sabato 23 marzo 2019

"Non dirò il suo nome". Il discorso di Jacinda Ardern

Pubblichiamo il discorso che Jacinda Ardern, premier neozelandese, ha pronunciato in Parlamento, nel suo primo intervento in Aula dopo l’attentato di venerdì scorso a Christchurch, in cui un terrorista ha ucciso 50 musulmani in due moschee.



Signor presidente,
salam alaikum,

signor presidente, il 15 marzo è un giorno che rimarrà impresso per sempre nella nostra memoria collettiva. In un tranquillo venerdì pomeriggio, un uomo ha fatto irruzione in un luogo pacifico di culto e ha ucciso cinquanta persone. Quel tranquillo venerdì pomeriggio è diventato il più buio dei nostri giorni. Ma per le famiglie è stato più di questo. È stato il giorno in cui un semplice atto di preghiera, di pratica del loro credo musulmano e della loro religione, ha portato alla perdita delle vite dei loro cari. Quei cari erano fratelli, sorelle, padri e bambini. Erano neozelandesi, sono noi. E poiché sono noi, noi, come nazione, li piangiamo. Sentiamo un forte obbligo nei loro confronti. E, signor presidente, abbiamo tanto bisogno di dire e di agire.

Uno dei ruoli che non ho mai previsto di avere, e sperato di non avere mai, è quello di esprimere il dolore di una nazione. In questo momento, è stato secondo soltanto al dovere di garantire assistenza a chi è stato colpito e sicurezza a tutti. E in questo ruolo, voglio parlare direttamente alle famiglie. Non possiamo conoscere il vostro dolore, ma possiamo accompagnarvi in ogni vostro passo. Possiamo. E lo faremo, vi circonderemo di aroha e manaakitanga (in Maori aroha è amore e manaakitanga viene tradotto con ospitalità ma indica l’atto di dare il benvenuto e di condividere le proprie cose, ndr) e di tutto ciò che ci rende noi, noi. I nostri cuori sono pesanti ma il nostro spirito è forte. 

Signor presidente, 6 minuti dopo che con la chiamata al 111 è stata allertata la polizia, la polizia era sul posto. L’arresto in sé non è stato niente di meno che un atto di coraggio. Due ufficiali della polizia hanno speronato il veicolo dal quale l’assalitore continuava a sparare. Hanno aperto la portiera della macchina – dentro c’era dell’esplosivo – e lo hanno tirato fuori. So che tutti noi desideriamo dare atto alle forze dell’ordine del fatto che con le loro azioni mettono la sicurezza dei neozelandesi al di sopra della loro, e per questo li ringraziamo. Ma non sono stati gli unici a mostrare un coraggio straordinario. Naeem Rashid, originario del Pakistan, è morto dopo essersi gettato addosso al terrorista per togliergli la pistola. E’ morto cercando di salvare coloro che stavano pregando al suo fianco. Abdul Aziz, originario dell’Afghanistan, ha affrontato il terrorista armato dopo aver afferrato la prima cosa che gli è capitata a tiro, un semplice pos. Ha messo a repentaglio la propria vita e senza dubbio ha salvato quella di molti altri con il suo coraggio altruista.

Ci saranno innumerevoli storie, alcune delle quali non conosceremo mai, ma a ciascuna, vogliamo mostrare riconoscimento qui, in quest’Aula. Per molti di noi il primo segno della portata di questo attacco terroristico sono state le immagini del personale di ambulanza che trasportava le vittime all’ospedale di Christchurch. Ai primi soccorritori, alle ambulanze e agli operatori sanitari che hanno assistito e che continuano ad assistere coloro che sono stati feriti: vogliate accettare il sentito ringraziamento di tutti noi. Ho visto con i miei occhi la vostra cura e la vostra professionalità di fronte a sfide straordinarie. Siamo orgogliosi del vostro lavoro e incredibilmente grati.

Signor presidente, se lei permette, mi piacerebbe parlare di alcune delle misure attualmente in vigore, in particolare per garantire la sicurezza della nostra comunità musulmana e, più in generale, la sicurezza di tutti. Come nazione, restiamo in allerta. Anche se al momento non c’è una minaccia specifica, stiamo mantenendo alta la guardia. Sfortunatamente, come abbiamo visto in paesi che conoscono gli orrori del terrorismo più di noi, c’è spesso uno schema di tensione e azioni in crescendo nelle settimane successive, il che significa che abbiamo bisogno di controllare e vigilare.

