C’era una volta
C’erano
una volta i beni comuni: l’aria, l’acqua, il bosco, il fiume, la
spiaggia, i pascoli, e persino i campi, che venivano dissodati e arati
congiuntamente dalle comunità di villaggio. Nell’era moderna, il
processo della loro appropriazione – e della esclusione di chi ne traeva
il proprio sostentamento – è cominciato molto presto con le recinzioni
(enclosure) dei pascoli in Inghilterra, che Marx pone a fondamento del
meccanismo di accumulazione primitiva del capitale. Ed è proseguito nel
tempo: molte delle rivoluzioni borghesi in Europa hanno messo capo a un
processo analogo, per non parlare della conquista del West in
Nordamerica, a spese delle popolazioni indigene, o del colonialismo, che
ha globalizzato questa pratica.
Gli ultimi decenni, con il
trionfo del liberismo e del cosiddetto “pensiero unico”, si sono svolti
all’insegna della privatizzazione di tutto l’esistente – persino
dell’aria, con le quote di emissione – e della stigmatizzazione di tutto
quanto è comune o condiviso. Ma la musica sta cambiando e deve
cambiare. In ogni caso la difesa dei beni comuni, che oggi è il
denominatore comune di tanti conflitti sociali, non si configura come un
ritorno al passato, quando non tutto era ancora mercificato, e per
questo “privatizzato” in nome di un progresso che identifica efficienza e
profitto. Certo, in molti casi – i più tipici sono quelli dell’acqua o
delle aree protette – la difesa dei beni comuni si presenta a prima
vista come una lotta contro la “novità” della loro privatizzazione. Ma è
fin da subito evidente che l’esito di una difesa del genere non può
essere un ritorno alla situazione precedente. Il bene “comune” verrà
salvaguardato come tale solo se per esso si riuscirà a sviluppare una
forma di gestione completamente nuova; sotto il controllo, anche se
parziale e condiviso, e proprio per questo soggetto a continue
revisioni, di coloro che si sono battuti contro la sua appropriazione
privata, o di coloro che hanno accettato di rinunciare ad essa. La
soluzione non può essere ridotta a una trasferimento del bene sotto il
controllo dello Stato. La proprietà “pubblica” di un bene comune,
soprattutto se intesa come proprietà dello Stato o di una sua
articolazione territoriale, non offre di per sé alcuna garanzia di
partecipazione, di condivisione, di comunanza, tra coloro che dovrebbero
esserne i beneficiari.
Sono le modalità di esercizio del potere
su un bene, del controllo sul suo uso e sulla ripartizione, attuale e
nel tempo, dei vantaggi che esso può procurare, a definire le forme,
anche giuridiche, esplicite o sottintese, secondo cui si dispone di
esso. Per questo la connotazione di una risorsa come bene comune è
indissolubilmente legata a forme di democrazia partecipativa che lo
sottraggano tanto alla disponibilità di un privato quanto a quella di un
apparato statale o di una sua struttura particolare. Il degrado e la
rapacità delle imprese di Stato, o delle società a partecipazione
pubblica (dall’Iri a Finmeccanica, dalle Ferrovie dello Stato alle SpA
ex municipalizzate), sottratte a qualsiasi forma di controllo popolare,
dimostrano in modo inconfutabile la divaricazione tra pubblico, nel
senso di statale, e comune. Peggio ancora se si pensa di affidare a
poteri più centralizzati (Regione o Stato), il compito di rimediare ai
guasti nella gestione di un servizio pubblico locale perpetrati dai
livelli decentrati dell’amministrazione.
“Comune” non è dunque la
stessa cosa di “pubblico”: soprattutto se per pubblico si intende
“statuale”. Il che inevitabilmente succede se si ritiene che il rapporto
degli umani con un bene non possa assumere altra forma che quella del
diritto di proprietà. Ma questa concezione non ha alcun fondamento
storico; risponde a un approccio giuridico tradizionale e sbarra la
strada a qualsiasi percorso alternativo allo stato di cose presente. Per
questo è necessario andare più a fondo nella concettualizzazione del
termine.
