Che sia un giorno di quiete, nella tempesta quotidiana dalla quale tutti noi proviamo a sopravvivere, lo si capisce salendo i tornanti, incorniciati dal verde argentato degli uliveti, che da Lucca conducono a Pieve Santo Stefano. È qui, nella chiesa con annessa canonica messagli a disposizione dall’arcivescovo Italo Castellani, che dopo mezzo secolo, passato ad attraversare il deserto e in soccorso degli ultimi, è voluto tornare fratel Arturo Paoli. Ad aprire la porta della casa è Paola, mamma di due figli e «Vado a preparare il pranzo». Seduta al lungo tavolo, accanto a colui che sembra un magnifico ulivo nodoso e secolare – fratel Arturo domani compie 100 anni –, sta Benedetta, universitaria alle prese con la tesi sul cantautorato di Carmen Consoli e un impiego da commessa al supermercato per sbarcare il lunario. Benedetta è una dei giovani degli "incontri del martedì", quelli dedicati alla lettura e al commento del Vangelo guidati dal sacerdote e piccolo fratello della Congregazione fondata da Charles de Foucauld. Fratel Arturo finisce di leggere con voce attoriale una lettera appena recapitata: «È dello psicanalista Luigi Zoja… Anche io, sa, scrivo solo lettere di mio pugno», poi alza lo sguardo e ci tiene a precisare: «L’idea di un gruppo che si ritrovasse a leggere e a commentare il Vangelo me l’ha data un libro geniale, La prima generazione incredula di don Armando Matteo. Trovo che sia un approccio assolutamente straordinario per loro…». "Loro" sono i ragazzi, proprio come quelli che qui in questo momento sono alle prese con il Vangelo di Matteo. Si incontrano alla sera dopo la scuola o il lavoro e vanno avanti fino a notte fonda, quando fratel Arturo si ritira nella sua cameretta per salutare il nuovo giorno. «Alle 4 sono sul mio letto che aspetto l’aurora, senza di me il sole non se la sente mica di sorgere», sorride divertito e si fa scuro solo quando il ricordo lo riporta a quelle «brevi ore di un pomeriggio d’inverno del 1920», quando a Lucca, in piazza San Michele, vide le "camicie nere" fasciste sparare e uccidere due uomini che assistevano a un comizio socialista. Un trauma, come la morte della giovane amata e poi quella della madre che lo condussero al sacerdozio, «anche se non riuscivo a pensarmi parroco». È diventato un prete spesso "scomodo", che ha cercato di conciliare impegno politico e testimonianza di fede concreta.
Dinanzi alla banalità del male, rispose con l’impegno totale, adempiendo alla richiesta dell’allora arcivescovo di Lucca, Antonio Torrini, che a lui e altri tre giovani sacerdoti disse: «Dedicatevi a tutti i perseguitati della terra». In quel periodo della seconda guerra, che definisce «straordinario», riuscì a mettere in salvo centinaia di ebrei, pagando con il carcere. Il 6 agosto, giorno in cui venne liberato da un anonimo tenente tedesco, ancora oggi lo commemora con una Messa. Nella sua memoria sono scolpiti i nomi dei tanti salvati che ne hanno fatto un "Giusto fra le nazioni", a cominciare dallo scrittore ebreo e tedesco, Ludwig Greve, che della scampata deportazione racconta nel libro dedicato a fratel Arturo, Un amico a Lucca. Ricordi d’infanzia e d’esilio. «Ludwig veniva da Cuneo, dopo che suo padre e la sorella erano spariti nel nulla… Appena arrivato, a muso duro mi disse: "Non crederà mica di convertirmi?". Tre giorni dopo, vivendo assieme a noi, rideva di quello che aveva detto. Si salvò vestendosi da prete. Le sue figlie, che ha fatto battezzare in Germania, quando passano per l’Italia non mancano mai di venirmi a trovare». E anche oggi è giorno di visite. Dal Brasile sono atterrati tre amici, parte di quelle comunità di base che fratel Paoli contribuì a creare tra i campesinos e gli affamati dell’America Latina, «dove ho visto realizzato il Concilio Vaticano II. Qui da noi invece, molto spesso li abbiamo dimenticati... Laggiù è ancora accesa la scintilla della sana "ribellione" cristiana. E quella l’ho toccata con mano nelle favelas brasiliane, nel popolo d’Argentina e del Venezuela». Parla come ha vissuto, condividendo speranze e drammi, come quelli dei desaparecidos argentini e subendo anche lui la violenza dei generali che lo cacciarono. «Oggi la forza rivoluzionaria positiva di quei popoli, vorrei ritrovarla nei nostri giovani, ma si sono spenti…». Fissa negli occhi Benedetta che prova a difendersi e a difendere la sua generazione: «Ma Arturo, anche questo modo diverso di vivere il Vangelo con leggerezza e al tempo stesso in maniera estremamente profonda, come ci hai insegnato tu, per noi rappresenta già una piccola rivoluzione…». Fratel Arturo annuisce. Comprende le ragioni dei giovani di un Occidente svuotato e annichilito, e mostra un piccolo libro. "L’anno scorso ho scritto questo pamphlet, La rinascita dell’Italia, in cui denuncio il fatto che non si può tacere delle gravi responsabilità della politica, delle ruberie compiute dai dragoni di una classe dirigente che pare non tenga in nessun conto la povertà crescente del nostro popolo. La deriva politica però, è lo specchio di quella morale... Non si sono mai viste, come oggi, tante "unioni" così frettolose e che altrettanto velocemente poi si sciolgono. L’incapacità di amare è il grande male dell’uomo».
