Le iraniane che protestano contro le imposizioni dei
religiosi e si tolgono il velo in pubblico devono fronteggiare un
«livello di violenza senza precedenti».
Botte, arresti, minacce di
morte.
La nuova ondata di repressione è denunciata in un rapporto di Amnesty International, che ha rilanciato il lavoro delle attiviste de
«La mia videocamera, la mia arma». Il giro di vite arriva in
concomitanza della nomina da parte della guida suprema Ali Khamenei
dell’oltranzista Ebrahim Raisi a capo del potere giudiziario.
Una svolta
«a destra», che sembra essersi concretizzata subito con la condanna
abnorme subita dall’avvocatessa dei diritti umani Nasrin Sotoudeh: 33
anni di carcere e 148 frustate. Fra i capi di accusa c’era anche quello
di essersi tolta il velo in pubblico e questo dimostra come il tema sia
diventato centrale nel tentativo dell’ala radicale del regime di
rinsaldare la presa sul Paese. Amnesty International ha raccolto centinaia di filmati delle attiviste. Mostrano i poliziotti «che le
insultano e le minacciano, ordinano di rimettersi il velo,
distribuiscono fazzoletti per togliere il trucco». Ma non basta. Gli
agenti «le schiaffeggiano, le picchiano coi manganelli, le ammanettano».
Un filmato mostra una discussione fra una donna e un uomo in borghese,
che alla fine «la insulta e le spruzza in volto spray al peperoncino».
Mariti che reagiscono In un video c’è un uomo in borghese accanto a un
furgone della polizia, mentre punta con un’arma un uomo e una donna
intervenuti per impedire un arresto. Ma ci sono anche casi di mariti o
compagni delle donne in strada senza velo che reagiscono alle angherie e
minacciano a loro volta gli agenti e i basiji, i volontari
filo-governativi, segno di una insofferenza crescente nei confronti
delle imposizioni religiose.
Il velo obbligatorio è però un simbolo
troppo importante della Repubblica islamica. Il rispetto della «decenza»
e del «pudore» sono considerati imprescindibili. Una coppia di fidanzati, domenica scorsa, è finita agli arresti per essersi abbracciata in pubblico alla festa di fidanzamento e dopo che il video
«scandaloso» era finito in Rete.
Ma proprio Internet è anche il motore
delle proteste, per esempio attraverso la pagina Facebook «La mia libertà clandestina», la diffusione dei video di denuncia, o
l’organizzazione dei «mercoledì bianchi», quando le donne indossano una
sciarpa in segno di protesta. In base alla sharia le donne debbono
coprirsi i capelli in pubblico dopo aver compiuto nove anni e se non
rispettano l’imposizione sono punite con un multa o l’incarcerazione
fino a due mesi.
L’obbligo del velo, come sottolinea Philip Luther,
direttore delle ricerche sul Medio Oriente e l’Africa del Nord di
Amnesty International, viene ormai utilizzato «per giustificare
aggressioni in strada contro le donne e le ragazze».
Giordano Stabile, La Stampa 13.03.2019
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