sabato 25 maggio 2013

Capaci, 21 anni dopo

Il 23 maggio 1992 qualcuno trasformò un'azione di vendetta mafiosa in un atto di brutale manifestazione politica, cioè in una strage. Il "doppio livello" dello stragismo e dell'omicidio politico ha garantito l'impunità ai mandanti, lasciando i processi irrisolti e un Paese in cerca di verità

"La strage di Capaci è al 90% di mafia, il resto lo hanno messo altri, per quella di via D'Amelio siamo 50 e 50 e per le stragi sul continente la percentuale mafiosa scende vertiginosamente".
Luca Cianferoni, avvocato di Toto' Riina, 2010.

La strage di Capaci non fu opera solo degli uomini di Toto Riina: ormai si può affermare questa verità oltre ogni ragionevole dubbio.
Un uomo della Gladio siciliana mi ha parlato concretamente di un "doppio livello" nella strage di Capaci. Lo incontrai nel maggio del 2010 e durante una lunga conversazione mi disse: "non penserà mica che fu opera soltanto di quattro mafiosi?". Qualche anno prima il boss Giovanni Brusca, l'uomo che schiacciò il telecomando appostato sulla collinetta a ridosso della strada, aveva ribadito, tanto tempo dopo, la sua incredulità per il "successo" dell'assalto. Disse così al magistrato Luca Tescaroli: "Quattro stupidi...quattro stupidi, perché poi alla fine eravamo...un po' di persone, in maniera molto rozza...in maniera artigianale, siamo riusciti a portare a termine un attentato così importante". Non poteva ancora crederci che avevano fatto tutto da soli.
L'agguato teso all'auto di Giovanni Falcone, tecnicamente un'imboscata, fu realizzato in un teatro di guerra allestito dai migliori artificieri. Fu una operazione militare, un atto di strategia della tensione: una mano fu mafiosa, l'altra no. Qualcuno trasformò un'azione di vendetta mafiosa in un atto di brutale manifestazione politica, cioè in una strage. Partecipò a tutte le fasi organizzative dell'azione anche Pietro Rampulla, il mafioso addestrato da Ordine nuovo, il servizio segreto clandestino di stampo neofascista: ma il 23 maggio non poté stare al fianco dei suoi complici perché "aveva impegni familiari", sfilandosi così dalla scena e mandando Brusca a schiacciare il telecomando.

Dobbiamo ricordare che dalle numerose e diverse dichiarazioni dei pentiti non è possibile stabilire il momento dell'ideazione di quel tipo di strage. Come si arrivò alla decisione di fare una strage per ammazzare Falcone? La trappola mortale contro il nemico storico di Cosa nostra era già pronta prima del 23 maggio 1992. Un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani nel febbraio del 1992 era stato inviato a Roma per fare fuoco su Giovanni Falcone con le armi tradizionali: niente esplosivo, niente botti, solo i proiettili mafiosi avrebbero dovuto abbattere l'uomo che più di tutti aveva penetrato i segreti dei boss e scardinato il loro tradizionale assetto di potere. Ma un giorno Salvatore Biondino, il luogotenente di Toto Riina, va ad incontrare Francesco Cancemi e Raffaele Ganci al cantiere di Piazza Principe di Camporeale e gli comunica che il padrino aveva intenzione di passare all'esecuzione del progetto di uccidere il magistrato con un ordigno esplosivo lungo l'autostrada da Punta Raisi per Palermo. Dunque, tutto era stato attentamente preordinato. Il momento dell'ideazione del progetto criminale di Capaci viene solo comunicato alle famiglie che poi avrebbero cooperato per realizzarlo; ma nessuno tra tutti coloro che lo attuano può raccontare il momento in cui viene elaborata quell'idea così originale e senza precedenti del delitto, e questo semplicemente perché l'idea gli viene suggerita dall'estero. Dice sempre Giovanni Brusca, l'uomo del telecomando, che il posto dove fare l'attentato "non l'ha scelto lui". Sostiene che in una riunione a casa di Girolamo Guddo, il 20 febbraio prima della strage, scopre che "Cancemi, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci avevano parlato della possibilità dell'autostrada". Non sa che Cancemi e Ganci, come tutti gli altri, avevano solo ricevuto le istruzioni per realizzare l'attentato in quel modo. Ma il "suggeritore" non si sa chi sia e che gente frequenti.

Ci sono poi strani oggetti sulla scena del crimine: un sacchetto di carta di colore bianco che conteneva una torcia a pile, un tubetto di alluminio con del mastice di marca Arexons e due guanti in lattice, evidentemente usati. Chi li aveva usati? E per fare cosa? I giudici scrivono considerazioni molto interessanti: innanzitutto, notano che quelle cose non possono essere state lasciate lì dal giorno in cui sicuramente tutto fu predisposto e ultimato (e dopo il quale i mafiosi non tornarono , l'8 di maggio, perché "sicuramente le intemperie, frequenti in quel periodo sulla zona, avrebbero determinato la lacerazione del contenitore, che lo si deve ricordare, era di carta". Dunque, non potevano essere strumenti impiegati dai killer della mafia. Secondo loro è proprio "da escludere che gli imputati (...) avessero lasciato quegli oggetti proprio in prossimità del cunicolo, perché si sarebbe trattato di una macroscopica distrazione, inconcepibile a fronte dell'emergere dalla descrizione di tutte le operazioni che si sono via via susseguite nel corso dei preparativi, di una meticolosa e puntuale cura nell'evitare che potessero restare tracce delle azioni compiute".

