A distanza di trent’anni dalla tragedia di Bhopal non solo la giustizia resta lontana per quanti sono
stati direttamente coinvolti, ma il paese nel suo complesso non ha
raggiunto una reale comprensione dei problemi evidenziati da
quell’evento, costato finora 20-25.000 vite umane.
Sunita Narain, direttore del Centro per
la scienza e per l’ambiente (Centre for Science and Environment, Cse),
organizzazione indipendente di studi e progetti ambientali con sede a
New Delhi, non ha dubbi: “L’India post-Bhopal ha migliorato la propria
legislazione riguardo a disastri provocati dalle industrie chimiche e
anche la sicurezza dei lavoratori, tuttavia si tratta di un impegno
ampiamente incompleto. Trent’anni dopo, siamo lontani da una soluzione
del dramma di Bhopal e non per quanto successo quella notte fatale, ma
perché la risposta è stata incompetente e insensibile. Il risultato è
che Bhopal vive una doppia tragedia: quella immediata del 1984 e l’altra
che si è sviluppata negli anni”.
Affermazioni che gettano un’ombra lunga
sulla rincorsa all’industrializzazione del paese, mentre fatica a
comprendere la lezione di Bhopal.
“La fuga di gas tossico di trent’anni fa è
stato il maggiore disastro industriale dell’India. Fino ad allora, i
governi avevano gestito alluvioni, cicloni e terremoti. Di conseguenza
si trovarono impreparati. La Legge per la protezione ambientale del 1986
è stato il primo provvedimento specifico, che ha dato alle autorità
centrali la possibilità di proibire o regolare ogni iniziativa
industriale. Gli emendamenti del 1987 hanno consentito ai vari Stati di
costituire comitati per valutare la localizzazione di industrie
potenzialmente dannose, oltre a porre in atto sistemi per la
salvaguardia dei lavoratori e dei residenti. Nel 1989 il paese si è
dotato dei Regolamenti per la gestione e il trattamento di rifiuti
nocivi e dal 1991 della Legge per l’assicurazione sulla responsabilità
civile consente assistenza immediata a persone che siano interessate da
incidenti a contatto con sostanze nocive, prevedendo un apposito fondo
di emergenza a livello nazionale”.
“Tuttavia – prosegue l’ambientalista –
nonostante le leggi e i regolamenti in vigore, l’India sta rapidamente
perdendo la battaglia riguardo la produzione e la gestione di sostanze
pericolose per la salute e per l’ambiente. Gli incidenti industriali
continuano a ripetersi con frequenza, spesso non denunciati, e la
contaminazione di terreni e falde acquifere è un problema crescente. Nel
2010, il ministero per l’Ambiente e le foreste ha individuato dieci
siti con migliaia di tonnellate di scarichi nocivi”.
Oggi, le conseguenze della tragedia di
trent’anni fa che ancora coinvolgono la popolazione di Bhopal, nel
frattempo raddoppiata arrivando a sfiorare i due milioni di abitanti,
riguardano 120.000 superstiti con tracce indelebili della contaminazione
e oltre mezzo milione di abitanti complessivamente interessati dalla
fuga nell’aria di 40 tonnellate di isocianato di metile nella notte tra
il 2 e il 3 dicembre 1984. Tuttavia, la città è minacciata da una
catastrofe almeno equivalente. Sono almeno 20.000 gli abitanti che
vivono a ridosso dell’impianto dismesso ma mai bonificato.
“Si calcolano in 350.000 tonnellate le
sostanze scaricate dentro e fuori l’impianto in 15 anni di attività
della fabbrica – segnala Sunita Narain -. Nel 2009, Cse ha condotto una
ricerca indipendente in loco e ha riscontrato elevati livelli di
contaminazione del suolo e dell’acqua sul sito della Union Carbide e
nelle aree circostanti. Elementi contaminanti come pesticidi, composti
di cloro e di benzene e metalli pesanti, tutti riferibili ai processi
produttivi”. Ciononostante, e nonostante un gran numero di procedimenti
legali, denunce e impegni, la bonifica non ha veri responsabili e
finanziatori possibili.
Un accordo extragiudiziale della Union
Carbide con il governo di New Delhi nel 1989 (470 milioni di dollari) ha
chiuso ogni contenzioso che riguardava la multinazionale, acquistata
dalla statunitense Dow Chemical dopo avere ceduto nel 1994 le sue
attività indiane a una consociata che a sua volta ha cambiato nome e
struttura ma che non ha mai prodotto nulla nell’impianto che ancora
domina la città.
Una doppia beffa per le vittime ancora in
vita della catastrofe, per i nati negli anni con gravi malformazioni e
per la cittadinanza a rischio di quella che per gli ambientalisti è
“Bhopal 2.0”, ovvero una catastrofe annunciata.
“Il sistema che impone la responsabilità
aziendale non può restare inadeguato quando nuove e a volte poco
affidabili tecnologie continuano a porre nuove sfide. Se questo non è
possibile, lo Stato deve provvedere onerose soluzioni di salvaguardia
umana e ambientale, a costo di rendere non competitive le iniziative
produttive. L’insegnamento di Bhopal deve essere che ogni tecnologia
deve pagare i costi reali dei rischi presenti e futuri che pone”.
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