La teoria dei beni comuni
I
beni comuni non possono essere considerati una categoria merceologica, e
nemmeno essere ridotti alle sole risorse naturali indispensabili alla
vita, come l’acqua, l’aria, la biodiversità, ecc. Tuttavia, l’estensione
del concetto va realizzata con cautela. Stefano Rodotà, che da tempo si
occupa della materia, ha messo in guardia contro una recente tendenza a
estendere la categoria di “bene comune” a cose che per loro natura non
lo sono. Questa tendenza è riconducibile al tentativo di associare
questioni che sono comunque al centro di una mobilitazione o di uno
scontro politico a una battaglia che recentemente ha avuto il suo punto
di forza nel risultato del referendum contro la privatizzazione
dell’acqua. Tipico da questo punto di vista è la parola d’ordine
lanciata dalla Fiom oltre due anni fa secondo cui “il lavoro è un bene
comune”.
Propriamente parlando il bene comune è una risorsa dalla
cui fruizione non può essere escluso nessuno, pena la privazione, per
la persona esclusa, di una componente essenziale dei suoi diritti di
uomo e di cittadino. Così, nel mondo moderno, accanto a risorse che sono
condizioni essenziali della vita e della sua riproducibilità, come le
già citate acqua e aria, si possono porre prodotti artificiali, come
l’accesso all’energia elettrica, alla mobilità, ai servizi sanitari, o a
manifestazioni delle facoltà superiori dell’uomo come l’informazione,
la cultura, l’arte, ecc. Ma a garanzia di questa non esclusione dalla
fruizione devono intervenire forme di gestione del bene incompatibili
tanto con la proprietà privata – per lo meno fino aala soglia al di
sotto della quale l’accesso al bene è un’esigenza vitale o un diritto
irrinunciabile – quanto con la mera proprietà pubblica, intesa come
proprietà dello Stato o di una sua articolazione. La quale riproduce, a
un livello più alto, tutte le potenzialità di esclusione proprie della
proprietà privata. La gestione dei beni comuni deve essere una gestione
condivisa: nel senso che tutti i potenziali fruitori possono – non
necessariamente devono – partecipare alle decisioni relative al modo in
cui il bene viene utilizzato o fruito.
Le modalità di questa
condivisione possono essere le più varie e differenziarsi tra loro: sia
in base alle circostanze storiche – la riappropriazione collettiva di
una risorsa come bene comune è sempre un work-in-progress, mai
completamente compiuto – sia alle caratteristiche del bene e delle forme
prevalenti della sua fruizione, sia al livello di competenza e di
maturità sociale e culturale di quella parte della cittadinanza che ne
rivendica l’esercizio.
Recenti studi, a partire da quello
pionieristico de premio Nobel Elinor Ostrom, passando, in Italia, per i
nomi di Stefano Rodotà, Ugo Mattei e Alberto Lucarelli, hanno cercato di
dare fondamento e consistenza giuridica a questa forma di gestione che
esclude – o mette in secondo piano – la proprietà; ma l’indagine
storica, valgano per tutte quelle della Ostrom, “mirate” sul tema,
dimostra che la gestione condivisa di un bene comune è una pratica
antica e ben nota in una pluralità di comunità etniche e storiche e che
essa, per l’appunto, varia nei modi e nelle regole, a seconda del
contesto storico sociale e del bene in questione. Se accettiamo questo
approccio, è chiaro che la categoria dei beni comuni non esclude a
priori nessuna delle risorse materiali o spirituali che occupano il
panorama della vita moderna; ma anche che l’inclusione di una risorsa
nella categoria dei beni comuni dipende strettamente dal grado in cui si
è affermata la pratica o la rivendicazione, di una sua gestione comune e
condivisa; o, per lo meno, una diffusa convinzione che così deve
essere. Ed è altresì chiaro che questa questione è il nocciolo duro di
uno scontro in corso a livello planetario, che assume le forme più
diverse nei diversi contesti; ma che vede ovunque contrapporsi, da un
lato, l’approccio liberista, che vede nella privatizzazione del
controllo e della gestione delle risorse le condizioni irrinunciabili di
un loro uso efficiente e produttivo; e, dall’altro, le varie forme di
resistenza a questo “pensiero unico”.