Abbiamo aumentato la presenza delle forze di sicurezza, ancora in corso a Christchurch, e come indicato dalla polizia, continuerà a esserci presenza di polizia nelle moschee in tutto il paese mentre le loro porte sono aperte. Quando saranno chiuse, la polizia resterà nelle vicinanze. C’è un’enorme attenzione nel garantire che i bisogni delle famiglie vengano soddisfatti. Questa deve essere la nostra priorità. È stato allestito un centro di assistenza sociale vicino all’ospedale di Christchurch per assicurarsi che le persone sappiano dove rivolgersi. I visti per i familiari all’estero sono una priorità in modo che possano partecipare ai funerali. I costi funerari sono coperti e ci siamo mossi rapidamente per garantire che siano inclusi i costi di rimpatrio per i familiari che vorrebbero portare i loro cari via dalla Nuova Zelanda. Stiamo lavorando per fornire assistenza psicologica e sociale. Il numero 1737 ha ricevuto circa 600 messaggi o telefonate.

In media durano circa 40 minuti e incoraggio chiunque abbia bisogno di contattare e utilizzare questi servizi. Sono lì per voi. Abbiamo anche previsto un servizio di traduzione per tutti quelli che ne avranno bisogno: a chi lavora a questo centro, grazie. I nostri servizi di intelligence stanno raccogliendo informazioni aggiuntive. Come in passato, le stiamo prendendo in grande considerazione. So, signor presidente, che ci sono stati molti e giusti interrogativi sul perché questo attacco sia stato fatto proprio qui, in un luogo che è orgoglioso del suo essere aperto, pacifico e vario. C’è rabbia per il fatto che è accaduto qui. Ci sono molte domande che ancora devono trovare risposta e posso assicurarvelo: daremo le risposte. Ieri il governo ha deciso di aprire un’inchiesta sui fatti che hanno portato al 15 marzo. Analizzeramo quello che sapevamo, quello che avremmo dovuto sapere e quello che avremmo potuto sapere. Non possiamo permettere che accada di nuovo.

Per garantire la sicurezza ai neozelandesi dobbiamo esaminare con grande franchezza la nostra legge sulle armi. Come ho già detto, questa legge deve cambiare. Il governo si è riunito ieri e ha stilato alcuni principi guida, settantadue ore dopo l’attentato. Prima che ci rivedremo, lunedì prossimo, annunceremo le nostre decisioni. Signor presidente, c’è una persona al centro di questo atto di terrorismo contro la nostra comunità musulmana in Nuova Zelanda. Un uomo di 28 anni, cittadino australiano, è stato accusato di omicidio. Seguiranno altri capi di imputazione. Dovrà affrontare tutta la forza della legge della Nuova Zelanda e le famiglie delle vittime avranno giustizia.
Cercava di ottenere molti risultati dal suo atto di terrorismo, e uno di questi è la notorietà. Per questo, non mi sentirete mai pronunciare il suo nome. È un terrorista. È un criminale. È un estremista. Ma quando parlo sarà senza nome. E imploro tutti voi e tutti quanti: pronunciate forte il nome di chi è rimasto senza vita, non quello di chi gliel’ha tolta, la vita. Forse cercava notorietà, ma noi in Nuova Zelanda non gli daremo nulla. Nemmeno il suo nome.

Signor presidente, guarderemo anche al ruolo dei social media e a quel che possiamo fare, anche a livello internazionale e all’unisono con i nostri alleati. Non c’è dubbio che le idee e il linguaggio della divisione e dell’odio esistono da decenni, ma come si distribuiscono, gli strumenti della loro organizzazione, questi sono elementi nuovi. Non possiamo semplicemente rilassarci e accettare che queste piattaforme restino così e che ciò che viene scritto su di loro non sia responsabilità del supporto su cui sono scritte. Loro sono l’editore. Non sono soltanto il postino. Non può esistere un caso di solo profitto senza responsabilità. Questo ovviamente non elimina la responsabilità che noi tutti dobbiamo avere come nazione, per combattere il razzismo, la violenza e l’estremismo. Non ho tutte le risposte adesso, ma dobbiamo trovarle tutti assieme. E dobbiamo agire.

