giovedì 28 febbraio 2013

Addio ad Hessel, padre degli "indignati"

«La morte è per me un grande progetto. Penso che tra tutte le esperienze che si fanno nel corso della vita, l’esperienza forse più interessante sia la morte. In quel momento infatti si può vedere ciò che resta e ciò che verrà». Queste parole profeticamente pronunciate da Stéphane Hessel assumono, all’indomani della sua morte, tutta la pregnanza che in vita ne diede l’autore. La morte infatti chiude un ciclo e retrospettivamente dà significato a ciò che l’ha preceduta ovvero la vita.
Marco Cesario, da linkiesta.it

Se n’è andato con l’eco di queste parole Stephane Hessel, uomo poliedrico, partigiano, ex deportato, intellettuale instancabile, poeta e coscienza del nostro tempo, se ne va l’Homme du Siècle, colui il quale alla veneranda età di 92 anni è riuscito a pubblicare un libretto dall’impatto mondiale dal titolo ‘Indignatevi!’ che ha ispirato il movimento degli Indignati in Europa, Occupy Wall Street e ha dato le armi dell’intelligenza politica alle giovani masse della Primavera Araba, represse da dittature trentennali.
Se n’è andato all’età di 95 anni, nella buona ed antica tradizione di filosofi e saggi delle nostre società che, invecchiando, s’avvicinano ai barlumi della verità, illuminando con la canuta senescenza il buio di tante esistenze. Eppure la morte aveva già sfiorato lo spirito d’Hessel in un campo di concentramento in Germania, ma egli - al pari di un Max von Sydow nel capolavoro di Bergman ‘Il Settimo Sigillo’ - era riuscito a giocare d’astuzia, a temporeggiare ed a posticipare la sua fine di molti anni, giocando con la Morte una lunghissima partita a scacchi.
Così, dopo esser sopravvissuto a due guerre mondiali, lo spirito d’Hessel ha attraversato come una cometa i totalitarismi di destra e di sinistra, la minaccia nucleare, la globalizzazione, la crisi economica ed il risveglio delle masse nel mondo arabo, in Europa e negli Usa. E quale fu, in breve, questa sua vita che difese strenuamente dai gelidi artigli della Morte?

Tedesco di nascita (nacque a Berlino nel 1917, l’anno della rivoluzione russa, come amava ricordare), Hessel giunse in Francia alla sola età di 7 anni e fu naturalizzato francese nel 1937. La figura di sua madre Helen Grund ispirerà il personaggio di Catherine nel romanzo di Henri-Pierre Roché, ovvero quello di una donna amata da due amici, mirabilmente portata sulla schermo dal regista François Truffaut nel capolavoro cinematografico Jules et Jim.
Mentre suo padre traduce con Walter Benjamin Proust in tedesco, Hessel, che parla tedesco, francese ed inglese, entra all’École Normale nel 1939. Inizia a leggere Sartre, segue i corsi del filosofo Merleau-Ponty, la sua coscienza politica si va formando e con essa una natura indomita che l’accompagnerà nel corso di tutta la sua esistenza. Chiamato alle armi nel 1939, Hessel viene fatto prigioniero, poi entra a far parte della resistenza e raggiunge le forze della Francia Libera di Charles De Gaulle a Londra. Viene fatto di nuovo prigioniero e trasferito nel quartier generale della Gestapo a Parigi, ad Avenue Foch.
Interrogato, torturato, viene deportato l’8 Agosto 1944 nel campo di concentramento di Buchenwald. Per salvarsi, Hessel si fa passare per un francese malato di tifo nascondendosi nell’infermeria mentre i suoi colleghi di campo venivano impiccati uno ad uno.
Viene trasferito nel campo di Rottleberode dove tenta d’evadere il 2 Aprile 1945 ma viene arrestato di nuovo, picchiato e trasferito al campo forzato di Dora dove si costruivano i missili dell’ultimo ed inutile sforzo bellico della Wermacht. Durante un trasferimento verso Luneburg riesce a fuggire dal treno e a raggiungere le forze americane. L’8 Maggio 1945 arriva alla Gare du Nord di Parigi dove ritrova sua moglie. Da qui inizia tutta una carriera diplomatica all’insegna della difesa dei diritti umani, dei diritti dei ‘sans-papier’ e degli immigrati, diventando un’icona non solo per la sinistra francese ed europea ma per tante altre fette ‘dimenticate’ della società.