Queste ultime scartano come
non decisiva la contrapposizione tra pubblico e privato, e tra Stato e
mercato – anche sulla base delle esperienze negative che la mera
“nazionalizzazione” o statalizzazione delle risorse e delle attività
produttive ha dato di sé: sia nei paesi del blocco comunista a economia
pianificata, che in molte esperienza realizzate nel corso del secolo
scorso in Occidente – e vedono invece nella riappropriazione condivisa
di una serie di risorse e di attività le condizioni essenziali di una
gestione democratica tanto del potere che delle attività economiche
fondamentali.
Beni comuni e bene comune
Per
tutte queste ragioni occorre distinguere nettamente tra il concetto di
“bene comune”, senza ulteriori determinazioni, e quello di “beni
comuni”; che può anche essere declinato al singolare come bene comune,
ma solo se riferito a entità specifiche e circoscritte, anche se globali
e diffuse: come lo sono per esempio l’acqua, l’atmosfera,
l’informazione, i saperi, la scuola, ecc. “Bene comune” rinvia a una
concezione armonica e unitaria della società, dei suoi fini ultimi, dei
suoi interessi, della convivenza. Il tema dei beni comuni rimanda invece
al conflitto: contro l’appropriazione, o il tentativo di appropriarsi,
di qualcosa che viene sottratto alla fruizione di una comunità di
riferimento. Una comunità che non include mai tutti, perché si
contrappone comunque a chi – singolo privato o articolazione dello Stato
– da quel bene intende trarre vantaggi particolari, escludendone altri.
In questa accezione il rapporto con i beni comuni comporta, sia nella
rivendicazione che nell’esercizio di un diritto acquisito, forme di
controllo diffuso e di partecipazione democratica alla loro gestione o
ai relativi indirizzi che integrino le forme ormai sclerotizzate della
democrazia rappresentativa.
Il concetto di “beni comuni” ha
comunque relativamente poco a che fare con quello del “Comune” di cui
scrivono Negri e Hardt. Questo “Comune” non è che l’ultima versione di
una soggettivazione totalizzante del reale che nel corso del tempo ha
attraversato, negli scritti di Negri, una successione di figure: Classe
Operaia, “operaio massa”, “operaio sociale”, “moltitudine”, per
approdare, per ora, al “Comune”. È un’entità autoreferenziale, che
“gioca con se stessa”, producendo il proprio antagonista – la Classe
Operaia “sviluppa” il Capitale; la moltitudine “crea” l’Impero, ecc. –
per poi riassorbirlo in un movimento dialettico dall’esito
precostituito. Le lotte per i beni comuni, invece, non hanno esiti certi
e meno che mai predeterminati: anzi, il rischio a cui sono esposte – e
insieme ad esse, coloro che se ne fanno protagonisti e l’umanità tutta –
è di giorno in giorno maggiore.