Signor presidente, siamo profondamente grati per tutti i messaggi di cordoglio, sostegno e solidarietà che stiamo ricevendo dai nostri amici in tutto il mondo. E siamo grati alla comunità musulmana mondiale che ci ha sostenuto, e noi ricambiamo il sostegno.
Concluderò ricordando alcune delle molte storie che ci hanno colpito tutti dal 15 di marzo. Ne vorrei citare una, quella di Hati Mohemmed Daoud Nabi. Era un uomo di 71 anni che ha aperto la porta della moschea di Al Noor e ha pronunciato le parole “Salve fratello, benvenuto”. Sono state le sue ultime parole. Ovviamente non aveva idea dell’odio che si trovava dietro a quella porta, ma il suo benvenuto ci dice moltissimo – ci dice che era membro di una fede che accoglieva tutti i suoi membri, che mostrava apertura e gentilezza. L’ho detto molte volte, signor presidente: siamo una nazione di 200 etnie e 160 lingue. Apriamo le nostre porte agli altri e diciamo: benvenuto. E l’unica cosa che deve cambiare dopo quello che è successo venerdì è che questa stessa porta deve rimanere chiusa davanti a quanti professano odio e paura.

Sì, la persona che ha commesso quegli atti non era di qui. Non è stato cresciuto qui. Non ha trovato qui la sua ideologia, ma questo non significa che altri che la pensano allo stesso modo non vivano qui. Come nazione, io so che desideriamo fornire tutto il sostegno che possiamo alla nostra comunità musulmana nella sua ora più buia. Lo stiamo facendo. La montagna di fiori che giace alle porte delle moschee in tutto il paese, i canti spontanei davanti ai cancelli. Questi sono modi di esprimere amore ed empatia. Ma vorremmo fare di più. Vorremmo che ogni membro delle nostre comunità si sentisse al sicuro. Sicurezza significa essere liberi dalla paura della violenza. Ma significa anche essere liberi dalla paura dei sentimenti di razzismo e odio, che creano un ambiente dove la violenza può prosperare. E ciascuno di noi ha il potere di cambiare le cose. Signor presidente, venerdì sarà una settimana dall’attacco. I membri della comunità musulmana si riuniranno per la preghiera quel giorno. Condividiamo il loro lutto. Sosteniamoli mentre si riuniscono e pregano. Siamo una cosa sola, noi e loro.

A San Ferdinando si muore ancora

Un bracciante è morto carbonizzato in una tenda dello Stato, ma nessuno si scandalizza...

Si chiamava Sylla Noumo, aveva 32 anni, ed era originario del Senegal. È lui il migrante morto carbonizzato nella notte tra il 21 e il 22 marzo nella nuova tendopoli di San Ferdinando.
“Per ogni migrante abbiamo stabilito un posto dove andare, in parte nella nuova tendopoli, nella maggior parte nei Cas e negli Sprar. L’obiettivo più importante, cioè di superare la baraccopoli, un’idea evocata da tanti, si sta pacificamente e serenamente realizzando. Questo è sotto gli occhi di tutti”, lo diceva il prefetto di Reggio Calabria, Michele di Bari, nel giorno dello sgombero della vecchia tendopoli, a inizio marzo 2019.
Uno sgombero che doveva servire per smantellare una situazione di disagio e di rischio per i tanti braccianti stipati tra baracche di fortuna e sfruttati nei campi ortofrutticoli della piana di Gioia Tauro.
La baraccopoli era stata sgomberata meno di due settimane fa in seguito alla morte di Moussa Ba, senegalese di 29 anni, anche in quel caso per un incendio divampato nell’accampamento.
Ma si moriva nella vecchia baraccopoli e si muore nella nuova tendopoli, dopo uno sgobero voluto e attuato per far sì che fatti così gravi non potessero più accadere.
E invece il fuoco divampa ancora, la sicurezza – tra le tende che portano a caratteri cubitali la scritta “ministero dell’Interno” – è ancora un ideale lontano.
Al blu di quelle tende, che a detta della Prefettura dovevano essere ignifughe, si alterna la voragine nera che ha divorato il corpo di Sylla Noumo.
Il trentaduenne era stato trasferito nella nuova struttura a seguito dell’abbattimento della baraccopoli. Il cadavere completamente carbonizzato di Sylla Noumo è stato rimosso e la bara è stata posta all’interno di un mezzo funebre e portata all’esterno della struttura da dove sarà condotta in obitorio.
Un centinaio circa di migranti, ospitati nella nuova tendopoli, si sono raccolti in silenzio ponendo le loro mani sopra al mezzo funebre quasi come per accompagnarne l’addio.
Al 5 marzo scorso, la presenza stimata di immigrati nella baraccopoli era di 1.592 persone. Di queste, 200 sono state trasferite negli ex Sprar e Cas, circa 460 si sono spostate volontariamente e 900 hanno trovato sistemazione nella tendopoli che era vigilata e attrezzata.
Come spiegano dal collettivo Mamadou – che segue e monitora la situazione all’interno del ghetto e fuori – polizia e vigili del fuoco presidiano la nuova tendopoli, eppure non si è riusciti a impedire una nuova tragedia, che appare ancora più grave poiché consumatasi un luogo allestito e voluto dalle istituzioni.
“Nell’area ci sono 848 persone in uno spazio che potrebbe ospitarne 400. Quanto accaduto era prevedibile. La protezione civile è scomparsa dopo aver inizialmente distribuito dei pasti. Quando hanno montato le tende, hanno detto che erano ignifughe. Il precedente sgombero non è servito per trovar la casa a questi ragazzi ma per spostarli di 50 metri”, commentano dal collettivo.
“Siamo addolorati per la morte di una persona a San Ferdinando: se fosse successo nella baraccopoli abusiva il bilancio poteva essere ben più pesante”, ha nel frattempo dichiarato il ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Eppure una tragedia si è ugualmente consumata, lì dove non doveva accadere.
Questa mattina il prefetto di Reggio Calabria ha convocato a San Ferdinando il Comitato per la Sicurezza, alla presenza del procuratore di Palmi.
“Teniamo alta l’attenzione: al Comune di San Ferdinando abbiamo appena riconosciuto 350mila euro per gestire la situazione post-sgombero. L’auspicio è incrementare sempre di più controlli, legalità e assistenza per evitare sfruttamento, degrado e tragedie”, ha aggiunto Salvini.

