Caccia all’oro blu
La
disputa per il controllo delle fonti d’acqua in America latina
Se il novecento
è stato indubbiamente il secolo del petrolio, l’acqua, fonte di vita e bene
irrinunciabile per l’umanità intera, si può già considerare l’ ”oro blu” del
ventunesimo secolo. In uno scenario in cui la penuria di risorse idriche a
livello mondiale coincide con un progressivo aumento della loro domanda, il
“valore di mercato” dell’acqua è cresciuto in modo esponenziale, tanto da portare
alla nascita di un’inedita classe di imprenditori e affaristi “cacciatori
d’acqua”, specializzati nella compravendita dell’”oro blu”.
Alla logica del
mercato non può sottrarsi nemmeno l’America latina. Come è noto, il subcontinente
può contare su riserve idriche imponenti: il Rio delle Amazzoni, il Paranà e
l’Orinoco sono tra i fiumi più importanti al mondo e il solo Brasile possiede la
quinta parte di tutta l’acqua del pianeta; il lago Titicaca, che si estende tra
il Perù e la Bolivia,
e quello di Maracaibo (Venezuela) soddisfano da soli il fabbisogno di acqua di
milioni di persone.
Di conseguenza,
stando a questi dati, la popolazione latinoamericana dovrebbe poter disporre di
una quantità di acqua pari a circa 3.100 metri cubi
annui pro capite, mentre secondo le statistiche il valore ufficiale è di soli 29 metri cubi. E’ questo
uno dei più grandi paradossi dell’America latina: una terra ricchissima di fonti
idriche, i cui abitanti non sono però in grado di disporre della loro acqua in
modo adeguato e “democratico”.
Secondo fonti
ONU, attualmente in tutta l’America latina ci sono ancora 130 milioni di
persone che non hanno accesso all’acqua potabile. La situazione più critica è
quella del Brasile: la nazione che possiede la più grande riserva di acqua dolce
al mondo deve affrontare addirittura il rischio di razionamento nelle grandi
città; e questo accade non solo a causa dell’eccessiva distanza delle sorgenti
ma soprattutto perché l’acqua, sempre più sottratta al consumo domestico, viene
preferibilmente “dirottata” verso l’utilizzo agro-industriale, sotto la
gestione delle imprese transnazionali.
Nei paesi
dell’area latinoamericana operano numerose aziende europee che gestiscono le
reti idriche per la fornitura pubblica dell’acqua. La maggior parte di queste imprese
private sono filiali locali che fanno capo alle tre principali corporation del settore a livello
globale: le francesi Suez e Vivendi che controllano più del 70% del mercato
mondiale dei servizi idrici, e la tedesca RWE-Thames. Questi tre “giganti”, che
forniscono acqua a circa 300 milioni di utenti in 130 paesi, si situano tra le
100 multinazionali più ricche, con un introito totale di quasi 160.000 milioni
di dollari [dati del 2002] e con un tasso di crescita del 10% annuo.
Le battaglie per l’acqua pubblica.
In America
latina, la corsa all’accaparramento delle fonti d’acqua da parte delle
multinazionali ha una lunga storia. Tuttavia, il caso più eclatante - e
drammatico per le sue conseguenze sociali - si verificò in Bolivia nel 2000, quando
la Banca Mondiale
impose al governo del paese andino la privatizzazione dei servizi idrici in
cambio della concessione di un prestito di 25 milioni di dollari. Qualche mese
dopo nella regione di Cochabamba, una tra le area più povere della Bolivia e
popolata da mezzo milione di persone, l’intera rete di distribuzione dell’acqua
fu acquistata dall’impresa statunitense Bechtel. Nel giro di poco, il prezzo
delle tariffe aumentò a tal punto da scatenare l’ira di decine di migliaia di
abitanti. La protesta culminò in una serie di gravi disordini,
e in uno
sciopero generale che paralizzò la città. Alla fine delle ostilità, Bechtel fu
costretta a cedere e a fare le valigie dalla Bolivia.