La lotta contro l’appropriazione
Seguendo
questo approccio, ci soffermeremo su alcuni nodi fondamentali che
interessano tanto i processi di realizzazione quanto la rivendicazione
di una gestione condivisa dei beni comuni:
1. La prima
osservazione è questa: l’idea di una gestione condivisa dei beni comuni
ha nel mondo contemporaneo una matrice libertaria, “di sinistra”, o
addirittura di estrema sinistra. Ma la realizzazione della gestione
condivisa non è né di destra né di sinistra: ad essa può partecipare
chiunque, indipendentemente dai suoi orientamenti, e la gestione
condivisa è per l’appunto un’arena dove le diverse ipotesi o soluzioni
proposte si confrontano. Chi l’ha proposta e ha lottato per la sua
affermazione può poi ritrovarsi in minoranza tra i soggetti che
partecipano poi alla sua realizzazione;
2. A confronto avremo
sempre e comunque una concezione processuale e una concezione statutaria
del bene comune. La concezione statutaria punta a definire fin
dall’inizio le regole della gestione e a promuovere sulla loro base la
partecipazione; la concezione processuale punta invece innanzitutto al
coinvolgimento di una platea quanto più ampia possibile dei soggetti
potenzialmente interessati alla gestione del bene, con una particolare
attenzione a dare voce ai soggetti esclusi o marginali, contando che le
regole di funzionamento si possano definire – e correggere – in corso
d’opera. Nessuno di questi due approcci è valido a priori; vanno
commisurati al contesto operativo e combinati sulla base degli esiti del
processo, facendo comunque attenzione a che la rigidità delle regole
non soffochi il processo di coinvolgimento, che non avviene mai secondo
moduli prestabiliti;
3. Possiamo scandire il processo del
coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati alla gestione
condivisa di un bene comune in tre stadi. L’ultimo, il più definito, è
quello della democrazia deliberativa. Si decide secondo regole certe gli
indirizzi da dare alla gestione del bene e questi, se il bene è
formalmente di proprietà pubblica, devono essere fatti propri
dall’autorità o dall’amministrazione competente, sotto il controllo dei
soggetti che hanno preso parte alla deliberazione, e di altri che si
possono aggiungere in seguito. Lo stadio intermedio è quello del
confronto tra le diverse ipotesi e soluzioni proposte. La difficoltà è
che non siamo abituali a farlo: secoli di espropriazione del potere
deliberativo ci hanno resi intolleranti e incapaci di ricorrere all’arma
della persuasione (la verifica più grottesca di questo dato sono, per
chi ne ha esperienza, le assemblee condominiali). Da questo punto di
vista la partecipazione a un processo di gestione condivisa di un bene –
o anche solo della sua rivendicazione – è per tutti una scuola di
democrazia e di tolleranza. Ma la prima fase è forse la più difficile:
molti soggetti, improvvisamente coinvolti in un processo di
partecipazione, e abituati a considerare la propria esclusione una
condizione “naturale”, non riescono per un tempo più o meno lungo ad
attenersi al tema: hanno bisogno di sfogarsi, di “vomitare” in pubblico
le proprie frustrazioni, di sentirsi accolti e rispettati. Guai a
considerare questa fase una perdita di tempo: è un prerequisito
fondamentale della democrazia partecipativa;
4. La partecipazione
di chi rivendica o cerca di attuare una gestione condivisa di un bene
è, e nella società contemporanea resterà per lungo tempo, un processo
conflittuale: uno scontro quotidiano e serrato contro chi aspira
all’appropriazione privata o una gestione pubblica puramente
amministrativa del bene, o la ha già realizzata, o la sostiene. I
processi partecipativi sono per l’appunto il terreno dove si costruisce e
si consolida la forza e l’organizzazione per opporsi a una gestione
privata o escludente;
5. Nei processi partecipativi, e fino a che
non è stato formalizzato e accettato un sistema di regole, non si vota:
a partecipare non è mai la totalità dei soggetti interessati e chi
partecipa non può pretendere di rappresentarli. Partecipa perché ha
un’idea, un’esperienza, una competenza, un saper fare, da far valere e
da mettere a disposizione degli altri. Se non si raggiunge il consenso
di una larghissima maggioranza si dovrà riproporre il confronto a
partire da una base più ampia: di carattere territoriale (coinvolgendo
altri soggetti) o settoriale (introducendo nuove tematiche) in modo da
scompaginare gli schieramenti precostituiti. Se l’accordo non viene
comunque raggiunto si apre il conflitto: le diverse tesi in campo
cercheranno di far valere le loro ragioni al di fuori del contesto
partecipativo, fino a che la modificazione dei rapporti di forza non
permetteranno di riaprire il confronto su basi diverse;
6. La
democrazia partecipativa e la gestione condivisa dei beni comuni si
costruiscono sui saperi (tecnici e sociali) diffusi tra la popolazione;
ma sono al tempo stesso una scuola straordinaria per approfondire,
promuovere e diffondere questi saperi;
7. La riappropriazione
condivisa di un bene comune, anche del più generale e diffuso, come
l’atmosfera – per preservarla dal sovraccarico di gas di serra – o la
cultura – per renderla accessibile a tutti – è un processo che richiede e
al tempo stesso promuove la “territorializzazione” dei processi; il
riavvicinamento tra produzione e consumo, tra utenza e gestione. Certo
questo processo non riguarda la mera informazione – i bit, che circolano
liberamente su tutto il globo – ma riguarda gli atomi: la gestione
concreta di risorse, impianti, strutture, istituzioni, spettacoli, ecc.
