militare”: quello che è successo 70 anni fa è
fortunatamente irripetibile e molte ricerche recenti dimostrano che
mediamente l’investimento nel militare ha un impatto inferiore rispetto
all’investimento del settore civile. L’Università del Massachussetts ha
stimato che con un miliardo di dollari di investimenti si creano nel
settore della difesa 11mila posti di lavoro, ma ben 17mila nel settore
delle energie rinnovabili e 29mila nel settore dell’istruzione.
Di Paola e altri generali hanno detto che la produzione degli F35
porterà circa 10mila posti di lavoro nuovi: una colossale balla, visto
che a regime non saranno più di 7-800. I benefici ce l’hanno invece gli
affaristi e i faccendieri di Finmeccanica e delle lobby a questa
collegate. Monti ha scelto di non applicare il rigore ai militari, ma
solo ai lavoratori, ai pensionati, agli insegnanti, ai precari. Anche
nelle politiche di rigore non c’è stata equità. Si è evitato di toccare
gli interessi di una corporazione così forte e la Spending Review ha
solo ritoccato una spesa tanto alta che, nel frattempo, si è
“rimodulata” (per usare l’espressione di Di Paola) verso gli
investimenti nei sistemi
d’arma. In sostanza, i soldi risparmiati dalle mancate riassunzioni
del personale in uscita sono stati destinati ai carri armati e ai caccia
bombardieri.
Si spende troppo per le Forze armate in Italia: troppi sprechi,
troppe spese inutili, troppi soldi per le armi, troppi privilegi per una
casta che in questi anni ha saputo ben difendere i propri interessi
corporativi e rinviare quella necessaria riforma della Difesa che manca
da troppo tempo. Doveva essere la crisi economica a scoperchiare la
pentola.
Il ministro della Difesa Di Paola ha ammesso in qualche modo la
necessità di una riduzione di alcuni costi della difesa (in particolare
del personale: si è parlato di una riduzione programmata di 30mila unità
in 10 anni) in modo tale da avere più soldi da investire
nell’efficienza (cioè armi) delle Forze armate. In realtà, bisognerebbe
ridurre almeno il doppio di quanto previsto da Di Paola. Le nostre Forze
armate potrebbero benissimo fare a meno di 60mila ufficiali e soldati,
senza venir meno agli obblighi costituzionali (la “difesa della patria”)
e agli impegni internazionali nelle missioni “di pace” (tra cui quella
“di guerra” dell’Afghanistan). Mai come in questo momento bisognerebbe
“svuotare gli arsenali e riempire i granai”. Purtroppo il nostro governo
sta facendo l’opposto. E pochi si rendono conto, e quasi nessuno ne
parla, che mentre vengono salvaguardati gli interessi e i privilegi
della casta militare, i fondi per il Servizio Civile sono passati in
pochi anni da 300 a 71 milioni: decine di migliaia di ragazzi non
potranno svolgere un servizio che, utile alla comunità, ci fa
risparmiare un sacco di soldi per tutti quei servizi sociali che vengono
erogati grazie alla loro presenza.
Dalla crisi si esce con un nuovo modello di sviluppo di cui fa
integralmente parte la riconversione civile dell’economia militare.
Disarmare l’economia, renderla ecologicamente sostenibile e
redistribuirne in modo più equo la ricchezza sono tre elementi di un
paradigma e di un modello di sviluppo radicalmente diversi da quelli del
passato. Quante volte, durante le riunioni dei Forum sociali mondiali
ed europei, si è affermato che neoliberismo e guerra sono due facce
della stessa medaglia. Ecco perché disarmare l’economia è un modo per
contribuire a rendere più equo e sostenibile il nostro modello di
sviluppo.
Il cosa produrre e il cosa consumare per un nuovo modello di sviluppo
impone di archiviare definitivamente un’idea di modello
militare-industriale che è nello stesso tempo fonte di sofferenze umane,
spreco di risorse e produttore di quelle “esternalità negative”
(distruzioni, devastazioni, inquinamento) che comportano poi dei costi
di soccorso e di ricostruzione immani. Serve a tal fine un grande
disegno di riconversione industriale (fatto di risorse, ma soprattutto
di volontà politica e di programmazione degli interventi) dalle
produzioni militari a quelle civili che creano più posti di lavoro,
soddisfano bisogni essenziali per le popolazioni, non determinano costi
diretti o indiretti per la comunità.