In molte altre
zone del subcontinente, associazioni di consumatori e gruppi di iniziativa
civile continuano a portare avanti - con alti e bassi - la loro estenuante
lotta contro la privatizzazione dell’acqua pubblica. In Argentina, le
associazioni di consumatori si oppongono da un decennio alla privatizzazione degli
impianti dell’acqua corrente da parte della Suez-Lyonnaise, “che ha provocato col
tempo l’inquinamento del Rio de la
Plata, oltre che un meccanismo di corruzione generalizzata e
di profitti privati senza precedenti […].”*
Nel 2004 in Uruguay,
un’alleanza di lavoratori ed associazioni ha promosso un referendum nazionale
per chiedere una riforma costituzionale che sancisse l’acqua come “diritto
umano e bene pubblico”, per sottrarla alla grinfie delle imprese. In quella
consultazione più del 60% della cittadinanza uruguaiana votò a favore della
riforma, e dunque contro la privatizzazione dell’acqua. In Cile, al contrario, si
susseguono le proteste da parte delle organizzazioni ecologiste e civili per la
svendita delle reti fluviali. Già durante il regime di Pinochet, l’80% dei fiumi
cileni fu ceduto al settore privato, principalmente alla compagnia spagnola
ENDESA, per la produzione di energia idroelettrica.
Gli abitanti
delle zone più povere del Perù hanno intrapreso da anni una lotta senza
quartiere contro le imprese erogatrici, a causa dei livelli proibitivi che hanno
raggiunto le tariffe della loro acqua. A Lima, la gente povera arriva a pagare
l’acqua - per giunta molto inquinata - fino a 3 dollari al metro cubo dovendosi
anche preoccupare del suo trasporto, tutto a spese proprie.
In Guatemala,
nella zona della frontiera con il Messico, contadini, lavoratori ed ecologisti
protestano da anni contro la costruzione di cinque dighe sul Rio Usumacinta, il
più grande fiume della regione. Oltre allo sfruttamento idroelettrico il mega progetto,
facente capo al faraonico Piano Puebla Panamà (PPP), prevede la costruzione di un
sistema di acquedotti diretti alla penisola dello Yucatan, dove gli immensi
latifondi di prodotti d’esportazione richiedono ingentissime quantità d’acqua
per l’irrigazione. Secondo le organizzazioni ecologiste, i danni finora causati
all’ecosistema guatemalteco per la realizzazione di questa grande opera sono
incalcolabili.
Non così
distante dal bacino dell’Usumacinta, “la popolazione indigena del Chiapas
(Messico) ha intrapreso una dura battaglia contro “Coca Cola”, che vorrebbe
assicurarsi il controllo delle riserve acquifere della regione. In una nazione
dove la maggior parte della popolazione deve sopportare il razionamento
dell’acqua, più del 30% del consumo di acqua dolce si concentra proprio nello
stato del Chiapas, dove la multinazionale si è saldamente insediata facendo
pressioni sui governi locali per ottenere le concessioni necessarie ad acquisire
la proprietà privata sulle sorgenti d’acqua.”*
Spesso la Banca Mondiale e il BID (Banca
Interamericana dello Sviluppo) agevolano l’ingresso delle multinazionali nei
mercati latinoamericani. Tanto Suez come Vivendi ricorrono alla loro influenza
presso gli enti creditizi multilaterali affinché l’erogazione privata dell’acqua
diventi la “condizione” per la remissione di un debito o per la concessione di
nuovi prestiti a favore dei governi locali. “Il BID, ad esempio, vanta [nella
regione latinoamericana] crediti per 58.000 milioni, ciò gli conferisce lo
straordinario potere di imporre la privatizzazione dell’acqua ai municipi “disperati”.
E in effetti, alcuni dei prestiti più sostanziosi concessi dal BID nello scorso
decennio erano direttamente destinati
alle multinazionali, con lo scopo di cominciare i processi di privatizzazione
dell’acqua in paesi come l’Argentina, la Bolivia e l’Honduras.”*
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