La condivisione è tanto più forte quanto più è basata su rapporti
diretti e relazioni di prossimità;
8. Al di là dell’acqua bene
comune, oggi il terreno fondamentale dello scontro tra privatizzazione e
gestione condivisa è costituita dai servizi pubblici locali. Costituire
a livello territoriale (quartiere, circoscrizione, città, area vasta;
ma anche condominio o compound) delle sedi dove gli indirizzi dei
servizi pubblici locali vengano affrontati e discussi in una prospettiva
di gestione condivisa è un’attività in cui tutti possono impegnarsi.
Fruizione e consumo condivisi
Le
forme di fruizione condivisa di un bene comune, nella misura in cui
riescono a imporsi come modalità organizzata di gestione dei beni e dei
servizi prodotti, ribalta la gerarchia del comando, perché, attraverso
la determinazione delle modalità di erogazione dei servizi e di
fornitura dei beni, può arrivare a condizionare, in un processo di
cooperazione allargato, anche le modalità in cui i beni e i servizi
stessi vengono prodotti.
Fruizione condivisa è cosa del tutto
differente da consumo di massa, che è quello attraverso cui una
molteplicità – o una “moltitudine” – di individui viene coinvolta,
ciascuno per conto suo, in forme di consumo esercitate congiuntamente.
La motorizzazione di massa rappresenta forse il culmine del consumo
individuale serializzato; il trasporto pubblico, soprattutto se
personalizzato con servizi a domanda, o il car-sharing, sono invece
forme di autorganizzazione dei consumatori che definiscono a loro volta
le modalità di erogazione del servizio. Un concerto rock è una forma
vistosa di consumo di massa; uno spettacolo teatrale costruito
attraverso il coinvolgimento di attori, pubblico, personale tecnico,
autori e registi, è una forma di cooperazione nella produzione che si
traduce in consumo collettivo. La moda è la più evidente forma di
consumo di massa nato dalla giustapposizione di scelte individuali
imposte dall’esterno; i GAS, gruppi di acquisto solidale (o, in forma
più mediata, il commercio equo e solidale) sono esempi importanti del
recupero di una sovranità dei consumatori attraverso la cooperazione più
o meno diretta con il mondo produttivo. Tendenzialmente, alcune di
queste pratiche invertono i termini del problema: si produce quello che i
consumatori chiedono, concordandolo tra loro e con i produttori, invece
di consumare quello che produttori e distributori impongono.
Il
consumo in forma condivisa ha costi di transazione molto elevati, perché
richiede tempo e risorse, soprattutto cognitive, per raggiungere un
punto di accordo tra i potenziali fruitori, e tra questi e uno, più, o
tutti gli anelli della catena produttiva; ma si traduce per lo più in un
risparmio di risorse, perché ne ottimizza l’uso ed esercita un
controllo diretto per ridurre gli sprechi. Il consumo individuale ha
costi di transazione apparentemente minori – il prodotto è lì, basta
prenderlo e pagarlo – se non si includono tra questi i costi del
marketing e della pubblicità, che fanno però parte del prodotto, perché
concorrono alla definizione della sua immagine, della sua “aura”; così
come il consumo condiviso definisce la natura di ciò che viene consumato
– ma comporta la massimizzazione del consumo di risorse e degli sprechi
per massimizzare le vendite e il profitto.