In questo contesto disarmare l’economia e riconvertirla a fini
ecologici e sociali non è semplicemente lavoro di pacifisti e
antimilitaristi, ma obiettivo più generale di chi lavora per il
cambiamento, per un modello di sviluppo diverso, per stili di vita
nuovi, per la cooperazione e la solidarietà. Cambiare produzioni e
consumi dentro la cornice di un nuovo modello di sviluppo e di
riconversione industriale significa ad esempio chiedere alle industrie
di cacciabombardieri di produrre aerei per spegnere gli incendi; o a
quelle che fanno radar e sistemi di puntamento di produrre i macchinari
per fare le Tac; o a quelle che fanno camion militari di fare pullman
per il trasporto pubblico; o a quelle che producono sistemi di
precisione o apparecchiature elettroniche per i sistemi d’arma di fare i
pannelli fotovoltaici; o a quelle che fanno gli elicotteri da
combattimento di farne invece di quelli (senza mitragliatrici) che
servono per l’elisoccorso. Gli esempi si sprecano.
Certo, per fare tutto questo servono risorse, direttrici di politica
industriale, investimenti e incentivi: ma questi non mancherebbero se
le scelte di politica economica e di destinazione della spesa pubblica
fossero diverse. In sostanza bisogna spostare risorse, interventi,
sostegno dal militare al civile. Si tratta, di fronte a questa crisi, di
scelte non più rinviabili.
Le spese militari nel Bilancio 2013
Il modello da seguire per il governo è esplicitato nella nota
aggiuntiva 2012 del ministero della Difesa, in cui il ministro indica la
criticità del peso eccessivo delle spese di personale sul totale del
budget, mentre il modello da seguire dovrebbe consistere in una
ripartizione delle spese con 50% personale, 25% operatività e 25%
investimenti. La lettura delle tabelle della Legge di Bilancio
dell’annesso del ministero della Difesa non va in questa direzione, anzi
mostra la stabilità dell’attuale ripartizione dei costi, concentrata
per oltre il 70% sul personale fino al 2015.
Per quanto riguarda gli investimenti, anch’essi in crescita, in un
quadro in cui tutti i ministeri sono stati costretti a ridurre la spesa
per investimenti, rimangono le perplessità avanzate da molti
sull’opportunità di alcune scelte strategiche, come gli F35, che sempre
più costose “ingessano” il bilancio per diversi anni. Proprio il caso
degli F35 è emblematico della visione “conservatrice” del ministero che
difende scelte fatte in passato anche nella prospettiva di migliorare
l’efficienza delle risorse a disposizione.
La spesa militare destinata ai lavoratori del ministero, civili e
militari, oltre al complesso militare nazionale, che ricade quasi per
intero nel perimetro di un singolo gruppo imprenditoriale, è l’asse su
cui il governo punta per aumentare la domanda interna, evitando lo
stesso rigore riservato agli enti locali e a servizi pubblici strategici
come scuola e sanità. Il modello di difesa, aldilà dei limiti della
Legge di Bilancio, prevede da oggi al 2024 la riduzione degli organici
dell’esercito di 40mila unità (da 190mila a 150mila soldati, anche se
oggi il numero complessivo dell’esercito non supera le 183mila unità) e
la riduzione del personale civile a 20mila unità, dalle quasi 30mila in
servizio oggi. La visione del ministero consiste nel risparmiare risorse
di personale per raggiungere un modello di spesa meno orientato alla
manodopera e più agli investimenti.
Il raggiungimento degli obiettivi di riduzione degli organici prevede
una serie di salvaguardie per il personale in esubero, che in molti
casi transiterebbe nelle altre amministrazioni dello stato con problemi
di competenze e con un aumento della spesa pubblica. Inoltre, nella
Legge di Bilancio ritorna il tema della presenza militare italiana
all’estero, voce peraltro fuori dai capitoli di spesa del ministero
della Difesa. Il governo Monti nei primi mesi di mandato ha subito
rivisto al ribasso il costo dell’impegno militare italiano all’estero
portando l’onere a circa 750 milioni di euro annui.
Il ritiro dall’Iraq, assieme alla cancellazione di alcune missioni
minori, ha ridotto l’impegno italiano a circa 6600 unità (oltre 2ooo in
meno rispetto al 2007). Per il futuro lo stesso governo Monti impegna
per il 2013 oltre un miliardo di euro per le missioni militari
all’estero, lanciando un segnale preoccupante per quanto riguarda sia
gli oneri, sia le scelte di politica estera e di ricorso allo strumento
militare già per il 2013. Come per il budget del ministero, si nota
anche per le missioni una forza immanente del mantenimento della spesa,
che seppure abbia conosciuto qualche battuta d’arresto nei momenti più
critici della gestione del governo, ha già ripreso quota in prospettiva,
con modelli di costi tradizionali e non certo nella visione
dell’ammodernamento e della riduzione degli organici. Il miliardo in più
di spesa pubblica destinato alle spese militari se dirottato su altri
obiettivi come istruzione, ricerca e sviluppo economico mostrerebbe un
maggiore impatto nel contrastare il declino economico del paese.