Il ritrovamento di questi oggetti particolari, lasciati lì sicuramente nelle ore di poco precedenti l'esplosione, è molto importante se si considera un'altra strana circostanza: alcuni testimoni hanno denunciato che il giorno precedente proprio nell'area della strage, ma a livello della strada, non in quello sottostante dove erano state condotte le operazioni di caricamento del cunicolo, era stato notato un furgone Ducato di colore bianco e alcune persone che apparentemente erano concentrate ad eseguire dei lavori. Fu anche deviato il corso delle automobili di passaggio, furono usati birilli per spartire il traffico. Lo hanno spiegato i testimoni indicati con i numeri d'ordine 26 e 27 e il loro racconto si riferisce a ciò che vedono il 22 maggio 1992, intorno alle ore 12: ma per Brusca e compagnia non c'è alcuna necessità di lavorare lungo la corsia, il loro lavoro si era concentrato a livello dell'imbocco del cunicolo, al di sotto nel livello stradale. E poi loro erano pronti già da tempo. Per di più, fu subito accertato che in quei giorni non erano in corso lavori di nessun genere e perciò si deve sicuramente escludere qualsiasi attività di manutenzione stradale, ordinaria o straordinaria: in pratica ci fu "un secondo cantiere, senza volto né nomi" e tuttavia anch'esso attivato con ogni probabilità per provocare la strage.

E ancora, l'esplosivo. Anche qui i conti non tornano. Sono state ritrovate tracce di nitroglicerina, un componente che non fa parte di nessuna delle due componenti che costituiscono la carica: ma la nitroglicerina rafforza la detonabilità della carica. L'esplosivo con cui è stato riempito il cunicolo che passava sotto l'autostrada in prossimità di Capaci era di due tipi: c'era l'ANFO, vale a dire il Nitrato di Ammonio addizionato a cherosene - in alcuni bidoncini fu messo allo stato puro - e c'era poi il tritolo, procurato da Biondino e recuperato dalle mine giacenti sotto il mare che venivamo trovate in grandi quantità dai pescatori, secondo una modalità raccontata minuziosamente da Gaspare Spatuzza (un racconto proprio identifico a quello del pentito di Piazza Fontana, Carlo Digilio, sull'esplosivo usato per la strage del '69!). Le indagini non si sono mai concluse: nel novembre del 2012 è stato arrestato Cosimo D'Amato, il pescatore di Santa Flavia che oltre al pesce tirava su anche le vecchie bombe. D'Amato è stato accusato dalla procura di Firenze di aver fornito in modo continuativo l'esplosivo usato per le stragi del '93, almeno quella parte proveniente dai recuperi in mare. Perché le vie degli esplosivi erano diverse: c'era quello da cava e poi quello più sofisticato, come il Semtex, proveniente dai traffici internazionali. Oltra alle tracce di nitroglicerina, ci sono poi quelle di T4, un esplosivo noto anche con RDX utilizzato soprattutto per scopi militari, che nel cratere di Capaci non viene unito ad altre sostanze e che potrebbe essere stato usato per aumentare la detonabilità della carica o come legante esplosivo fra le frazioni di carica. Inizialmente si era pensato che il T4 fosse presente unito al tritolo con cui può formare un composto chiamato Compound B ma poi l'ipotesi è stata scartata perché il tritolo, come abbiamo detto, era stato sicuramente messo da solo nei bidoncini: in pratica, l'uso del T4 sembrerebbe essere stato aggiunto all'esplosivo trovato dai due gruppi di mafiosi per rendere più micidiale la carica. Sia la pentrite che il T4 sono, infatti, sostanze non compatibili con quelle descritte dai pentiti con le quali è stato riempito il cunicolo.
Con quel materiale in più, la strage era assicurata. Falcone sarebbe morto sicuramente.
Ci spingemmo su "un terreno che non era il nostro", raccontò poi a proposito delle stragi di mafia il pentito Gaspare Spatuzza. Era il terreno del doppio livello quello che si realizza quando siedono ad uno stesso tavolo entità diverse, interessate a cooperare ad uno stesso identico progetto criminale con scopi spesso diversi.

Nel "doppio livello" c'è la regia degli eventi politici, quella che non siamo mai riusciti ad afferrare. Il "doppio livello" dello stragismo e dell'omicidio politico ha garantito l'impunità ai mandanti, lasciando sempre l'opinione pubblica smarrita e confusa, irrisolti i processi giudiziari e un Paese da sempre in cerca delle sue verità. Nelle cospirazioni nate in quel modo, per essere cioè realizzate con l'apporto di mani diverse, la trama diventa impossibile da sbrogliare, la complicità finale di tutti permette di lasciare il delitto senza una apparente firma e l'esecutore, che sia il neofascista degli anni 70 o il boss mafioso della fine dello scorso secolo, si trova coinvolto in un'azione attentamente progettata sulla base di tante informazioni, come sanno fare i servizi segreti o tutte quelle agenzie affini, tanto che non potrà mai provare la sua estraneità. Se non vuole ammettere di essere stato manipolato, deve solo tacere e pagare
Stefania Limiti,
Cado in piedi - La comunità degli autori

mercoledì 22 maggio 2013

il marxista della CEI


Il mio sguardo è tarato, va sempre a chi è in fondo alla fila. Durante un'assemblea feci il mio accalorato intervento, che come al solito qualcuno ha scambiato per comizio politico: "Bisogna esaminare seriamente le situazioni degli emarginati, che il nostro sistema di vita ignora, persino coltiva. Anziani, handicappati, tossicodipendenti,  dimessi dal carcere e dagli ospedali psichiatrici: perché accrescere ulteriormente la folla dei nuovi poveri? Perché la società attuale risponde così poco ad un'emarginazione clamorosa? Con gli ultimi e con gli emarginati potremo recuperare tutti un genere di vita diverso; demoliremo innanzitutto gli idoli che ci siamo costruiti: denaro, potere, consumo, spreco, tendenza a vivere al di sopra delle nostre possibilità. Riscopriremo i valori del bene comune, della tolleranza, della solidarietà, della giustizia sociale e della corresponsabilità".
A quel punto, nel salone, si alzò in piedi un giovane prete e urlò: "Basta venire qui a fare il marxista. Rispetti l'ambiente cattolico in cui si trova e opera!".