Questa osservazione
confuta alla radice la tesi di Garrett Hardin sulla “Trageda dei
Commons” secondo cui solo la proprietà privata – le enclosure – ha
potuto salvare qualità e fertilità dei suoli, così come di tutti gli
altri beni, che sottoposti a un uso condiviso sarebbero invece andati in
rovina per sovrasfruttamento. La visione di Hardin è basata su una
gestione privatistica e competitiva dei beni comuni che è un ossimoro,
perché un bene in tanto è comune in quanto la sua gestione è sottoposta a
un insieme di regole condivise finalizzate innanzitutto a preservarne e
a potenziarne la qualità. Per esempio, i suoli e i boschi
dell’Inghilterra oggetto di encolsure nel processo di accumulazione
primitiva del capitale erano stati fino ad allora gestiti in comune
dalle comunità di villaggio secondo regole che per secoli non ne avevano
pregiudicato la produttività. Soltanto con l’affermarsi e la
generalizzazione di una gestione privatistica e mercantile delle risorse
anche ciò che restava di non giuridicamente appropriato è stato apposto
a forme di utilizzo competitive che ne hanno causato una più o meno
intensa rovina.
L’accento sui costi di transazione, che si
traduce soprattutto in maggior impegno del fattore tempo, ci mette di
fronte a una questione molto importante. Il consumo condiviso ci
introduce a un universo basato sulla riappropriazione del nostro tempo;
se ne deve dedicare meno al lavoro e agli impegni cosiddetti “sociali”,
perché abbiano bisogno di averne di più per noi: per affrontare
consapevolmente e risolvere i problemi che nascono dalla necessità di
trovare – di negoziare – un punto di equilibrio tra interessi e valori
che possono essere contrastanti. La lentezza riprende così gradualmente
il sopravvento sulla fretta.
Beni comuni e lotta di classe
Ma
a che cosa dobbiamo la rilevanza che il tema dei beni comuni ha assunto
e sta sempre più assumendo nel discorso e nella prassi politica degli
ultimi tempi? Per oltre due secoli, e tanto più quanto più la produzione
di massa richiedeva la concentrazione intorno agli stessi impianti di
un numero altissimo di addetti, le fabbriche e le coalizioni dei
produttori – intesi come i lavoratori impegnati nella fabbricazione di
un bene o nella erogazione di un servizio – sono state la sede
privilegiata delle scelte collettive, e della ricomposizione di una
nuova comunanza, di lotta, ma anche di cultura e di vita, di fronte
all’atomizzazione, alla dispersione e alla frantumazione delle comunità
tradizionali indotte dai meccanismi di mercato.
Oggi forse non è
più così: l’evoluzione degli assetti produttivi (imprese a rete,
delocalizzazioni e precarizzazione del lavoro) spingono verso una
crescente polverizzazione e frantumazione delle concentrazioni
produttive – anche se la permanenza dei precedenti assetti continua a
esercitare un ruolo di primaria importanza – mentre la rivalutazione dei
“beni comuni” come forma di fruizione condivisa del territorio, dei
servizi, ma anche di alcuni beni di consumo irriducibilmente
“individuali” come l’alimentazione, il vestiario o l’abitare, indica in
questa riscoperta una – se non “la” – sede privilegiata di una
ricomposizione della solidarietà e di una vita ricca di legami sociali.
Uno spostamento del centro dell’attenzione dalle sedi della cooperazione
produttiva nei luoghi di lavoro alle modalità di una fruizione
collettiva dei beni e dei servizi prodotti induce a una riconsiderazione
del ruolo del consumo nelle forme in cui si struttura l’organizzazione
della società e nella definizione dei conflitti che la animano e la
plasmano.