Proprio il mantenimento del programma F35, decantato per le ricadute
sul territorio, mostra come, a fronte di investimenti miliardari, lo
sviluppo locale ottenga solo benefici marginali, mentre l’investimento
delle stesse risorse in settori civili, come gli asili nido, non solo
genererebbe una maggiore quantità di occupazione diretta ma
migliorerebbe la qualità del mercato del lavoro grazie ai benefici che
si concentrerebbero nel meridione e per le categorie più colpite dalla
crisi: le giovani donne.
Il Servizio Civile
Quando nel novembre 2011 fu costituito il governo Monti, una delle
sorprese più intriganti e portatrici di aspettative fu la costituzione
del ministero Cooperazione Internazionale e Integrazione, affidato ad
Andrea Riccardi.
Sembrava giunto il momento di collocare il Servizio Civile Nazionale
nel suo alveo storico della promozione della pace in modo nonviolento,
collegato in modo forte sul piano politico e progettuale alla
cooperazione internazionale e sul versante interno ai temi
dell’integrazione, della cittadinanza. In tal modo, la valenza educativa
e formativa rivolta ai giovani sarebbe stata valorizzata a vantaggio di
tutto il Paese.
Un anno dopo, le ombre dominano sulle luci. Dopo una fugace
apparizione pubblica a marzo 2012, in materia di Servizio Civile
Nazionale è calato il silenzio nell’agenda politica di Riccardi. La
politica è ritornata alla ribalta alla fine di luglio quando con l’art.
10 della legge del 7 agosto 2012, n.135 sono stati soppressi molti
organi collegiali compresi nell’articolo 68, comma 2, del decreto legge
del 25 giugno 2008, n.112, convertito, con modificazioni, dalla legge
del 6 agosto 2008, n.133. In quell’elenco è compresa anche la Consulta
Nazionale del Servizio Civile, organo previsto fin dalla legge dell’8
luglio 1998, n.230 “Nuove norme in materia di obiezione di coscienza al
servizio militare” e confermato dalla legislazione in materia di
Servizio Civile Nazionale.
Nella Consulta Nazionale, composta da 15 membri, sono presenti tutti
gli attori che permettono all’Amministrazione statale di operare: le
Regioni e Province Autonome, le Amministrazioni centrali dello Stato
(nel caso specifico il Dipartimento di Protezione Civile), i cosiddetti
enti accreditati, dall’Anci alla Cnesc, alle principali organizzazioni
del terzo settore, quattro rappresentanti dei giovani in Servizio Civile
Nazionale. I costi di questo organismo sono stati nel 2010 pari a
861,20 euro (3 sedute) e nel 2011 a 2.458,01 euro (3 sedute).
A tutt’oggi, nonostante le rassicurazioni fornite, è decaduta la
Consulta e il sistema del Scn è privo di un organo che permetta la
partecipazione dei vari soggetti alla programmazione e regolazione del
Scn.
Tutta la vicenda si iscrive nel nodo più ampio di disconoscimento del
governo Monti dell’ interlocuzione con la società civile organizzata
democraticamente e, vera beffa, con i giovani che stavano realizzando
dal 2008 un interessante percorso di partecipazione ed esercizio di
rappresentanza. Sul piano economico, dopo la batosta dei tagli
effettuati a ottobre 2011 con la Legge di Stabilità 2012-2014
Berlusconi- Tremonti (riduzione di 44.183,00 milioni di euro sui
112.985,00 previsti per il 2012) che produssero il blocco del Servizio
Civile Nazionale e lo slittamento di molti mesi nell’avvio dei progetti
di Scn, con danni ai cittadini, il ministro Riccardi è riuscito nel 2012
a reperire 50.000,00 milioni di euro straordinari. I fondi provengono
per 20.000,00 milioni dai tagli alla programmazione dell’ex Dipartimento
Gioventù, e per 30.000,00 milioni di euro dalla legge del 7 agosto
2012, n.131. A queste risorse si aggiungono 3.000,00 milioni, tratte
sempre dall’ex Dipartimento Gioventù, per finanziare due bandi
straordinari, uno per le popolazioni colpite dal sisma del maggio/giugno
2012 e uno per le popolazioni colpite dal sisma del 2009.
Sarà quindi importante conoscere l’ammontare dei residui al 31
dicembre 2012 per sapere quanti giovani potranno essere avviati al
servizio nel 2013, al netto dello stanziamento della Legge di Stabilità
2013-2015. Su questo versante la proposta governativa depositata con
l’Ac 5534 bis è negativa. Infatti vengono addirittura diminuite le
risorse stanziate dal precedente governo Berlusconi.
