Un bracciante è morto carbonizzato in una tenda dello Stato, ma nessuno si scandalizza...
Si chiamava Sylla Noumo, aveva 32 anni, ed era originario del Senegal. È lui il migrante morto carbonizzato nella notte tra il 21 e il 22 marzo nella nuova tendopoli di San Ferdinando.
“Per ogni migrante abbiamo stabilito un posto dove andare, in parte
nella nuova tendopoli, nella maggior parte nei Cas e negli Sprar.
L’obiettivo più importante, cioè di superare la baraccopoli, un’idea
evocata da tanti, si sta pacificamente e serenamente realizzando. Questo
è sotto gli occhi di tutti”, lo diceva il prefetto di Reggio Calabria, Michele di Bari, nel giorno dello sgombero della vecchia tendopoli, a inizio marzo 2019.
Uno sgombero che doveva servire per smantellare una situazione di
disagio e di rischio per i tanti braccianti stipati tra baracche di
fortuna e sfruttati nei campi ortofrutticoli della piana di Gioia Tauro.
La baraccopoli era stata sgomberata meno di due settimane fa in seguito alla morte di Moussa Ba, senegalese di 29 anni, anche in quel caso per un incendio divampato nell’accampamento.
Ma si moriva nella vecchia baraccopoli e si muore nella nuova
tendopoli, dopo uno sgobero voluto e attuato per far sì che fatti così
gravi non potessero più accadere.
E invece il fuoco divampa ancora, la sicurezza – tra le tende che
portano a caratteri cubitali la scritta “ministero dell’Interno” – è
ancora un ideale lontano.
Al blu di quelle tende, che a detta della Prefettura dovevano essere
ignifughe, si alterna la voragine nera che ha divorato il corpo di Sylla
Noumo.
Il trentaduenne era stato trasferito nella nuova struttura a seguito
dell’abbattimento della baraccopoli. Il cadavere completamente
carbonizzato di Sylla Noumo è stato rimosso e la bara è stata posta
all’interno di un mezzo funebre e portata all’esterno della struttura da
dove sarà condotta in obitorio.
Un centinaio circa di migranti, ospitati nella nuova tendopoli, si
sono raccolti in silenzio ponendo le loro mani sopra al mezzo funebre
quasi come per accompagnarne l’addio.
Al 5 marzo scorso, la presenza stimata di immigrati nella baraccopoli
era di 1.592 persone. Di queste, 200 sono state trasferite negli ex
Sprar e Cas, circa 460 si sono spostate volontariamente e 900 hanno
trovato sistemazione nella tendopoli che era vigilata e attrezzata.
Come spiegano dal collettivo Mamadou – che segue e monitora la
situazione all’interno del ghetto e fuori – polizia e vigili del fuoco
presidiano la nuova tendopoli, eppure non si è riusciti a impedire una
nuova tragedia, che appare ancora più grave poiché consumatasi un luogo
allestito e voluto dalle istituzioni.
“Nell’area ci sono 848 persone in uno spazio che potrebbe ospitarne
400. Quanto accaduto era prevedibile. La protezione civile è scomparsa
dopo aver inizialmente distribuito dei pasti. Quando hanno montato le
tende, hanno detto che erano ignifughe. Il precedente sgombero non è
servito per trovar la casa a questi ragazzi ma per spostarli di 50
metri”, commentano dal collettivo.
“Siamo addolorati per la morte di una persona a San Ferdinando: se
fosse successo nella baraccopoli abusiva il bilancio poteva essere ben
più pesante”, ha nel frattempo dichiarato il ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Eppure una tragedia si è ugualmente consumata, lì dove non doveva accadere.
Questa mattina il prefetto di Reggio Calabria ha convocato
a San Ferdinando il Comitato per la Sicurezza, alla presenza del
procuratore di Palmi.
“Teniamo alta l’attenzione: al Comune di San Ferdinando
abbiamo appena riconosciuto 350mila euro per gestire la situazione
post-sgombero. L’auspicio è incrementare sempre di più controlli,
legalità e assistenza per evitare sfruttamento, degrado e tragedie”, ha
aggiunto Salvini.
Più volte la baraccopoli è stata teatro di incendi scatenati dai fuochi accesi per scaldarsi durante la notte o per dolo, come avvenne il 27 gennaio 2018 quando perse le vita una 26enne nigeriana, Becky Moses, vittima di un incendio doloso che portò anche al fermo di una donna straniera che avrebbe agito per gelosia. Il 2 dicembre 2018 toccò a Surawa Jaith, un gambiano che non aveva ancora compiuto 18 anni. Il 16 febbraio scorso la morte di Moussa Ba, un senegalese di 29 anni.
Questa volta sembra l’origine dell’incendio non sia legata a fuochi
accesi per il freddo, ma si tratti di un corto circuito. La scientifica è
sul posto per accertamenti.
“Lo sgobero del 2019 è sempre legato ai morti negli ultimi
11 mesi. Adesso lì ci sono 850 persone. Le condizioni di vita sono
impensabili: hanno creato questa nuova area riducendo lo spazio vitale”,
spiegano dal collettivo.
“L’impressione è che ci siano più attori intenzionati a
mantenere lo status quo: far raccogliere le arance in condizioni di
necessità e ricatto”.
Lara Tomasetta,
TPI.it
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