Allora risposi: "Mi scuso molto, ho dimenticato di citare la fonte: La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, documento del Consiglio Permanente della CEI, Roma 23 ottobre 1981".

Così in terra, come in cielo (Mondadori 2010)

sabato 18 maggio 2013

La morte di Videla il dittatore


videla

Ha rivendicato i 7mila omicidi politici (ne hanno stimati 30mila), ma è morto in carcere dopo la condanna per “furto di neonati” - Associato alla P2 di Gelli, che ripulì la sua immagine mediatica e diplomatica in Italia, ebbe l’appoggio di molti governi occidentali e (secondo lui) della Chiesa…

È morto a 87 anni in un carcere comune, senza privilegi; unica consolazione per i familiari di decine di migliaia di argentini morti o «desaparecidos», eufemismo che dicono avesse inventato lo stesso generale Jorge Rafael Videla, nella stolta speranza di far credere che uno scomparso fosse un forse vivo. Videla è stato il primo dei quattro dittatori che si sono alternati nella giunta militare che ha governato l'Argentina dal 1976 al 1983. Ma oltre ad aver tenuto il potere più a lungo, è stato il padre di tutta la tragedia: la guerra senza limiti agli oppositori, il terrore tra familiari e semplici vicini di casa dei «nemici», le tecniche per non lasciar tracce degli omicidi, come i cosiddetti voli della morte, dove si gettavano i corpi degli assassinati dagli aerei nel Río de la Plata; fino all'inarrivabile idea di togliere i neonati alle ragazze condannate alla morte, per darli in adozione alle famiglie amiche del regime. Ed è stato forse grazie a questo crimine unico nella storia delle dittature - i casi sarebbero oltre 300 - che la società argentina ha infine rifiutato l'amnistia che era stata concessa a Videla e complici a una manciata di anni dai fatti, e i processi sono stati riaperti, nei recenti governi di Néstor e Cristina Kirchner. Non importando grado o età anagrafica degli uomini alla sbarra. Videla si è spento ieri mattina, di morte naturale, nel penitenziario della città di Marcos Paz, sotto il peso delle condanne definitive e con altri processi ancora pendenti. La più significativa è proprio la sentenza sul furto di neonati, finalmente emessa nel luglio dello scorso anno: cinquant'anni di carcere per i 18 casi accertati ufficialmente. In precedenza, gli erano stati attribuiti altri omicidi di oppositori, mentre era ancora in corso il processo sul «Piano Condor», cioè l'accordo tra le dittature sudamericane dell'epoca per eliminare gli oppositori in modo coordinato. In quel periodo, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, lo sguardo hitleriano di Videla, la brillantina e il baffo folto sono l'immagine del pacchetto latinoamericano composto da ordine, anticomunismo, Dio, patria e famiglia quanto lo sono i Rayban di Augusto Pinochet o le pacchiane uniformi cariche di medaglie del paraguayano Alfredo Stroessner. Qualcosa che nel clima della Guerra fredda era tollerato e giustificato da una parte dell'Occidente, in nome dell'argine al comunismo. Per questo i militari argentini usavano eufemismi come «piano di riorganizzazione nazionale» per spiegare la sospensione della democrazia e le maniere spicce contro chi la pensava diversamente. Di Jorge Videla tocca anche ricordare la furbizia con la quale, nei primi anni al potere, riuscì a costruire dell'Argentina dei militari un'immagine «tollerabile», rispetto ad altre dittature. Il doppio comportamento dei governi italiani dell'epoca ne è un esempio: fummo intransigenti con i golpisti cileni (e aperti a ricevere perseguitati in fuga), ma accondiscendenti con Videla e i suoi compari, fino a rifiutare i rifugiati nelle nostre sedi diplomatiche. L'Italia ha storicamente un legame forte con l'Argentina, ma alla circostanza non può essere estraneo un particolare di rilievo, l'appartenenza di Videla e di altri generali argentini alla loggia P2 di Licio Gelli, e l'influenza di quest'ultima sulla nostra diplomazia e sui mezzi d'informazione. Tra i quali, purtroppo, lo stesso Corriere. Pochi trovarono sconveniente, per esempio, quella coppa consegnata da Videla a capitan Passarella, dopo la vittoria ai Mondiali di casa del 1978. Una foto che ben rappresenta il clima di finta normalità dell'epoca. L'idea che la dittatura argentina, per esempio, fosse meno feroce di quella cilena perdurò - totalmente infondata - fino alla pubblicazione dei rapporti al ritorno della democrazia. Il governo di Videla fu inoltre una catastrofe dal punto di vista economico. Nulla si salva dunque nella biografia di Videla se non, forse, una coerenza da militare. Per sfuggire ai processi non si è finto demente come Pinochet, né ha finito i suoi giorni in una villa di Brasilia ricattando gli ospiti, come Stroessner. In una clamorosa intervista rilasciata l'anno scorso, Videla ha ammesso e rivendicato tutto con orgoglio, compresi gli omicidi politici (ne calcola però 7.000, contro i 30.000 delle stime ufficiali). Sostenendo per esempio che l'intervento delle forze armate e i suoi metodi di azione contro i guerriglieri di sinistra erano stati concordati con varie forze politiche dell'epoca, compresi i peronisti al governo. Imbarazzanti alcune sue parole sulle relazioni con la Chiesa cattolica, definite «cordiali, sincere e aperte»: le gerarchie argentine, disse, non «ci diedero problemi, perché non avevano seguito le tendenze di sinistra e terzomondista di altre Chiese del continente». Da cui le polemiche recenti, nei giorni dell'elezione di papa Francesco, sui rapporti con l'allora capo dei gesuiti argentini Jorge Bergoglio. Si è però rivelata del tutto falsa una fotografia dove si vede un sacerdote di spalle che dà la comunione al devotissimo Videla. Quel prete non era l'attuale Papa.
Rocco Cotroneo per il "Corriere della Sera"