Nel 1948, in qualità di segretario della commissione dei Diritti Umani, partecipa attivamente all’elaborazione della Dichiarazione Universali dei Diritti Umani, nel 1971 è nominato vice-direttore del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo e nel 1981 François Mitterand lo eleva al rango di Ambasciatore di Francia. Si batte fino alla morte per il riconoscimento dello stato palestinese e per una soluzione pacifica al conflitto, scatenando spesso le reazioni virulente di numerose associazioni ebraiche. Paradossale e grottesco per Hessel, che era d’origine ebraica da parte paterna, il processo intentato contro di lui nel 2010 per “incitamento all’odio razziale” dopo aver criticato – in editoriali pubblicati su Libération e l’Humanité - l’occupazione e la colonizzazione israeliana e dopo aver denunciato i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità dell’esercito israeliano contro la Striscia di Gaza.
L’aver aderito all’iniziativa Bds (boicottaggio contro Israele), gli attira le folgori del Bureau de Vigilance contre l’Antisemitisme, che fa partire una denuncia contro di lui e contro tutti gli intellettuali che sottoscrivono l’iniziativa. Il Crif (Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni ebraiche di Francia) riesce addirittura a far annullare una conferenza di Hessel all’Ecole Normale Supérieure, la sua Ecole - lì dove era iniziata la sua avventura d’intellettuale e di coscienza politica delle masse di dimenticati - facendo credere al rettore e al ministro dell’università che Hessel avesse l’intenzione d’utilizzare lo scranno universitario per promuovere il boicottaggio d’Israele.
In seguito a questo fatto – grave per un paese come la Francia perché indirizzato contro uno dei suoi intellettuali più rappresentativi – diversi intellettuali, scrittori, giornalisti e membri della società civile si schierarono dalla parte di Hessel, denunciando l’attentato alla libertà d’espressione e di parola.
Malgrado però queste amarezze, Hessel, fino alla fine della sua estenuante partita contro la Morte, rivelò che l’ultimo suo sogno “prima di partire” era quello di vedere risolta definitivamente la questione israelo-palestinese, sogno che purtroppo ancora oggi non si è avverato.

Ed eccoci al 2010. Hessel è molto anziano, ha 92 anni ma come per il nostro Bobbio o il nostro Montanelli, la lucidità non gli manca. Anzi. Riesce a pubblicare un libretto di 32 pagine, dal titolo “Indignez-vous!”, che diviene in breve un caso editoriale (oltre 4 milioni di copie vendute). Un piccolo pamphlet che ha tanto effetto sulla psicologia collettiva dei giovani in Spagna, Grecia e Stati Uniti quanto lo ha per le masse arabe il gesto disperato ed eroico di Mohammed Bouazizi, nel lontano dicembre del 2010.
Hessel denuncia lo scarto che esiste tra una minoranza ricca (sempre più esigua ed oligarchica) ed una maggioranza povera sempre più estesa. Hessel denuncia non solo il saccheggio del pianeta Terra, ma anche quello dell’uomo, puntando il dito contro il trattamento inumano fatto ai sans-papier, agli immigrati ed ai cittadini di etnia rom e soprattutto contro il male del capitalismo ovvero quella cieca corsa ad accumulare ed accumulare sempre di più (per cosa poi se la Morte ci segue passo passo ed è destinata a vincere la sua partita ?).
L’accumulazione senza fine ha portato l’uomo all’individualismo, all’egoismo e all’alienazione. Dal “ground zero” dell’uomo sottomesso all’abbietta dittatura dei mercati finanziari, Hessel esorta giovani ad “indignarsi”, a rivoltarsi, alla stregua dell’homme revolté di Camus imbevuto però della vita politica activa degna della penna salace della Arendt.
L’indignazione è anche contro una politica che ha girato le spalle ai cittadini ed ha sequestrato il concetto di democrazia, trasformandola in una panacea soporifera. Se a questo s’aggiunge la manipolazione in chiave politica della paura e dell'insicurezza dei cittadini, i cui sentimenti sono esacerbati dalla crisi economica e dalla disoccupazione, il quadro è completo. Che sia diretta verso l'altro, l'immigrato o il Rom, la paura è diventata lo strumento principale in possesso dei governi per fare pressioni sulle frange più deboli ed influenzabili della popolazione e sollevare sentimenti ostili come la xenofobia ed il razzismo.

