L’Ecuador sta vivendo una fase cruciale della sua nuova vita di paese cosciente dei propri mezzi sociali, culturali ed economici e consapevole di poter arrivare a garantire a tutti i cittadini democrazia e dignità di vita.
Da una parte c’è il Governo di Rafael Correa, che punta a gestire le risorse naturali del sottosuolo in nome dello sviluppo economico per tutti gli ecuadoriani, dall’altro i movimenti indigeni, che rigettano i ragionamenti economici e pensano solo basandosi sulla difesa appassionata dell’armonia fra uomo e natura. Al di là dei numeri e dei confronti tra la marcia indigena “per l’acqua, la vita e la dignità” e la contromanifestazione governativa “in difesa della democrazia”, la prova di forza a cui si è assistito nelle ultime settimane in Ecuador ripropone un tema chiave nell’attuale panorama latinoamericano.
Da un lato i governi socialisti che puntano a recuperare la sovranità sulle risorse naturali per sfruttarle e investire gli ingenti ricavi in opere infrastrutturali e servizi di base. Dall’altro, i movimenti indigeni e contadini che non ci stanno a ragionare in termini meramente economici, appellandosi al buen vivir e ai diritti della natura. Un confronto che in Ecuador è sfociato nelle manifestazioni e negli scontri, non solo verbali, dei giorni scorsi.
In nome della crescita, l’attuale presidente Rafael Correa ripropone un modello economico estrattivista con una variante fondamentale rispetto al passato. I profitti dell’estrazione di petrolio, gas e metalli preziosi non finiscono più nelle tasche di multinazionali straniere e politici corrotti ma ingrossano le casse di uno Stato che può così costruire strade, fognature, case popolari e soddisfare i bisogni primari delle fasce più povere della popolazione. In sintesi, uno stato socialista imperniato su un modello produttivo capitalista. Una formula che sta dando risultati significativi nel breve termine. La povertà è scesa di nove punti percentuali, l’occupazione è in costante crescita, il prodotto interno lordo è aumentato dell’8 per cento e la forbice tra ricchi e poveri si è ridotta.
Ma qual è nel lungo periodo il futuro di uno Stato che continua a basare la propria economia sull’estrazione e vendita di petrolio, gas e rame? Che fine fanno i beni comuni, i diritti della natura e la plurinazionalità, promossi da una Costituzione all’avanguardia? Non si tratta di questioni semantiche ma di temi che, a detta di dirigenti indigeni e intellettuali dello spessore di Alberto Acosta, ex presidente dell’Assemblea costituente, sono determinanti per la costruzione di un modello di sviluppo egualitario e sostenibile.
I nodi al pettine del governo sono in tal senso molteplici. Primo tra tutti, l’attuale assetto economico produttivo che non appare conciliabile con quel principio del buen vivir che lo stesso Correa ha voluto nel preambolo dell’attuale Costituzione. Un’eredità indigena che mira all’armonia tra uomo e natura e su cui il presidente voleva inizialmente incentrare lo Stato nuovo che si apprestava a costruire. In secondo luogo, il ruolo secondario attribuito alle comunità indigene nella costruzione di un nuovo modello di sviluppo. Secondo quanto previsto dalla Costituzione ecuadoriana e dalla Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, il governo ha l’obbligo di consultare i popoli nativi quando si appresta ad adottare misure che li riguardano direttamente. Un principio che vale soprattutto nel caso di attività di esplorazione ed estrazione di risorse presenti nel sottosuolo. In più occasioni il governo ha però mostrato un certo fastidio verso questo principio, sostenendo che un gruppo di “cittadini” non può porre il veto allo sviluppo di un intero paese. Per finire, rimangono congelate in parlamento le leggi per un’equa redistribuzione delle terre e delle risorse idriche, al fine di ridurre l’impatto sociale ed economico del latifondo e per far sì che l’acqua non sia un diritto umano soltanto per chi legge l’articolo 12 della Costituzione, ma per tutti i cittadini ecuadoriani, ad iniziare da indigeni e contadini a cui l’accesso all’acqua è spesso negato perché concentrato nelle mani di pochi latifondisti.
Nonostante il movimento indigeno ecuadoriano abbia sofferto negli ultimi anni di una grave crisi di rappresentanza, dovuta a scelte politiche errate e ad una dirigenza poco lungimirante che non ha capito l’importante momento storico avviato con la presidenza Correa, è dunque evidente che le richieste avanzate oggi dai popoli nativi e dai movimenti sociali non possono essere liquidate come semplici congetture destabilizzanti che mirano a sovvertire l’ordine democratico. Anche perché quello che chiedono gli indigeni non è un cambio di governo, ma un cambio di rotta di questo governo.
Correa farebbe bene dunque a riaprire il dialogo con i popoli nativi e a costruire uno Stato davvero plurinazionale. E dovrebbe farlo per almeno due ragioni. La prima è che questo modello estrattivista non è sostenibile nel lungo periodo perché le risorse non rinnovabili, com’è evidente, sono destinate ad esaurirsi e perchè lo stesso correismo è destinato a concludersi. La seconda, ancora più importante, è che è responsabilità di questo governo lasciare alle generazioni future un paese nuovo, con un assetto industriale indipendente dai sacchi d’oro su cui è seduto, in grado di produrre beni e servizi e soprattutto in grado di trovare un equilibrio nuovo tra economia e ambiente, un equilibrio basato appunto sul buen vivir.