martedì 14 maggio 2013

Dal Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero di Torino

Grande ed intensa partecipazione alla nostra marcia di sabato 11 MAGGIO contro l'inceneritore del Gerbido. Eravamo oltre il migliaio a camminare sotto il sole cocente tra Beinasco e piazza d'Armi.
Un lunghissimo corteo con i cori, la musica, i bimbi, le famiglie, gli automobilisti bloccati dal nostro passaggio che hanno capito che il messaggio era importante, le persone ai balconi che ci davano il loro supporto, i trattori della Coldiretti in fondo al corteo.
Un bellissima giornata che ha visto tutti soddisfatti, organizzatori, partecipanti, persino le forze dell'ordine davanti a noi sembravano quasi marciare insieme al corteo in piena armonia (e probabilmente anche in accordo sul motivo per cui eravami in tanti li' in quel momento, dietro a loro).

Vi segnaliamo alcuni link sullo svolgimento della giornata:
- Il servizio sul TG3
- 3 pagine di articoli su La Stampa: "Rifiuti,parte la guerra all’inceneritore". 

Ringraziamo di cuore tutti per la convinta partecipazione.

Nell'occasione alcune riflessioni.

Quante volte hanno cercato di rassicurare noi cittadini dicendoci che ci sono i filtri a bloccare le emissioni delle sostanze nocive, che i valori emessi sono a norme di legge. Poi nell'articolo del La Stampa allegato leggiamo (noi gia' lo sapevamo):
"400 mila euro È il costo annuo del programma sanitario coperto dagli enti locali e dall’azienda Trm"
"Effetti a breve termine: il periodo di studio va dal 2013 al 2018 e servirà per monitorare alcune patologie acute, la mortalità per cause naturali, respiratorie e cardiovascolari, i ricoveri ospedalieri per cause respiratorie e cardiovascolari. "
"Effetti a lungo termine: dal 2003 al 2022 saranno analizzate patologie come esiti riproduttivi, malformazioni congenite, mortalità, ricoveri ospedalieri."

Ma come? E' i filtri? E le emissioni a norma di legge? A noi tutti questi soldi sembrano un piano d'investimento per affrontare un'epidemia o una battaglia contro qualche invasore. E invece tutti questi soldi servono per tentare di difenderci da una ciminiera, quella dell'inceneritore.
Con gli oltre 500 milioni di euro del costo di costruzione dell'impianto e con i 400 mila euro del piano di monitoraggio sanitario si poteva tranquillamente potenziare e incentivare la raccolta differenziata su Torino e su tutti i comuni della cintura, costruire numerosi impianti per trattare il residuo dei rifiuti differenziati a freddo e risparmiare ancora parecchi soldi, senza nessun potenziale problema per la salute dei cittadini.
E poi ancora, se questo studio iniziera' a documentare un aumento di malattie tra i cittadini come la mettiamo ? Che consolazione avremo quando, se capitera', ci diranno (se mai ce lo diranno) che vicino all'inceneritore ci si sta ammalando di piu' di cancro ? Perche' dobbiamo fare da cavie quando dati abbastanza simili a questi sono gia' presenti per impianti non tanto diversi dal nostro del Gerbido?

Ancora una cosa.

Alcuni di voi il 2 maggio scorso ci hanno scritto dicendoci che stava uscendo fumo nerissimo dall'inceneritore, chiedendoci che cosa stesse capitando.
Ebbene, e' ufficiale:
TRM ha confermato che il 2 maggio alle ore 18 si è verificato un incidente tecnico al nuovissimo inceneritore del Gerbido di Torino

Eccoci, la storia si ripete, come capita a volte a questi impianti. Come e' capitato ad esempio a Brescia, l'8 agosto scorso

Anche qui da noi quindi e' avvenuto il primo incidente all'impianto, a 2 GIORNI DALLA SUA ENTRATA IN FUNZIONE. Il guasto è stato causato da un allagamento per colpa delle pioggie di quei giorni, presumibilmente dovuto al fatto che l'impianto e' stato avviato benche' NON ANCORA INTERAMENTE TERMINATO nella sua costruzione.
Comunque possiamo stare tranquilli. TRM, la societa' costruttrice dell'inceneritore, ha detto che e' stato un un guasto tenuto sotto controllo.
È stato altresì riferito che "le centraline di monitoraggio hanno funzionato", ma COSA abbiano rilevato (chissà perché) non è stato detto...
Nulla da temere insomma, come sempre.