Il consumatore individuale non è mai sovrano, perché
soggiace al potere incondizionato che l’impresa esercita sul mercato; e
questa sua debolezza intrinseca è la fonte e la condizione stesse del
dominio che l’impresa esercita anche sul mondo della produzione, cioè
sulle forme della cooperazione sociale in cui si concretizza
l’organizzazione del lavoro. Che rapporto passa allora tra il conflitto
sociale che ha una delle sue leve nelle mobilitazioni per i beni comuni e
la lotta di classe tra lavoro e capitale? La lotta di classe, come
ancora recentemente ha ben documentato Luciano Gallino (se mai ce ne
fosse stato bisogno), è ben viva e oramai estesa su tutto il pianeta. È
soprattutto la lotta contro i lavoratori sferrata dal capitale
finanziario, commerciale e industriale, a cui la globalizzazione ha
messo in mano, oltre alle forme tradizionali di sfruttamento dei
lavoratori dalla testa alle braccia, anche l’arma delle
delocalizzazioni: per poter tagliare, dalle gambe in su, loro l’erba
sotto i piedi in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. È difficile
anche solo immaginare che i lavoratori di tutto il mondo possano
ricostituire in tempi adeguati collegamenti, organizzazioni o reti
sufficientemente estese per contrastare, al suo stesso livello, questo
attacco globale.
Da tempo le lotte dei lavoratori hanno per lo
più una dimensione ristretta, aziendale o di categoria, quando non di
reparto; raramente nazionale e mai transnazionale. E anche quando
assumono forme offensive, il che non succede spesso, difficilmente
riescono, soprattutto nei paesi di consolidata industrializzazione come
il nostro, a spuntare risultati che non siano di mero contenimento
dell’aggressione alle proprie condizioni di lavoro, di reddito e di
vita. Quella corsa al ribasso che costituisce la sostanza e il motore
della globalizzazione liberista può essere fermata solo sottraendo il
lavoro – a pezzi e bocconi – ai diktat di una competizione senza limiti:
con un processo, o una serie di processi, di conversione ecologica del
sistema produttivo che rimetta al centro, insieme alla sopravvivenza del
pianeta, produzioni orientate alla soddisfazione dei bisogni basilari e
al miglioramento delle forme di convivenza delle comunità di
riferimento: cioè i beni comuni. Per questo il conflitto sociale per i
beni comuni costituisce il supporto e lo sbocco indispensabile di un
ripresa offensiva della lotta contro lo sfruttamento del lavoro.
Il rapporto con il territorio
Certamente,
molte volte, l’istanza della difesa dei beni comuni sconfina e sembra
confondersi con una difesa particolaristica del proprio “cortile” con
quello a cui politici e commentatori affibbiano sprezzantemente
l’etichetta “nimby”. Ma quel “cortile” si fa in realtà sempre più
grande; a volte, come nel caso dell’acqua o dell’atmosfera, di
dimensioni planetarie; e le ragioni di chi lo difende si dimostrano ogni
giorno – valgano per tutti, in Italia, casi come quelli delle lotte
contro il TAV Torino-Lione, il Mose di Venezia, il Ponte sullo stretto
di Messina, o la base Usa di Vicenza – più serie, documentate,
approfondite di quelle dei loro avversari, che sono contraddittorie,
autolesioniste e soprattutto superficiali: “primato del mercato”;
“modernizzazione”; “difesa dell’Occidente”; “rapporto con l’Europa”,
ecc. E che servono soprattutto per mascherare interessi e accordi
speculativi eincinfessabili.