Contro questa visione, Hessel sprona invece all’insurrezione pacifica che riporti pacificamente la gente comune in piazza. Ed è ciò che è avvenuto in Puerta del Sol, nella piazza Syntagma e nella piazza Tahrir. La piazza, ovvero l’agora, l’unico spazio politico nel quale il cittadino può ancora indignarsi, esprimere dissenso e formulare una nuova idea, più umana, di società.

martedì 19 febbraio 2013

Ancora sul torbido Gerbido

"5 EURO PER DIFENDERCI DALL'INCENERITORE",
la nuova importante iniziativa per combattere l'inceneritore del Gerbido.

L'idea dalla quale nasce questa iniziativa e' molto semplice.
L'inceneritore del Gerbido aumentera' il rischio di tumori ed altre patologie in tutto l'ambiente circostante ad esso, cosi' come e' avvenuto e sta avvenendo in altre zone in cui sono presenti degli inceneritori.
Noi vogliamo al piu' presto iniziare a raccogliere dei dati sulla concentrazione dei metalli presanti all'interno dell'organismo dei nostri bimbi che vivono nei pressi dell'inceneritore.
Se questi valori aumenteranno nel tempo verra' avviata immediatamente una NUOVA AZIONE LEGALE che utilizzera' questi dati per dimostrare che lo stato di salute di chi vive nei pressi dell'inceneritore e' cambiato proprio a causa dell'inceneritore stesso.

Tutta l'organizzazione delle analisi mediche e' seguita da un POOL DI MEDICI DELL'ISDE (Associazione Medici per l’Ambiente), che assicurera' che i dati siano corretti e certificati e soprattutto assolutamente non filtrati da nessun tipo di interesse.

A QUESTO PUNTO ENTRIAMO IN GIOCO NOI E SOPRATTUTTO VOI !
Dobbiamo raccogliere al piu' presto i soldi per finanziare queste analisi mediche.
5 euro possono essere gia' sufficienti, anche se naturalmente a chi ne ha possibilita' chiediamo donazioni anche piu' consistenti.
Sul nostro sito e' gia' presente l'elenco di tutte le donazioni e i dettagli di questa iniziativa, per dare maggior trasparenza possibile (ovviamente non verranno pubblicati i nomi di chi vorra' rimanere anonimo).
Terremo aggiornato l'elenco delle donazioni e le informazioni sullo svolgimento delle analisi che verranno eseguite.

Si puo' donare con:
- contanti presso i nostri gazebo (vedi calendario sul sito)
- tramite PAY-PAL sempre dal nostro sito www.rifiutizerotorino.it
- tramite bonifico bancario sul conto corrente IT30S0501801000000000151700 , intestato a "Progetti 5 Stelle", con la causale "5 euro per difenderci dall'inceneritore"
FATE UN PICCOLO INVESTIMENTO, COME PREVENZIONE PER LA NOSTRA SALUTE E QUELLA DEI NOSTRI BIMBI...
PER EVITARE CHE SIA TROPPO TARDI COME E' STATO PER L'AMIANTO E PER L'ILVA DI TARANTO



NOTE:
- abbiamo a disposizione numerosi volantini gia' stampati per chi volesse lasciare qualche volantino della nostra iniziativa a qualche amico o all'interno di qualche negozio (mandateci un'email o passate sabato al nostro gazebo)


E' IMPORTANTE PIU' CHE MAI INOLTRARE QUESTA COMUNICAZIONE A TUTTI I VOSTRI AMICI, PER ESTENDERE IL PIU' POSSIBILE QUESTA INIZIATIVA.