Ragionamenti "scomodi" anche per chi potrebbe pensare che la sua "rivoluzione" sia un po’ relativista e a buon mercato. Si rifà all’insegnamento di Teilhard de Chardin, fratel Arturo. «Dobbiamo "amorizzare" il mondo», dice mentre accarezza l’immaginetta del suo Charles de Foucauld («il 1° dicembre - ricorda - è il giorno della sua morte»), in cui sta scritta la massima: «Jamais avoir peur», mai dobbiamo avere paura. «Già, non dobbiamo temere neppure il "vuoto"». Fratel Arturo lentamente si alza e chiede con permesso se può andare a riposarsi un po’ nella sua stanza. Riappare dopo una mezz’ora e confessa: «Ho imparato da Beethoven che durante la giornata è necessario fare delle piccole soste di sonno... Il mio tempo è pieno di letture. Testi religiosi certo, ma anche tanta letteratura, a cominciare dai miei amati sudamericani, a cominciare da Jorge Amado. Il fatto di scrivere (Aragno ha appena ripubblicato il suo Dialogo della libertà e di venire considerato un intellettuale all’inizio è stato un ostacolo per entrare nella Congregazione dei Piccoli Fratelli. Da loro ho appreso tanto e più vado avanti e più mi convinco che il cristianesimo va ricercato nell’opera del contadino. Come dice il mio amico Ivo, piccolo fratello nella comunità di Spello: "Degno di Cristo, è chi affonda le mani tutti i giorni nella terra madre"». Nell’orto fuori dalla canonica, le mani nella terra le affonda Camillo, 84 anni - uno degli "ex ragazzi" di fratel Arturo - assieme al giovane Valentin, il figlio di Paola che dice raggiante: «Coltivano di tutto, in casa abbiamo pomodori grandi come cocomeri». Benedetta apparecchia la tavola, Paola serve la pasta. Sono tutte volontarie, come «quell’angelo della Piera che appare e scompare, in silenzio», dice fratel Arturo che non ha mai voluto una perpetua «perché anche la migliore con il tempo diventa un triste sottoprete. Molto meglio affidarsi alla Provvidenza». È quella che spinge tanti a salire fin quassù in questa oasi di San Martino in Vignale, per parlare e ascoltare la sua voce che incanta con le omelie della domenica. «Per me sono una ferita aperta. Dopo ogni omelia fatico a riprendermi. E non è perché ora porto un secolo sulle mie povere spalle, ma accade da quando il Cristo, il mio Amico, ha cominciato a parlarmi. E tutto questo è iniziato tanto tempo fa…».