Ciao a tutti

PS: ricordatevi di far girare le nostre comunicazioni e di informare in ogni occasioni nel vostro quotidiano i vostri amici sul discorso inceneritore.
Solo diffondendo le informazioni si riesce a dare a tutti la possibilita' di capire e di decidere quale posizione prendere.

Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino

--

--
NO INCENERITORE - SI RIFIUTI ZERO
==============================================================
Regola 5R (Riduci, Ripara, Riusa, Ricicla e Riprogettazione) verso l’obiettivo Rifiuti Zero
www.rifiutizerotorino.it
SPAZIO WEB PER DOCUMENTAZIONE CATALOGATA
www.zumodrive.com/share/cQnQODQzYT
ISCRIVITI AI GRUPPI FACEBOOK: NO INCENERITORE TORINO e ARIA BENE COMUNE
www.facebook.com/groups/noinceneritoretorino?ap=1
www.facebook.com/groups/ariabenecomune?ap=1

L'ex presidente e dittatore del Guatemala Rios Mont condannato per genocidio

Il 10 maggio 2013 passerà alla storia per la condanna a 80 anni di carcere per crimini contro l’umanità e per genocidio che un ex presidente, Efrain Rios Mont (considerato dalla stragrande maggioranza del popolo guatemalteco uno dei più sanguinari dittatori del XX secolo), ha ricevuto. Si tratta del primo caso in America Latina di condanna a un ex presidente della repubblica. Ricordiamo che Rios Mont fu presidente tra il 1982 ed il 1983 durante la fase più sanguinaria della guerra civile guatemalteca (anche se per la storia ufficiale in Guatemala non c’è mai stata una guerra civile).

Facendo un breve ripasso storico, subito dopo la caduta dell’ “octubrismo” nel 1954, movimento che nel 1944  andò al potere con idee progressiste mettendo fine ai governi oligarchici del Guatemala, in questo paese iniziò la contrainsurrezione finanziata politicamente ed economicamente dagli Stati Uniti.  Ricordiamo pure che questo è il periodo in cui il presidente degli Stati Uniti d’America Dwight Eisenhower inaugura le politiche anticomuniste che sfocieranno nel “Plan Condor”, strategia che porterà terrore, morte, oppressione in tutta l’America Latina.
Ritornando al periodo della contrainsurrezzione, è dal 1961 al 1996 (anno degli accordi di pace) che la guerriglia guatemalteca cercò in tutti i modi di rovesciare il regime militare, insiparandosi all’ideologia del “foco revolucionario del Che Guevara”. Bisogna sottolineare che tra il 1976 (anno del più devastante terremoto del paese che mise in evidenza la mancanza di uno stato che potesse soccorrere la propria popolazione) al 1984,  si scatenò la più sanguinaria repressione verso la popolazione civile indigena (ricordiamo che il 70% della popolazione guatemalteca è indigena), rea di appoggiare qualsiasi movimento antiregime, stanca della dittatura militare e della repressione e di essere considerata una popolazione inferiore (si dice comunemente in Guatemala che uccidere una persona indigena non significa uccidere un uomo). In questo contesto di dittatura militare e di repressione il generale Rios Monto arrivò al potere dopo un colpo di stato nel 1982 rovesciando un altro generale  (Romeo Lucas Garcìa) reo di non aver saputo mantenere la situazione sottocontrollo e di far quasi perdere il potere ai militari.
La sua prima mossa politica da dittatore fu distruggere ed eliminare fisicamente i territori indigeni occupati dall’etnia Ixil (popolazione maya). Si calcola che furono torturati ed uccisi circa il 5.5%  di questa popolazione decimandola e creando migliaia di rifugiati che dovettero abbandonare la propria terra e rifugiarsi nelle montagne perseguitati come conigli e costretti a vivere per più di 10 anni come cani. I crimini commessi in particolare contro questa etnia sono stati comprovati nel processo con testimoni che hanno raccontato nei particolari le torture, le violenze a donne e bambini, l’eliminazione fisica nello stile nazista, la distruzione totale di intere comunità (la politica “frijoles y fusiles” è la più vergognosa” messa in atto di uno sterminio programmatico ed inumano). Si calcola che in Guatemala siano morti 200.000 persone nei 35 anni di guerra civile, essendo il periodo della dittatura di Rios Mont il più sanguinario e oppressore di questa guerra infame.