Più volte la baraccopoli è stata teatro di incendi scatenati dai fuochi accesi per scaldarsi durante la notte o per dolo, come avvenne il 27 gennaio 2018 quando perse le vita una 26enne nigeriana, Becky Moses, vittima di un incendio doloso che portò anche al fermo di una donna straniera che avrebbe agito per gelosia. Il 2 dicembre 2018 toccò a Surawa Jaith, un gambiano che non aveva ancora compiuto 18 anni. Il 16 febbraio scorso la morte di Moussa Ba, un senegalese di 29 anni.
Questa volta sembra l’origine dell’incendio non sia legata a fuochi accesi per il freddo, ma si tratti di un corto circuito. La scientifica è sul posto per accertamenti.
“Lo sgobero del 2019 è sempre legato ai morti negli ultimi 11 mesi. Adesso lì ci sono 850 persone. Le condizioni di vita sono impensabili: hanno creato questa nuova area riducendo lo spazio vitale”, spiegano dal collettivo.
“L’impressione è che ci siano più attori intenzionati a mantenere lo status quo: far raccogliere le arance in condizioni di necessità e ricatto”.





 

lunedì 18 marzo 2019

Passato, presente e futuro dell'Europa

Non mi va di condannare l’Europa al destino insito nella sua pertinenza geografica (Occidente da occasus richiama: tramonto). Aggiungo la criticità di un destino segnato dalla sua identità geopolitica: terra d’origine- quindi emblema - degli Stati-nazione…
Un piccolo passo indietro e si staglia, con contorni definiti, la “possanza” del fenomeno.
Lo Stato-nazione è creatura prettamente occidentale, diversa dalle conformazioni statuali orientali, che non mancavano al suo tempo e non erano mancate neanche prima di allora.

STATO MODERNO
Protagonista della storia moderna, lo Stato-nazione esalta la guerra, la tecnica dell’amministrazione e la burocrazia degli amministratori, il cerimoniale del sovrano (1), il diritto positivo (2).
Purtroppo però, la storia odierna si sposa meglio con formazioni sovrane a larghe maglie, provviste di una corporatura continentale. Stati Uniti e Cina sono già pronti, ricchi, in aggiunta, delle potenzialità economiche che esprimono. Metterei anche la Russia, se non fosse monca di adeguate risorse economiche.La globalizzazione, inoltre, non si può considerare episodio occasionale, possibilmente reversibile. Non appena si prenda coscienza dei mali che incorpora e si assuma la tensione rivoluzionaria adatta a capovolgerla, essa rivela la sua dimensione e la sua resilienza. È infatti lo stadio di una graduale evoluzione dell’intreccio tra mercato produzione dei beni e volubilità dei consumi (più o meno manipolata), della simbiosi tra forze del capitalismo ed interessi sovrani. Con l’aggiunta dello sviluppo, fino al massimo grado dell’astrazione, delle tecniche finanziarie. (3)
 