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NO INCENERITORE - SI RIFIUTI ZERO
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Regola 5R (Riduci, Ripara, Riusa, Ricicla e Riprogettazione) verso l’obiettivo Rifiuti Zero
www.rifiutizerotorino.it
SPAZIO WEB PER DOCUMENTAZIONE CATALOGATA
www.zumodrive.com/share/cQnQODQzYT
ISCRIVITI AI GRUPPI FACEBOOK: NO INCENERITORE TORINO e ARIA BENE COMUNE
www.facebook.com/groups/noinceneritoretorino?ap=1
www.facebook.com/groups/ariabenecomune?ap=1

domenica 17 febbraio 2013

Finmeccanica, lo scandalo delle armi


In principio era il gruppo Iri. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1948 viene creata la finanziaria Finmeccanica, che diventa una delle sub-holding di un conglomerato sempre più articolato. Essa deve concentrarsi sul settore meccanico e viene comunque utilizzata dalla capogruppo come un deposito di rottami, una struttura nella quale cioè collocare delle aziende che erano a suo tempo fortemente cresciute con la guerra e che, con lo scoppio della pace, non avevano più un mercato; trovano posto all’interno della compagine anche altre imprese in difficoltà, con produzioni più pacifiche.
Passano decenni in continue opere di ristrutturazione, di chiusura di alcune aziende, di acquisizione o cessione di altre, con l’assillo di una situazione finanziaria spesso difficile. Il gruppo è alla costante ricerca di un assetto che riesca a stabilizzare le cose e a fargli ottenere risultati di mercato, economici e finanziari in qualche modo tranquillizzanti.
Un passaggio importante è la parziale privatizzazione. Durante l’ondata di entusiasmo per la scoperta del libero mercato che si manifesta anche da noi verso la fine degli anni ottanta-primi anni novanta – a sinistra ancora più che a destra – Finmeccanica viene parzialmente privatizzata nel 1993, con lo stato che mantiene comunque il 30% circa del capitale; contemporaneamente le sue azioni vengono quotate in borsa.
Arriva il 2001, sotto la gestione Guarguaglini, e si trova una soluzione produttiva che sembra efficace: concentrarsi sul business delle armi, approfittando del fatto che l’organizzazione, a partire dallo stesso capo, è piena di generali, ammiragli e colonnelli in qualche modo esperti del mestiere e che in casa sono disponibili delle tecnologie militari di un certo interesse. La trovata per un po’ sembra funzionare e il gruppo riesce apparentemente a trovare per qualche anno un suo equilibrio di mercato, organizzativo ed economico-finanziario. Un equilibrio non molto positivo socialmente e molto precario strategicamente, come testimoniano le vicende degli ultimi due anni.
Così, mentre nel periodo 2002-2003 il settore civile rappresentava circa un terzo del fatturato complessivo, già due anni dopo si era scesi a meno di un quarto. Con la scelta bellica la società diventa la più grande impresa manifatturiera nazionale dopo la Fiat e il livello delle sue spese per la ricerca e sviluppo supera quello del gruppo torinese. Essa è inoltre la prima realtà italiana operante nel settore delle tecnologie avanzate.
Segue a notevole distanza la STMicroelectronics, il cui controllo azionario è però ceduto nel 1987 per metà ai francesi, con un accordo complesso. Incidentalmente, bisogna a questo proposito ricordare che la proprietà del pacchetto azionario italiano di STMicroelectronics, la realtà industriale più rilevante presente in Europa nell’elettronica, era passato nel 1989 per le mani della stessa Finmeccanica, che se n’è però sbarazzata in due tranche, nel 2004 e nel 2009, proprio per avere le risorse necessarie per perseguire gli sforzi bellici. Una scelta molto miope.
