"Io la mafia non l'ho mai vista come una piovra, per me la mafia è una pantera: agile, feroce, vigile". Era l'ultima intervista, e Giovanni Falcone, a Roma, parlava così di quella Cosa nostra che aveva già predisposto tutto e l'aspettava a Capaci.
Restando all'idea di Falcone, potremmo dire che la mafia, come la pantera, se ne sta sempre ben nascosta, quasi irraggiungibile, di tanto in tanto se ne trovano le tracce, si raccolgono i resti di chi resta vittima dei suoi artigli, raramente esce allo scoperto, a volte lo fa per una zampata. Come l'altra notte, con l'incendio alla pizzeria della famiglia di Peppino Impastato.
Nella logica di Cosa nostra quella zampata, al di là del valore oggettivo, al di là dei danni, che comunque compromettono l'attività, ha un valore simbolico che va oltre il risultato della zampata. Peppino è vivo, il suo ricordo è un'arma che forse la stessa mafia aveva sottovalutato. Generazioni nuove, che non c'erano ancora al tempo di quel delitto camuffato, sanno chi fu Peppino, e in chiave contemporanea fanno quello che seppe fare Impastato contro quella Cosa nostra che aveva conosciuto nell'interno di famiglia. Cento passi non lo spaventarono, i cento passi che lo dividevano dalla casa di don Tano Badalamenti, cento passi non spaventano i tanti giovani della meglio gioventù dell'Isola che, spesso isolati, non raccontati, fanno dell'impegno civile contro l'illegalità il senso pieno della loro testimonianza. L'attentato alla pizzeria degli Impastato non a caso arriva poco tempo dopo la decisione, attesa da troppo tempo, di recuperare e rendere fruibile il casolare dove Peppino Impastato fu ucciso.
Eliminato da più mani, che tentarono di farlo apparire un terrorista caduto sul "lavoro". Ma contro la mafia e il malaffare Peppino non usava esplosivo ma esplosive parole di denuncia. Era il 9 maggio del'78, il corpo dilaniato di Peppino fu trovato alle prime ore del mattino dai macchinisti di un treno in transito lungo la linea Trapani-Palermo. Il binario tranciato di netto, Peppino smembrato.
A pezzi restituito alla madre Felicia. Trapani-Palermo, un treno che ritorna questa mattina nell'indagine che ha portato ad altri mafiosi riconducibili a Matteo Messina Denaro, irraggiungibile dal giugno del'93. Uno degli arrestati di questa mattina, andato a vivere a Bologna, parla di Messina Denaro che si sposta in treno, in uno di quei lenti treni con i quali convive la Sicilia. Messina Denaro che magari sale nel Trapani-Palermo delle 5.45 e che passa proprio davanti al casolare di Impastato, e poi davanti al tratto di autostrada di Capaci, con la stele che ricorda Giovanni Falcone. Dietro gli arresti di questa mattina, tanta droga, tra Marocco, Spagna e Italia. Dietro gli arresti di questa mattina, l'immancabile ombra della massoneria. L'anziano avvocato radiato per mafia e droga, arrestato a Bologna, era armato di cappuccio e grembiulino. Come tantissimi mafiosi, come tanti, preziosi fiancheggiatori e complici.
Tutti a cerchio attorno al superlatitante, a fargli da scudo, a foraggiarlo, a dividere con lui piccoli, grandi bocconi di ricchezze smisurate. E mentre si muovevano queste cose, la cronaca ci ha appena dato le immagini parziali della storica aula del maxiprocesso: entra un signore in doppiopetto e camicia nera, chiede di non essere ripreso, siede davanti alla corte solo il tempo di dire che non ha intenzione di rispondere.
L'uomo in doppiopetto era stato citato dalla difesa dell'uomo che più gli fu vicino nella buona e nella cattiva sorte. Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi. Ma questa è un'altra storia, e il silenzio dell'uomo in doppiopetto potrebbe aprire un capitolo nuovo.
Restando all'idea di Falcone, potremmo dire che la mafia, come la pantera, se ne sta sempre ben nascosta, quasi irraggiungibile, di tanto in tanto se ne trovano le tracce, si raccolgono i resti di chi resta vittima dei suoi artigli, raramente esce allo scoperto, a volte lo fa per una zampata. Come l'altra notte, con l'incendio alla pizzeria della famiglia di Peppino Impastato.