Per molti anni, si è  sempre negato che si siano uccisi innocenti, che ci sia stato genocidio e crimini contro l’umanità in Guatemala. Persino la storia è stata cambiata non raccontando niente alle nuove generazioni dei crimini che si sono commessi in questo paese nel nome dello sviluppo, del capitalismo e dell’egemonia degli Stati Uniti. Ricordiamo che tutti i dittatori guatemaltechi (ed in generale latinoamericani) si sono formati nelle scuole militari degli Stati Uniti sparse per tutto il continente. Uccisero, torturarono, fecero morire di fame, violentarono donne e bambini, cancellarono dalla faccia della terra intere generazioni di persone e paesini indigeni. Ebbero la faccia tosta di negare sempre tutto accusando come sempre che era per colpa dei comunisiti che loro dovevano attuare metodi repressivi. Fino a ieri, fino a pochi minuti dalla sentenza, queste persone, che io ritengo infami, non degne della misericordia di Dio, proclamavano la loro innocenza, affermando che erano le pressioni internazionali ed il progressismo politico della regione (tutto ciò che si riferisce alla sinistra latinoamericana) che avevano portato a questo assurdo processo.
Oggi 11 maggio 2013 sembra che l’impunità in Guatemala sia finita. E’ solo l’inizio, ma ha creato un gran “precedente”. Ricordiamo solamente il fatto che l’attuale presidente della Repubblica del Guatemala, Otto Pérez Molina, fu uno dei militari piú feroci dell’epoca del governo del generale Rios Mont.  Di fatto, si è cercato in tutti i modi di boicottare il processo, accusando di comunismo i giudici che hanno condannato l’ex dittatore. Ma il destino ha voluto che la scorsa settimana l’attuale presidente si sia riunito a San Josè (Costa Rica) con il presidente Obama che gli ha praticamente ordinato di non interferire nel sistema di giustizia e così dopo il clamoroso stop che il processo aveva avuto per pressioni politico-militari, si è sbloccato ed è arrivato prestissimo ad una risoluzione che può essere considerata storica in Guatemala, in America Latina e nel mondo.
Oggi il Guatemala vive un momento politico, economico, sociale violento e caotico. I grandi megaprogetti delle imprese miniere straniere stanno violando continuamente i diritti degli indigeni (il caso Totonicapan dello scorso ottobre è emblamatico). Nel mezzo di una tensione politica e sociale fortissima, questa sentenza di condanna per genocidio rappresenta una speranza di giustizia. Non nascondo il fatto che ieri ascoltando il risultato della sentenza pronunciato dalla giudice Yasminn Barrios, l'emozione è stata immensa nel vedere come tante persone semplici che da sempre sono state umiliate e considerate la spazzatura della società hanno potuto gridare “giustizia”.

Sentenza:
Ad effettuare l’analisi dottrinaria del delitto di genocidio e confrontarla con la prova prodotta nel dibattito, con le testimonianze di uomini e donne “Ixiles” della regione, abbiamo comprovato fino all’ultimo dei possibili dettagli che si trattava di comunità che si dedicavano solo ed esclusivamente all’agricoltura. Le prove dimostrano in forma obiettiva che la popolazione “Ixil” è stata oggetto di assassinii, massacri, torture, degradazioni, violazioni massive, spostamento forzato, spostamento di bambini da un gruppo all’altro. I giudici sono totalmente convinti dell’intenzione di distruzione fisica del gruppo etnico “Ixil” e che si sono prodotti delitti costitutivi di genocidio. Per poter formulare questa conclusione è stata fondamentale l’analisi specializzata dei piani operativi generati durante il regime di Rios Mont. Il “Plan Victoria ’82, “los planes Firmexza ’82 y ’83 y el Plan Operativo Sofia” sono l’evidenza chiara di questa strategia.
 Secondo il perito Rodolfo Robles Espinosa, che analizzò i documenti militari, l’alto comando militare e quindi Rios Mont ebbero il dominio dei fatti e avrebbero potuto fermare gli attacchi alla popoolazione civile. Lo Stato approvò l’esistenza del nemico interno, esistendo operazioni di combattimento, pianificazione e controllo. Tutto ciò dimostra la responsabilità del capo dell’organizzazione. Per questi motivi, l’accusato ebbe conoscenza di tutto ciò che succedeva e non fece niente per fermare queste atrocità, avendo tutti i poteri per farlo.

G. Lo Brutto,
Carta Stampata

lunedì 13 maggio 2013

La croce e il compasso

Potere e affari, il patto segreto tra Vaticano e Massoneria
di Alberto Statera (Repubblica del 10 maggio 2013)