La società opera oggi nei settori degli elicotteri, dell’elettronica per la difesa, dei velivoli civili e militari – questi i suoi business prioritari –, oltre che nel campo delle infrastrutture spaziali e dei sistemi di difesa. Un posto marginale rivestono i comparti del trasporto e dell’energia. Questi due ultimi business mal si conciliano con quello militare e il gruppo dirigente prima li trascura e poi, negli ultimi tempi, pensa di sbarazzarsene, anche se si tratta di due attività che potrebbero essere molto utili per una riconversione della nostra economia e della stessa Finmeccanica.
L’azienda procede con una forte spinta verso l’internazionalizzazione; essa diventa presto il secondo gruppo militare in Gran Bretagna, in particolare attraverso operazioni di acquisizione effettuate fino al 2005, mentre anche negli Stati Uniti, con l’acquisto nel 2008 della Drs Technologies, assume un ruolo di un certo rilievo. Peraltro la società Usa verrà pagata troppo, come l’Antonveneta da parte di Monte Paschi, e i risultati si manifesteranno come molto poco brillanti in ambedue i casi.
Finmeccanica fa la scelta “anglosassone” e concentra i suoi sforzi di collaborazione nel settore dell’aereonautica civile con la statunitense Boeing, rifiutando l’opzione europea. Così oggi l’Italia è l’unico paese del continente che non collabora al progetto EADS-Airbus, mentre anche l’Alitalia, fino ad un certo punto, ha acquistato soltanto aerei statunitensi.
Vengono raggiunti in ogni caso ambiziosi traguardi in termini di mercato, economici e finanziari. Così, mentre ancora nel 2001 il fatturato di gruppo era pari a 6,8 miliardi di euro, esso diventa di 12,5 miliardi nel 2006, cresce poi a 18,2 nel 2009 e a 18,7 nel 2010, moltiplicandosi per tre nel corso di otto anni. Il gruppo, secondo le statistiche internazionali al riguardo, diventa presto il settimo o l’ottavo del mondo nel suo settore in termini di dimensioni. L’azienda non registrerà mai grandi profitti, ma comunque i risultati economici migliorano anch’essi e da perdite quasi strutturali si passa a un miliardo di euro circa di utili nel 2006, mentre nel 2009 siamo ancora a 718 milioni di utili.
Nel 2010 la macchina comincia a incepparsi e alcuni nodi vengono al pettine. Le novità negative sono due e si manifestano in maniera netta a partire dal 2011, vero annus horribilis per il gruppo.
La prima novità riguarda un peggioramento netto e improvviso del mercato di riferimento. Proprio nel momento in cui l’azienda avrebbe potuto raccogliere i risultati dei grandi sforzi compiuti in termini di investimenti e di organizzazione, scoppia la crisi del 2007-2008. I principali paesi occidentali, preoccupati dall’entità dei debiti fatti anche per salvare le banche, cominciano a ridimensionare i loro budget in generale e quelli militari in specifico; persino gli Stati Uniti intervengono su tali spese; l’azienda non ha una strategia di ricambio, essendosi tagliata quasi tutti i ponti alle sue spalle.