Nella logica di Cosa nostra quella zampata, al di là del valore oggettivo, al di là dei danni, che comunque compromettono l'attività, ha un valore simbolico che va oltre il risultato della zampata. Peppino è vivo, il suo ricordo è un'arma che forse la stessa mafia aveva sottovalutato. Generazioni nuove, che non c'erano ancora al tempo di quel delitto camuffato, sanno chi fu Peppino, e in chiave contemporanea fanno quello che seppe fare Impastato contro quella Cosa nostra che aveva conosciuto nell'interno di famiglia. Cento passi non lo spaventarono, i cento passi che lo dividevano dalla casa di don Tano Badalamenti, cento passi non spaventano i tanti giovani della meglio gioventù dell'Isola che, spesso isolati, non raccontati, fanno dell'impegno civile contro l'illegalità il senso pieno della loro testimonianza. L'attentato alla pizzeria degli Impastato non a caso arriva poco tempo dopo la decisione, attesa da troppo tempo, di recuperare e rendere fruibile il casolare dove Peppino Impastato fu ucciso.
Eliminato da più mani, che tentarono di farlo apparire un terrorista caduto sul "lavoro". Ma contro la mafia e il malaffare Peppino non usava esplosivo ma esplosive parole di denuncia. Era il 9 maggio del'78, il corpo dilaniato di Peppino fu trovato alle prime ore del mattino dai macchinisti di un treno in transito lungo la linea Trapani-Palermo. Il binario tranciato di netto, Peppino smembrato.
A pezzi restituito alla madre Felicia. Trapani-Palermo, un treno che ritorna questa mattina nell'indagine che ha portato ad altri mafiosi riconducibili a Matteo Messina Denaro, irraggiungibile dal giugno del'93. Uno degli arrestati di questa mattina, andato a vivere a Bologna, parla di Messina Denaro che si sposta in treno, in uno di quei lenti treni con i quali convive la Sicilia. Messina Denaro che magari sale nel Trapani-Palermo delle 5.45 e che passa proprio davanti al casolare di Impastato, e poi davanti al tratto di autostrada di Capaci, con la stele che ricorda Giovanni Falcone. Dietro gli arresti di questa mattina, tanta droga, tra Marocco, Spagna e Italia. Dietro gli arresti di questa mattina, l'immancabile ombra della massoneria. L'anziano avvocato radiato per mafia e droga, arrestato a Bologna, era armato di cappuccio e grembiulino. Come tantissimi mafiosi, come tanti, preziosi fiancheggiatori e complici.
Tutti a cerchio attorno al superlatitante, a fargli da scudo, a foraggiarlo, a dividere con lui piccoli, grandi bocconi di ricchezze smisurate. E mentre si muovevano queste cose, la cronaca ci ha appena dato le immagini parziali della storica aula del maxiprocesso: entra un signore in doppiopetto e camicia nera, chiede di non essere ripreso, siede davanti alla corte solo il tempo di dire che non ha intenzione di rispondere.
L'uomo in doppiopetto era stato citato dalla difesa dell'uomo che più gli fu vicino nella buona e nella cattiva sorte. Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi. Ma questa è un'altra storia, e il silenzio dell'uomo in doppiopetto potrebbe aprire un capitolo nuovo.
In Rai, Vicedirettore del Giornale Radio e del Tg3, dove ha curato Primo
Piano, approfondimento della sera del telegiornale. In precedenza,
curatore di Mediterraneo, il settimanale televisivo internazionale
realizzato a Palermo con France3 e altre tv europee.
E'stato nella redazione di Sergio Zavoli per l'inchiesta a puntate
"Viaggio nel Sud" ed ha firmato per il Tg3 "RT-Rotocalco" il settimanale
che ha segnato il ritorno in Rai di Enzo Biagi, dopo il cosiddetto
"Editto bulgaro".
Agli inizi degli anni'90, in Sicilia, ha diretto "Suddovest", periodico che fu protagonista di una importante stagione politica e culturale dell'Isola.
Agli inizi degli anni'90, in Sicilia, ha diretto "Suddovest", periodico che fu protagonista di una importante stagione politica e culturale dell'Isola.
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