RILETTURA DELLA STORIA MODERNA
La storia, si deve sapere, si presta, ferma restando la sua dimensione scientifica, a continue riletture, risentendo di una ratio cognoscendi che matura nel presente. Per questa via la storia moderna offre testimonianza della pregnanza del rapporto dialettico tra potere sacro potere sovrano e potere economico. I suoi frutti si ritrovano nel diritto moderno e in una sorta di “rivoluzione permanente”, con precisione colta dallo storico Paolo Prodi.
Nelle sue parole, l’Europa stessa manifesta una vera vocazione “Inserita in un cammino dell’umanità verso una redenzione che avverrà soltanto alla fine dei tempi (secondo la tradizione giudaico-cristiana) oppure come speranza secolarizzata dell’avvento di una nuova era di giustizia e di pace  dell’umanità…” (4)
Appunto, seguendo il secondo piano prospettico (5), possiamo confermare il senso - da cui la vocazione - che ha caratterizzato l’agire dei padri costituenti dell’Europa nella crisalide della CEE.

IL CAMMINO DELLA COMUNITÀ EUROPEA Non si era ancora conclusa la guerra e nel 1943 Jean Monnet, membro del Comitato francese di Liberazione nazionale, affermò: “Non ci sarà pace in Europa se gli Stati verranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale […] gli Stati europei sono troppo piccoli per garantire ai loro popoli la necessaria prosperità e lo sviluppo sociale. Le nazioni europee dovrebbero riunirsi in una federazione”.
Ancor prima, nel ‘41, il nostro Altiero Spinelli con l’ausilio di E. Rossi e A. Colorni, elevava lo sguardo oltre i ristretti e minacciosi confini nazionali, suscettibili di nuove avventure egemoniche, e indicava “ una visione d’insieme [a] tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l’unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici e americani possano svolgersi su una base di pacifica cooperazione in attesa di un più lontano avvenire in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”.
Dall’accordo CECA ai Trattati di Roma, questa ispirazione era ben presente agli uomini, che spinti da mente illuminata e spronati dall’esperienza della disastrosa guerra mondiale, improntarono gli ingranaggi transitori per la federazione europea.

DIFFICOLTÀ ODIERNE
Oggi non entusiasma più di tanto l’idea della federazione, e se aggiungiamo le distorsioni provocate da meccanismi spuri, contaminati di egoismo sovranitario (Consiglio dei ministri e Commissione europea), abbiamo la risultanza di una impasse dell’Organo europeo. Né la ristrutturazione proposta dai movimenti populisti, a mio avviso, è la cura adatta. Essi invocano una Europa del popolo, dove popolo è parola mitica dei rigurgiti sovranista e nazionalista. (6)
CONCLUDENDO, l’accoppiamento di giustizia e pace qualifica un lavoro di grande spessore politico su scala mondiale, remissivo della realpolitik, della “guerra a pezzetti” o per procura, del predominio del profitto in sostituzione dello I care  umanitario. (7)
 