Una via di uscita da tale situazione poteva apparire quella di concentrare gli sforzi commerciali verso i paesi emergenti, paesi nei quali, a partire dalla Cina e dall’India, i bilanci militari sono da parecchio tempo in forte crescita, ma il risultato maggiore appare, almeno per il momento, quello di una catena di scandali per il gruppo, scandali che riguardano in un modo o nell’altro, l’India, il Brasile, Panama, la Libia.
La seconda novità è che, contemporaneamente, si registrano gravi problemi interni al gruppo. Si scopre che probabilmente l’azienda non solo paga tangenti in diversi paesi per ottenere commesse, ma che essa distribuisce generosamente prebende agli stessi gruppi dirigenti e a vari faccendieri, nonché ai partiti politici, in particolare ad alcuni di essi.
Certo, il settore appare strutturalmente caratterizzato da alti livelli di corruzione e di reati finanziari, ma la nostra azienda sembra averci messo molto del suo. In ogni caso, il gruppo dirigente viene progressivamente decimato dagli avvenimenti, che sembrano toccare anche parenti ed amici dei capi, mentre molti magistrati, in Italia e all’estero, sono ora al lavoro per cercare di fare un po’ di chiarezza. Come al solito, le acque si smuovono da noi soltanto per l’intervento della magistratura.
I risultati economici cambiano rapidamente di segno e anche il valore di borsa dell’impresa precipita. Il fatturato per il 2011 diminuisce e si registra una perdita economica di 2,3 miliardi di euro, mentre il debito, vera maledizione del gruppo nel corso dei decenni, comincia ad aumentare e il portafoglio ordini si assottiglia ancora più rapidamente del fatturato. Il valore del titolo in borsa raggiunge in questi giorni forse poco più del 10% di quello di qualche anno fa, mentre comincia a calare anche l’occupazione e si preannunciano dolorose ristrutturazioni. I dati per il 2012 non sono ancora disponibili ma si suppone che non riusciranno a stabilizzare la situazione; non si osa pensare quale essa potrà essere nel 2013.
In questo percorso, il gruppo Finmeccanica non poteva non farsi complice, attraverso le sue controllate di settore, della famigerata vicenda degli F-35, nella quale l’Italia ha molto da perdere finanziariamente e molto poco da guadagnare in investimenti e posti di lavoro.
Il caso dello scandalo Finmeccanica, risvegliatosi soltanto poche ore dopo quello di Eni-Saipem, che fa peraltro seguito a quelli di Monte Paschi, Banca Popolare di Milano, Fonsai-Ligresti, Ilva, per citarne soltanto alcuni tra i più importanti, indica che alla base delle difficoltà del nostro sistema di grandi imprese non c’è soltanto una crisi di strategie, di risorse finanziarie, di politica industriale mancata da parte dei governi, di scarso sostegno da parte del sistema bancario, ma anche un grande problema di tenuta morale. Del resto, tout se tient. Per questo la crisi appare veramente grave e uscirne estremamente difficile.
Si apre ora una partita complicata. Per quanto riguarda Finmeccanica bisogna ricostruire un gruppo dirigente adeguato al compito e che punti nel tempo a una riconversione in senso civile delle sue produzioni, concentrando ad esempio i suoi sforzi verso il settore dell’aereonautica civile e delle attività spaziali, e forse anche ripristinando l’interesse verso i trascurati settori dell’energia e dei trasporti, in alcuni comparti dei quali le prospettive di mercato sembrano interessanti.
Un altro grave problema per il nuovo governo.