Dinanzi alla banalità del male, rispose con l’impegno totale, adempiendo alla richiesta dell’allora arcivescovo di Lucca, Antonio Torrini, che a lui e altri tre giovani sacerdoti disse: «Dedicatevi a tutti i perseguitati della terra». In quel periodo della seconda guerra, che definisce «straordinario», riuscì a mettere in salvo centinaia di ebrei, pagando con il carcere. Il 6 agosto, giorno in cui venne liberato da un anonimo tenente tedesco, ancora oggi lo commemora con una Messa. Nella sua memoria sono scolpiti i nomi dei tanti salvati che ne hanno fatto un "Giusto fra le nazioni", a cominciare dallo scrittore ebreo e tedesco, Ludwig Greve, che della scampata deportazione racconta nel libro dedicato a fratel Arturo, Un amico a Lucca. Ricordi d’infanzia e d’esilio. «Ludwig veniva da Cuneo, dopo che suo padre e la sorella erano spariti nel nulla… Appena arrivato, a muso duro mi disse: "Non crederà mica di convertirmi?". Tre giorni dopo, vivendo assieme a noi, rideva di quello che aveva detto. Si salvò vestendosi da prete. Le sue figlie, che ha fatto battezzare in Germania, quando passano per l’Italia non mancano mai di venirmi a trovare». E anche oggi è giorno di visite. Dal Brasile sono atterrati tre amici, parte di quelle comunità di base che fratel Paoli contribuì a creare tra i campesinos e gli affamati dell’America Latina, «dove ho visto realizzato il Concilio Vaticano II. Qui da noi invece, molto spesso li abbiamo dimenticati... Laggiù è ancora accesa la scintilla della sana "ribellione" cristiana. E quella l’ho toccata con mano nelle favelas brasiliane, nel popolo d’Argentina e del Venezuela». Parla come ha vissuto, condividendo speranze e drammi, come quelli dei desaparecidos argentini e subendo anche lui la violenza dei generali che lo cacciarono. «Oggi la forza rivoluzionaria positiva di quei popoli, vorrei ritrovarla nei nostri giovani, ma si sono spenti…». Fissa negli occhi Benedetta che prova a difendersi e a difendere la sua generazione: «Ma Arturo, anche questo modo diverso di vivere il Vangelo con leggerezza e al tempo stesso in maniera estremamente profonda, come ci hai insegnato tu, per noi rappresenta già una piccola rivoluzione…». Fratel Arturo annuisce. Comprende le ragioni dei giovani di un Occidente svuotato e annichilito, e mostra un piccolo libro. "L’anno scorso ho scritto questo pamphlet, La rinascita dell’Italia, in cui denuncio il fatto che non si può tacere delle gravi responsabilità della politica, delle ruberie compiute dai dragoni di una classe dirigente che pare non tenga in nessun conto la povertà crescente del nostro popolo. La deriva politica però, è lo specchio di quella morale... Non si sono mai viste, come oggi, tante "unioni" così frettolose e che altrettanto velocemente poi si sciolgono. L’incapacità di amare è il grande male dell’uomo».
Ragionamenti "scomodi" anche per chi potrebbe pensare che la sua "rivoluzione" sia un po’ relativista e a buon mercato. Si rifà all’insegnamento di Teilhard de Chardin, fratel Arturo. «Dobbiamo "amorizzare" il mondo», dice mentre accarezza l’immaginetta del suo Charles de Foucauld («il 1° dicembre - ricorda - è il giorno della sua morte»), in cui sta scritta la massima: «Jamais avoir peur», mai dobbiamo avere paura. «Già, non dobbiamo temere neppure il "vuoto"». Fratel Arturo lentamente si alza e chiede con permesso se può andare a riposarsi un po’ nella sua stanza. Riappare dopo una mezz’ora e confessa: «Ho imparato da Beethoven che durante la giornata è necessario fare delle piccole soste di sonno... Il mio tempo è pieno di letture. Testi religiosi certo, ma anche tanta letteratura, a cominciare dai miei amati sudamericani, a cominciare da Jorge Amado. Il fatto di scrivere (Aragno ha appena ripubblicato il suo Dialogo della libertà e di venire considerato un intellettuale all’inizio è stato un ostacolo per entrare nella Congregazione dei Piccoli Fratelli. Da loro ho appreso tanto e più vado avanti e più mi convinco che il cristianesimo va ricercato nell’opera del contadino. Come dice il mio amico Ivo, piccolo fratello nella comunità di Spello: "Degno di Cristo, è chi affonda le mani tutti i giorni nella terra madre"». Nell’orto fuori dalla canonica, le mani nella terra le affonda Camillo, 84 anni - uno degli "ex ragazzi" di fratel Arturo - assieme al giovane Valentin, il figlio di Paola che dice raggiante: «Coltivano di tutto, in casa abbiamo pomodori grandi come cocomeri». Benedetta apparecchia la tavola, Paola serve la pasta. Sono tutte volontarie, come «quell’angelo della Piera che appare e scompare, in silenzio», dice fratel Arturo che non ha mai voluto una perpetua «perché anche la migliore con il tempo diventa un triste sottoprete. Molto meglio affidarsi alla Provvidenza». È quella che spinge tanti a salire fin quassù in questa oasi di San Martino in Vignale, per parlare e ascoltare la sua voce che incanta con le omelie della domenica. «Per me sono una ferita aperta. Dopo ogni omelia fatico a riprendermi. E non è perché ora porto un secolo sulle mie povere spalle, ma accade da quando il Cristo, il mio Amico, ha cominciato a parlarmi. E tutto questo è iniziato tanto tempo fa…».
Massimiliano Castellani (Avvenire, 29.11.12)
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