Rosario Grillo,
dal blog Persona e Comunità 

NOTE.
1. Con cerimoniale rappresento sia i principi dell’assolutismo sia l’azione condotta per “la visibilità” del sovrano, sia tutto il retaggio della reggia e della corte.
2. Si prenda nota che la bellicosità è intrinseca, a ragione , allo Stato nazionale in qualsiasi  epoca e a qualsiasi latitudine.
3. Oggi pienamente dispiegate nella Borsa, nel movimento dei capitali, nella preminenza dei broker.
4. P. Prodi, Il tramonto della rivoluzione, il Mulino p. 54
5. Il primo piano potrebbe apparire ai più troppo viziato dalla fede che ispira l’Autore.
Richiederebbe comunque l’integrazione di ciò che P. Prodi Intende con “redenzione”.
6. Il populismo dei giorni nostri conserva le tare del populismo che si sviluppò nel dopoguerra, nei paesi latinoamericani (Argentina soprattutto) e vi aggiunge la miscela esplosiva della demagogia spinta dalle masse in epoca digitale.
7. Debbo contenere la disamina che meriterebbe il lavoro storiografico di P.Prodi, che, navigando in un liquido di rilevanza mondiale ( Bockendorf, Schmitt, Waltzer) “cuce” i punti nodali di un ordito, la storia moderna, attenta al concorso di potere sacro e potere politico con l’aggiunta del potere economico. In essa ha la sua culla l’Europa, che da tale simbiosi ricava alimento e sostanza. Ecco perché si è insistito tanto, da certe angolazioni, sulle radici cristiane dell’Europa. Ci fu allora una levata di scudi degli accoliti dell’Illuminismo, in difesa della laicità. Furono scambiati i termini e ci fu fraintendimento! P. Prodi richiama un campione dell’Illuminismo, come Voltaire, per confermare la consapevolezza di questo sostrato dell’Europa.
L’insistenza su fattori rigorosamente razionalistici, esplicitati nel meccanismo dei calcoli razionali, che fugge la paura del “bellum omnium contra omnes” e contratta il “patto originario” dello Stato moderno (“stato artificiale”, appunto), predilige il “modello macchina” dello Stato ai fattori culturali e spirituali che portano “ un’anima”.
Questa la ragione con la quale P. Prodi, nel finale della sua operetta, scritta già con il sentore dei primi scricchiolii dell’Europa, denuncia la stanchezza della Comunità e rileva la sua passività nella tempesta della globalizzazione. Per completezza avviso che numerosi e più corposi volumi sono stati dedicati da Prodi a tale argomento.
 
 
 
 

mercoledì 13 marzo 2019

[IRAN] Amnesty, violenza senza precedenti contro le donne che tolgono il velo

Le iraniane che protestano contro le imposizioni dei religiosi e si tolgono il velo in pubblico devono fronteggiare un «livello di violenza senza precedenti». 

Botte, arresti, minacce di morte

La nuova ondata di repressione è denunciata in un rapporto di Amnesty International, che ha rilanciato il lavoro delle attiviste de «La mia videocamera, la mia arma». Il giro di vite arriva in concomitanza della nomina da parte della guida suprema Ali Khamenei dell’oltranzista Ebrahim Raisi a capo del potere giudiziario. 
Una svolta «a destra», che sembra essersi concretizzata subito con la condanna abnorme subita dall’avvocatessa dei diritti umani Nasrin Sotoudeh: 33 anni di carcere e 148 frustate. Fra i capi di accusa c’era anche quello di essersi tolta il velo in pubblico e questo dimostra come il tema sia diventato centrale nel tentativo dell’ala radicale del regime di rinsaldare la presa sul Paese. Amnesty International ha raccolto centinaia di filmati delle attiviste. Mostrano i poliziotti «che le insultano e le minacciano, ordinano di rimettersi il velo, distribuiscono fazzoletti per togliere il trucco». Ma non basta. Gli agenti «le schiaffeggiano, le picchiano coi manganelli, le ammanettano». Un filmato mostra una discussione fra una donna e un uomo in borghese, che alla fine «la insulta e le spruzza in volto spray al peperoncino». Mariti che reagiscono In un video c’è un uomo in borghese accanto a un furgone della polizia, mentre punta con un’arma un uomo e una donna intervenuti per impedire un arresto. Ma ci sono anche casi di mariti o compagni delle donne in strada senza velo che reagiscono alle angherie e minacciano a loro volta gli agenti e i basiji, i volontari filo-governativi, segno di una insofferenza crescente nei confronti delle imposizioni religiose. 
Il velo obbligatorio è però un simbolo troppo importante della Repubblica islamica. Il rispetto della «decenza» e del «pudore» sono considerati imprescindibili. Una coppia di fidanzati, domenica scorsa, è finita agli arresti per essersi abbracciata in pubblico alla festa di fidanzamento e dopo che il video «scandaloso» era finito in Rete.
Ma proprio Internet è anche il motore delle proteste, per esempio attraverso la pagina Facebook «La mia libertà clandestina», la diffusione dei video di denuncia, o l’organizzazione dei «mercoledì bianchi», quando le donne indossano una sciarpa in segno di protesta. In base alla sharia le donne debbono coprirsi i capelli in pubblico dopo aver compiuto nove anni e se non rispettano l’imposizione sono punite con un multa o l’incarcerazione fino a due mesi. 
L’obbligo del velo, come sottolinea Philip Luther, direttore delle ricerche sul Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International, viene ormai utilizzato «per giustificare aggressioni in strada contro le donne e le ragazze». 

Giordano Stabile, La Stampa 13.03.2019
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