Altrimenti il rischio concreto è che il nuovo Ecuador di Rafael Correa duri meno di una primavera.
Da una parte c’è il Governo di Rafael Correa, che punta a gestire le risorse naturali del sottosuolo in nome dello sviluppo economico per tutti gli ecuadoriani, dall’altro i movimenti indigeni, che rigettano i ragionamenti economici e pensano solo basandosi sulla difesa appassionata dell’armonia fra uomo e natura. Al di là dei numeri e dei confronti tra la marcia indigena “per l’acqua, la vita e la dignità” e la contromanifestazione governativa “in difesa della democrazia”, la prova di forza a cui si è assistito nelle ultime settimane in Ecuador ripropone un tema chiave nell’attuale panorama latinoamericano.
Da un lato i governi socialisti che puntano a recuperare la sovranità sulle risorse naturali per sfruttarle e investire gli ingenti ricavi in opere infrastrutturali e servizi di base. Dall’altro, i movimenti indigeni e contadini che non ci stanno a ragionare in termini meramente economici, appellandosi al buen vivir e ai diritti della natura. Un confronto che in Ecuador è sfociato nelle manifestazioni e negli scontri, non solo verbali, dei giorni scorsi.
In nome della crescita, l’attuale presidente Rafael Correa ripropone un modello economico estrattivista con una variante fondamentale rispetto al passato. I profitti dell’estrazione di petrolio, gas e metalli preziosi non finiscono più nelle tasche di multinazionali straniere e politici corrotti ma ingrossano le casse di uno Stato che può così costruire strade, fognature, case popolari e soddisfare i bisogni primari delle fasce più povere della popolazione. In sintesi, uno stato socialista imperniato su un modello produttivo capitalista. Una formula che sta dando risultati significativi nel breve termine. La povertà è scesa di nove punti percentuali, l’occupazione è in costante crescita, il prodotto interno lordo è aumentato dell’8 per cento e la forbice tra ricchi e poveri si è ridotta.
Ma qual è nel lungo periodo il futuro di uno Stato che continua a basare la propria economia sull’estrazione e vendita di petrolio, gas e rame? Che fine fanno i beni comuni, i diritti della natura e la plurinazionalità, promossi da una Costituzione all’avanguardia? Non si tratta di questioni semantiche ma di temi che, a detta di dirigenti indigeni e intellettuali dello spessore di Alberto Acosta, ex presidente dell’Assemblea costituente, sono determinanti per la costruzione di un modello di sviluppo egualitario e sostenibile.
I nodi al pettine del governo sono in tal senso molteplici. Primo tra tutti, l’attuale assetto economico produttivo che non appare conciliabile con quel principio del buen vivir che lo stesso Correa ha voluto nel preambolo dell’attuale Costituzione. Un’eredità indigena che mira all’armonia tra uomo e natura e su cui il presidente voleva inizialmente incentrare lo Stato nuovo che si apprestava a costruire. In secondo luogo, il ruolo secondario attribuito alle comunità indigene nella costruzione di un nuovo modello di sviluppo. Secondo quanto previsto dalla Costituzione ecuadoriana e dalla Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, il governo ha l’obbligo di consultare i popoli nativi quando si appresta ad adottare misure che li riguardano direttamente. Un principio che vale soprattutto nel caso di attività di esplorazione ed estrazione di risorse presenti nel sottosuolo. In più occasioni il governo ha però mostrato un certo fastidio verso questo principio, sostenendo che un gruppo di “cittadini” non può porre il veto allo sviluppo di un intero paese. Per finire, rimangono congelate in parlamento le leggi per un’equa redistribuzione delle terre e delle risorse idriche, al fine di ridurre l’impatto sociale ed economico del latifondo e per far sì che l’acqua non sia un diritto umano soltanto per chi legge l’articolo 12 della Costituzione, ma per tutti i cittadini ecuadoriani, ad iniziare da indigeni e contadini a cui l’accesso all’acqua è spesso negato perché concentrato nelle mani di pochi latifondisti.
Nonostante il movimento indigeno ecuadoriano abbia sofferto negli ultimi anni di una grave crisi di rappresentanza, dovuta a scelte politiche errate e ad una dirigenza poco lungimirante che non ha capito l’importante momento storico avviato con la presidenza Correa, è dunque evidente che le richieste avanzate oggi dai popoli nativi e dai movimenti sociali non possono essere liquidate come semplici congetture destabilizzanti che mirano a sovvertire l’ordine democratico. Anche perché quello che chiedono gli indigeni non è un cambio di governo, ma un cambio di rotta di questo governo.
Correa farebbe bene dunque a riaprire il dialogo con i popoli nativi e a costruire uno Stato davvero plurinazionale. E dovrebbe farlo per almeno due ragioni. La prima è che questo modello estrattivista non è sostenibile nel lungo periodo perché le risorse non rinnovabili, com’è evidente, sono destinate ad esaurirsi e perchè lo stesso correismo è destinato a concludersi. La seconda, ancora più importante, è che è responsabilità di questo governo lasciare alle generazioni future un paese nuovo, con un assetto industriale indipendente dai sacchi d’oro su cui è seduto, in grado di produrre beni e servizi e soprattutto in grado di trovare un equilibrio nuovo tra economia e ambiente, un equilibrio basato appunto sul buen vivir.
Altrimenti il rischio concreto è che il nuovo Ecuador di Rafael Correa duri meno di una primavera.
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