Nel 2013 sono previsti 71.214,00 milioni con un taglio di 5.041,00
milioni (-6,61%) sulle risorse previste dal governo precedente, nel 2014
sono previsti 76.251,00 milioni con un taglio di 7.546,00 milioni
(-9,00%).
Con queste risorse, sul piano pratico diventa un miraggio avviare al
servizio i circa 19.000 giovani annunciati a giugno 2012, e sul piano
politico continua la linea dello smantellamento progressivo del Scn,
reso di fatto sempre più elitario.
Tutto questo mentre, anche per effetto della crisi che sconvolge le
condizioni giovanili, nel 2011 ci sono state 75.794 domande per 16.325
posti. Il tema del passaggio a una dimensione di massa, a cui chiamare,
oltre lo Stato, anche altri soggetti al finanziamento, diventa
ineludibile, se vogliamo evitare lo snaturamento del servizio civile
stesso, elitario tanto da apparire un privilegio.
Per certi versi è un segno dei tempi che proprio in questo 2012 da
alcune parti sia stato riproposto il servizio civile obbligatorio ed
europeo. La sfida è quella di fare del Scn, su base volontaria, il
nocciolo duro capace di preparare le infrastrutture per una sfida così
impegnativa e di far maturare il necessario consenso sociale. È in
questa prospettiva che serve stanziare nel 2013-2015 almeno 200 milioni
l’anno per portare a circa 40.000 unità il contingente annuo.
DISARMARE L’ECONOMIA, COSTRUIRE LA PACE.
LE PROPOSTE NEL DETTAGLIO
Riduzione delle spese militari. È possibile la riduzione di 4
miliardi di euro della spesa militare. Questo potrebbe avvenire grazie
alla riduzione degli organici delle forze armate a 120 mila unità e a
un’integrazione – con economie di scala – dentro la cornice europea e
delle Nazioni Unite, naturalmente prevedendo un ruolo per le forze
armate legato ad autentici compiti di prevenzione dei conflitti e
mantenimento della pace, rifiutando ogni interventismo militare.
Riduzione dei programmi d’arma. Chiediamo al governo italiano
di cancellare il programma della produzione dei 90 cacciabombardieri
Joint Strike Fighter e di cancellare i finanziamenti previsti per il
2013 per la produzione dei 4 sommergibili Fremm e delle due fregate
Orizzonte. Risparmio previsto: 800 milioni di euro.
Riconversione dell’industria militare. Chiediamo una legge nazionale per la riconversione dell’industria militare e la costituzione di un fondo annuale di 200 milioni di euro per sostenere le imprese impegnate nella riconversione da produzioni di armamenti a produzioni civili.
Ritiro dall’Afghanistan. Chiediamo il ritiro delle truppe italiane
dalla missione in Afghanistan (il ruolo e la presenza dell’Isaf sono
strettamente intrecciati a Enduring Freedom in una funzione bellica e di
lotta militare al terrorismo) e da tutte quelle missioni internazionali
che non abbiano la copertura e il sostegno delle Nazioni Unite. Questa
misura farebbe risparmiare 740 milioni di euro alle casse pubbliche.
ATTIVITÀ DI PACE
Corpi di pace. Si propone lo stanziamento di almeno 20 milioni
di euro per dar vita a un primo contingente di corpi civili di pace,
destinati alla formazione e alla sperimentazione della presenza di 500
volontari da impegnare in azioni di pace non governative nelle aree di
conflitto o a rischio di conflitto. Si tratta di dare forza a forme di
interposizione e di peace keeping civile che abbiano una cornice e un
riconoscimento istituzionale.
Servizio Civile Nazionale. Oggi il Servizio Civile Nazionale
corre gravi rischi per mancanza di finanziamenti e decine di migliaia di
giovani rischiano di non poter fare questa esperienza. La Legge di
Stabilità assegna al Servizio Civile Nazionale solo 71 milioni di euro,
che a malapena garantiranno gli impegni già presi. Proponiamo lo
stanziamento di 200 milioni di euro aggiuntivi per il Servizio Civile
Nazionale, al fine di consentire nel 2013 l’avvio di 40.000 volontari in
servizio, ma soprattutto per iniziare a investire nella qualità del
servizio civile con la programmazione, formazione, il servizio civile
all’estero.
Istituto per la pace. Al pari di altri paesi (come la Svezia e
la Norvegia) che hanno istituti di ricerca sui temi della pace
prestigiosi e riconosciuti internazionalmente, si propone il
finanziamento, con 7 milioni di euro, di un istituto indipendente di
studi che possa realizzare ricerche a sostegno della pace e del disarmo.
Leopoldo Nascia
Fonte: Campagna Sbilanciamoci! - 04 dicembre 2012
Note: Per informazioni sulla campagna e sulla "ControFinanziaria" www.sbilanciamoci.org
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