Il “fumo di Satana” evocato da Papa Paolo VI quarant’anni fa è filtrato da qualche fessura pure nell’ultimo conclave, che ha eletto il gesuita Francesco a capo di una Chiesa ridotta come quella profetizzata dal vescovo Malachia, percorsa da lotte di potere e guerre per bande. Quel fumo ha l’odore acre della massoneria, una parola che fa tremare da secoli persino le foglie dei giardini vaticani. Eppure, logge ufficiali, logge segrete e logge spurie sono avvinghiate nel cuore di San Pietro. Questa, almeno, è la tesi di un libro-inchiesta di oltre 500 pagine che stanno per mandare in libreria Giacomo Galeazzi e Ferruccio Pinotti (Vaticano Massone. Logge, denaro e poteri occulti: il lato segreto della Chiesa di Papa Francesco – Edizioni Piemme). Il tema, naturalmente, si presta di per sé all’accusa di complottismo, di insana volontà di vedere ovunque trame segrete e cospirazioni. L’ha messa in burla il Segretario di Stato uscente Cardinal Bertone quando ha irriso ai giornalisti che si improvvisano Dan Brown. Ma il libro è talmente documentato, ricco di testimonianze e di documenti inediti che una confutazione con questo argomento non reggerebbe. Tra l’altro, contiene la copia anastatica di una lettera scritta da Virgilio Gaito, ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, insieme al Cardinale Silvio Oddi, a Papa Giovanni Paolo II per chiedere un “grande patto” di pacificazione tra Chiesa e massoneria, il riconoscimento ufficiale da parte del Vaticano della conciliabilità tra fede cattolica e appartenenza alla libera muratoria. «Pienamente consapevoli delle finalità perseguite dalla Massoneria universale, da sempre votata al miglioramento dell’individuo per il miglioramento ed il progresso dell’Umanità raggiungibili solo attraverso l’Amore e la tolleranza – scrivono il Gran Maestro e il Cardinale – riteniamo giunto il momento di lanciare un doveroso appello alla riconciliazione che ponga fine a quella secolare incomprensione tra Chiesa Cattolica e Massoneria». Oddi, morto nel 2011, è stato considerato un grande protettore dell’Opus Dei, ma anche sponsor della discesa in campo nel 1994 di Silvio Berlusconi, tessera 1816 della Loggia P2 di Licio Gelli e, secondo il massone dissidente Gioele Magaldi, fondatore di una sua obbedienza denominata “Loggia del Dragone”. Wojtyla, del resto, si servì in Polonia a favore di Solidarnosc e contro il comunismo del bancarottiere piduista Roberto Calvi, finito ucciso con rito massonico a Londra sotto il Ponte dei Frati neri. Come il suo predecessore Paolo VI, che fece realizzare simboli esoterici sulla tomba della madre, si era servito dell’altro bancarottiere mafioso e piduista Michele Sindona. Ma sotto il papato di Wojtyla, nel 1983, vide la luce la “Dichiarazione sulla Massoneria” elaborata dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Joseph Ratzinger, che dichiarava inalterato il divieto di appartenenza alla libera muratoria. Divieto disatteso durante il suo papato, secondo la messe di documenti e testimonianze raccolta da Galeazzi e Pinotti, tanto da aver probabilmente contribuito a provocare le dimissioni di Benedetto XVI e forse l’elezione di Francesco, primo Papa gesuita della storia, dopo che la Compagnia di Gesù, considerata uno dei canali dell’infiltrazione massonica in Vaticano, era stata commissariata da Wojtyla nel 1981.
Durante il pontificato di Ratzinger è cresciuto in Vaticano il potere dei gruppi integralisti in lotta tra loro, come Opus Dei, Comunione e Liberazione, Focolarini, Legionari di Cristo, che si sono contesi il controllo delle finanza e dello Ior. Ma l’ex banchiere Cesare Geronzi, intimo del cardinal Bertone, il quale raramente parla a caso, ha rivelato di recente di aver trovato simboli massonici in evidenza nello studio di un cardinale e che nella finanza cattolica l’Opus Dei non conta molto perché a contare è la massoneria. E dentro le Mura Leonine? Di certo la massoneria è entrata con prepotenza nel processo al maggiordomo-corvo di Ratzinger che sottraeva documenti nella scrivania di uno degli uomini più potenti del mondo. «Mi sono messo al servizio di una loggia massonica che opera dentro il Vaticano – ha testimoniato tra le lacrime un dipendente laico della Segreteria di Stato – della quale fanno parte anche dei cardinali. Scopo della nostra azione portata avanti nella convinzione di fare il bene della Chiesa, è quello di mettere fine all’attuale situazione di anarchia che mette a rischio la cristianità». Tra le migliaia di documenti sequestrati il 23 maggio 2012 nell’abitazione del maggiordomo “moltissime riguardavano la massoneria e i servizi segreti”, come hanno dichiarato gli agenti della gendarmeria che fecero le perquisizioni. Con un’attenzione quasi ossessiva per la figura del piduista Luigi Bisignani, che era di casa allo Ior fin dai tempi del riciclaggio della tangente Enimont. La rete di confidenti dell’ex maggiordomo comprendeva il vicario papale per la città del Vaticano monsignor Angelo Comastri e l’ex vicecamerlengo Paolo Sardi, indicati come appartenenti a una loggia massonica interna; il vescovo Francesco Cavina, ora alla diocesi di Carpi, ma in precedenza alla Segreteria di Stato, e l’ex segretaria di Ratzinger, Ingrid Stampa. Bergoglio cresce e si forma in Argentina, una repubblica fondata su squadra e compasso, dove la massoneria e la Chiesa sono molto forti. È sostenibile la tesi che lo strapotere dei gruppi integralisti abbia originato come reazione la sua elezione al trono di Pietro? O che sia invece frutto di un patto tra massoneria e gruppi della destra cattolica? Nel libro di Galeazzi e Pinotti non troverete una risposta certa, ma la non peregrina ipotesi che la decisione di Ratzinger di dimettersi possa essere stata presa nella previsione dell’elezione del gesuita su un trono che lui non riusciva più a governare tra scandali e guerre intestine tra fazioni contrapposte per il potere e il denaro. Nella prima fase del conclave del 2005, del resto, il cardinale Bergoglio aveva raccolto il maggior numero di voti, ma poi rinunciò per convogliarli su Ratzinger. 
Che fosse fumo di Satana o aria salubre quella respirata in conclave, i Gran Maestri delle tante massonerie italiane sembrano concordi nell’entusiasmo per l’avvento di Francesco. Uno per tutti: «Con Papa Francesco nulla sarà più come prima. Chiara la scelta di fraternità per una Chiesa del dialogo, non contaminata dalle logiche e dalle tentazioni del potere temporale». Firmato: Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia

martedì 7 maggio 2013

Da teologo dico sì alla libertà di scelta sul fine vita

 di Vito Mancuso
Alleviare la sofferenza sempre, in ogni caso laddove sia possibile. Rispettare la libera autodeterminazione della coscienza sempre, con senso di solidarietà e di vicinanza umana. È questo il duplice punto di vista a partire dal quale a mio avviso occorre disporre la mente di fronte al grave e urgente problema dell'eutanasia o suicidio assistito.
Alleviare la sofferenza è la forma più misericordiosa di rispetto per la vita. Io non ho dubbi (e penso che in nessuna persona responsabile ve ne siano) sul fatto che la vita vada rispettata sempre e che la vita sia qualcosa di sacro. È la stessa conoscenza scientifica ad attestarci mediante i suoi dati che la vita è un fenomeno stupefacente, emerso lungo i miliardi di anni percorsi da questo Universo a partire dai gas primordiali scaturiti dalla Grande Esplosione iniziale, e tutto ciò non può non generare in chi ne prende coscienza un sentimento di sacralità. Basta applicare la mente al lunghissimo viaggio della vita apparsa sul nostro pianeta per sentire che ogni forma di vita merita di essere considerata sacra, anche la vita delle piante e degli animali, anche la vita dei mari e delle montagne, tutto ciò che vive è sacro e va trattato con rispetto dal concepimento fino alla fine.
La vita umana non fa eccezione: anch'essa è sacra e va trattata con rispetto dal concepimento fino alla fine. Ancora più stupefacente però è il fatto che il fenomeno vita emerso dalla materia (se per caso o per spinta intrinseca della materia nessuno lo sa, anche gli scienziati si dividono al riguardo) si evolva secondo diverse forme vitali, già individuate dal pensiero filosofico greco mediantseguenti termini: vita-bios, cioè vita biologica; vita-zoé, cioè vita zoologica o animale; vita-psyché, cioè vita psichica; vita-logos, cioè logica, calcolo, ragione; vita-nous, cioè vita spirituale o della libertà.
Quando diciamo "vita" esprimiamo con una parola sola tutto questo complesso processo evolutivo, filogenetico e ontogenetico al contempo, in cui ciascuno di noi consiste. E quando diciamo "rispetto per la vita" dobbiamo estendere tale rispetto in modo da abbracciaretutte le forme vitali, dalla vitabiologica alla vita della mente.
Normalmente si dà armonia tra le diverse forme vitali. Normalmente rispettare la vita di un essere umano significa rispettarne la vita biologica che si esprime nel corpo e rispettarne la vita spirituale che si esprime nella libertà.
Si danno però situazioni nelle quali l'armonia tra le diverse forme vitali viene interrotta e il processo virtuoso in cui fino a poco prima consisteva la vita si trasforma in un lacerante conflitto, fisico, psichico e spirituale. Sto parlando ovviamente della malattia e della disarmonia che essa introduce tra le varie fasi del processo vitale, tra la vita fisica (bios + zoé), la vita psichica (psyché) e la vita spirituale (logos + nous). La malattia cronica e inguaribile segna il conflitto irreversibile tra le diverse forme vitali nel cui intreccio ciascuno di noi consiste: a partire da essa la vita fisica, la vita psichica e la vita spirituale non sono più in armonia. Che cosa significa in questo caso rispettare la vita?

Io penso che il rispetto della vita di un essere umano debba consistere alla fine nel rispetto della sua vita spirituale, della sua coscienza o libertà. Di fronte ai casi estremi di malattia, quando la disarmonia tra le forme vitali diviene lacerante, vi sono esseri umani che intendono mantenere l'armonia tra corpo, psiche e spirito e quindi scelgono di piegare la psiche e lo spirito alle condizioni del corpo, accettandone la sofferenza. Per loro, tale sofferenza è una forma di partecipazione responsabile alle sofferenze del mondo e di tutto ciò che vive, emblematicamente compendiato per i cristiani nella passione di Cristo.
Questi esseri umani intendono mantenere fino in fondo l'armonia tra corpo, psiche e spirito, sentono di avere le risorse interiori per farlo, e io ritengo che vadano rispettati nel loro prezioso proposito.
Personalmente mi piacerebbe, quando toccherà a me, esserne parte, anche se non so se neavrò la forza e il coraggio, penso che molto dipenderà dalla malattia con la quale avrò a che fare.
Ci sono però altri esseri umani che non riescono, o non vogliono, mantenere l'armonia tra la loro vita biologica, la loro vita psichica e la loro vita spirituale. Per loro la vita-bios diviene un tale carico di ansia, paure e sofferenze da risultare devastante per la salute psichica e spirituale. Che cosa significa in questo caso rispettare la loro vita? In che senso qui si deve applicare l'etica del rispetto della sacralità della vita? E che cosa è più sacro: la vita biologica oppure la vita spirituale?
A mio avviso rispettare la vita di un essere umano significa in ultima analisi rispettare la sua libera coscienza che si esprime nella libera autodeterminazione. E se un essere umano ha liberamente scelto di mettere fine alla sua vita-bios perché per lui o per lei l'esistenza è diventata una prigione e una tortura, chi veramente vuole il "suo" bene, chi veramente si dispone con vicinanza solidale alla sua situazione, lo deve rispettare.

Questo sentimento di rispetto, se è veramente tale, deve tradursi in concreta azione politica, nell'impegno a far sì che lo Stato dia a ciascuno la possibilità di "vivere" la propria morte nel modo più conforme a come ha vissuto la propria vita, in modo tale che si possa scrivere l'ultima pagina del libro della propria vita con responsabilità e dignità. Il diritto alla vita è inalienabile, ma non si può tramutare in un dovere. Nessun essere umano può essere costretto a continuare a vivere.
Un'ultima parola a livello teologico. Ha dichiarato Jorge Mario Bergoglio dialogando con il rabbino di Buenos Aires: "Occorre assicurare la qualità della vita". Io penso che non vi sia al riguardo assicurazione migliore della consapevolezza che le nostre volontà siano rispettate da tutti, Stato e Chiesa compresi.

Vito Mancuso
la Repubblica, 5 maggio 2013 &
MicroMega online