La democrazia dal basso e lo spazio
pubblico che si sono sviluppati in contesti come questi sono invece
basati su, e corroborati da, una conoscenza dei problemi, dei costi e
dei benefici delle soluzioni proposte, da una fiducia reciproca nelle
proprie forze e nel proprio impegno che hanno le loro basi in una
varietà d saperi tecnici e gestionali diffusi nel territorio e
disseminati tra la popolazione. Le nuove forme di partecipazione – o le
nuove rivendicazioni di partecipare – ai processi decisionali sono
indisgiungibili dal “bene comune” conoscenza.
La difesa dei beni
comuni allude così, e conduce, a un rapporto con le cose, con il mondo
degli oggetti, con l’ambiente fisico in cui viviamo, meno strumentale,
meno cinico, meno finalizzato a un mero funzionalismo (quello per cui
una cosa, qualsiasi cosa, vale solo finché e in quanto ci serve, e poi
va gettata via), per includere una dimensione affettiva, emotiva,
estetica: dalla difesa del paesaggio alla lotta contro gli OGM e i cibi
adulterati, dalla salvaguardia dei prodotti, dell’alimentazione, dei
saperi e del saper fare tipici o tradizionali ai gruppi di acquisto
solidali, dal recupero dell’usato alla promozione del riciclaggio. E’
questa una dimensione che le regole del mercato e del profitto hanno
largamente espunto dal mondo e che costituisce invece una componente
essenziale della salvaguardia della salute, nostra e altrui, di questa
come delle future generazioni.
Beni comuni e “spazio pubblico”
Queste
dimensioni sono tanto più presenti e consapevoli quanto più le
iniziative hanno o partono da una dimensione locale, che si basa su una
conoscenza articolata del territorio e su una rete consolidata di
relazioni sociali – una “risorsa cognitiva” che i grandi progetti
ignorano per vocazione, ma che costituisce una componente irrinunciabile
di una progettualità sostenibile: “Pensare globalmente e agire
localmente”.
A loro volta, le iniziative che si sviluppano a
partire da una dimensione locale sono la fonte principale di creazione e
di consolidamento di nuovi e più forti legami sociali: di comunità
costruite e legittimate non dalla consuetudine o dalla tradizione, ma
dalla condivisione di obiettivi e prospettive comuni. La lotta
lunghissima degli abitanti della Val di Susa è l’esempio migliore di
questa dimensione comunitaria costruita attraverso la prassi. Legame
sociale significa spazio pubblico – anche fisico, cioè strade, viali,
piazze, giardini sottratti all’invasione delle automobili – a
disposizione per l’incontro, per il confronto, e anche per il conflitto
tra soggetti diversi per genere, età, cultura, tradizioni, abitudini,
ricchezza, ruoli professionali e sociali, idee: la base indispensabile
del rispetto reciproco, che è la sostanza dei diritti umani e il
presupposto irrinunciabile di una democrazia che non sia solo parvenza.
La democrazia rappresentativa e i suoi istituti non sono più sufficienti
a offrire soluzioni ai problemi della società perché le rappresentanze
istituzionali non rappresentano più nessuno e si sono sclerotizzate in
apparati che ricordano da presso la cosiddetta “nomenclatura” dei paesi
del fu impero sovietico.
Se le prospettive di un’autogestione dei
produttori sono tramontate per sempre, perché coinvolgono
programmaticamente una parte sempre più ristretta della società, ma
soprattutto perché rischiano continuamente di riprodurre nei rapporti
reciproci tra le diverse entità autogestite i rapporti di competizione
tipici del mercato, un’integrazione e un arricchimento dei meccanismi
propri della democrazia formale non possono realizzarsi che attraverso
processi negoziali – che non escludono e, anzi, presuppongono il
conflitto, ma anche la sua temporanea conciliazione e una sua sempre
rinnovata riproposizione – in cui le singole componenti, i cosiddetti
stakeholder, possano valorizzare e far valere il patrimonio di
esperienza e di competenze di cui sono portatori. E’ un percorso in
divenire che non ha un punto di approdo perché la democrazia vive
attraverso la sua pratica.
Guido Viale, da inchiestaonline.it
(12 novembre 2012)