Vincenzo Comito, Sbilanciamoci.info

giovedì 14 febbraio 2013

Il Mondo Secondo Monsanto



Il trucco degli OGM
di Pulviscolo Discolo


Da qualche giorno gira su internet la notizia che la Comunità Europea ha predisposto un questionario sulla tematica degli OGM. Il problema degli OGM però a mio avviso non va affrontato chiedendosi se è giusto riportare sull’etichetta la presenza o meno degli OGM e le relative concentrazioni, o se ci vogliono regole più ferree sull’agricoltura biologica. Il tema OGM deve essere trattato a monte. E’ giusto che qualcuno possa mettere un brevetto sul DNA di un alimento? Lo dico a prescindere dal fatto che questo qualcuno sia una delle Multinazionali della chimica più potenti al mondo che è diventata così forte grazie ai suoi passati nella chimica industriale e che ha causato disastri ambientali spaventosi di cui, ancora oggi le popolazioni di tutto il mondo ne pagano le conseguenze e grazie alle quali ha una potenza economica spaventosa. E non solo la Monsanto, ma c’è anche la BASF, DuPont, Novartis e Stoneville sono diventate di fatto proprietarie del patrimonio genetico di moltissimi alimenti, primi tra tutti il MAIS e la SOIA, detenendone la proprietà. Tutto questo nel silenzio generale dei più e senza un appropriato dibattito. Tutto si gioca sul trucco dei brevetti. Un brevetto viene richiesto per certificare una invenzione. Quindi queste multinazionali chiedono i brevetti sui codici del DNA degli alimenti che i loro scienziati profumatamente pagati studiano nei laboratori. Ma la domanda che ci dobbiamo fare è: il DNA è un’invenzione o è una scoperta? la scoperta avviene quando qualcuno si accorge di qualcosa che esiste già, e la porta a conoscenza dell’umanità.. l’invenzione si ha quando qualcuno inventa di sana pianta qualcosa che non esiste e che possa portare un miglioramente alla condizione umana.. Ora il brevetto da la possibilità a chi inventa una innovazione tecnologica di sfruttarne i benefici. Ma siamo sicuri che le multinazionali hanno inventato il DNA? Leggere il DNA è una scoperta mica è un’invenzione. L’uomo solo da pochi anni è riuscito a leggere la sequenza genetica in laboratorio e questa è certamente una scoperta tecnologica formidabile ed è per questo che c’è un vuoto normativo (ammesso che ci sia bisogno di una legge per dire che il DNA è una scoperta ed in quanto tale non può essere soggetto alle normative sui brevetti) che stabilisca che sul DNA, sulla VITA non è possibile avere padroni. Il problema è molto serio, troppo perché nel frattempo l’85% della biodiversità del mondo si sta perdendo e questo avviene solo negli ultimi 30 anni da quando la monsanto (dal 1992) ha annusato questa perversa possibilità di diventare proprietaria del patrimonio genetico degli alimenti oggi e degli esseri viventi domani. Bisogna risvegliare le coscienze capire che la tecnologia deve necessariamente portare al miglioramento delle condizioni dell’uomo se no è pura perversione (come diceva Nikola Tesla).
Faccio perciò un’appello da questo piccolo ed insignificante blog a tutti gli studenti delle università e delle scuole, affinchè vedano e facciano vedere questo video importantissimo perché almeno si discuta di queste cose nelle Università e nelle scuole, che, purtroppo sono diventate un luogo dove formare le menti in un’UNIca via decisa sempre dalle stesse multinazionali. Lo dico con consapevolezza perché a Chimica di queste riflessioni non ne ho MAI sentito parlare. La libertà sta nel fatto che, sentite tutte le campane si sceglie la strada che si preferisce. Se di campana se ne sente una sola difficilmente si può essere liberi, e questo le multinazionali, che specie al Nord Italia stanno entrando nelle scuole a fare corsi (di che?!?!? a che titolo?!?!?) lo sanno benissimo.
Ovviamente l’invito è rivolto a tutti. In un’ora e mezza si capisce dove sta il trucco!


lunedì 11 febbraio 2013

Il processo per diffamazione contro Water Makes Money



Il 14 febbraio 2013 alle ore 13 e 30 presso il tribunale di Parigi si aprirà il processo per diffamazione intentato dal gruppo Veolia  contro il film "Water Makes Money".
Sotto accusa sono però soltanto il distributore francese e il protagonista  del film, Jean-Luc Touly, dirigente Veolia.  La procedura giudiziaria del gruppo contro i veri responsabili di "Water Makes Money", i registi Leslie Franke e Herdolor Lorenz, si è infatti infranta contro la volontà delle autorità tedesche e della controllata tedesca di Veolia, di non presentare una denuncia in base al diritto tedesco.
Il processo si aprirà con  la proiezione del film.  Veolia, che si ritiene diffamata, aveva  presentato denuncia il 28 settembre 2010. Ma  aveva già tentato di impedirne l'uscita nelle sale con un’ordinanza provvisoria. I realizzatori hanno risposto con una prima contemporanea in 150 città europee. Il film ha raggiunto un vasto pubblico e da allora vi sono state circa 1.000 proiezioni. ARTE(*) l’ha messo in programma più volte ed è prevista una nuova proiezione  il 12 febbraio, due giorni prima del processo, alle ore 22.00.
Veolia non ha potuto impedire la diffusione del film e tenuto conto dell’opinione pubblica non se l’è presa con i suoi realizzatori. Al loro posto colpisce ora una organizzazione che non è responsabile del contenuto, ma solo della distribuzione del film in Francia. E, naturalmente, l’“informatore”, Jean-Luc Touly. che si è già trovato di fronte al suo ex- padrone (Veolia) in molti processi, e ha sempre vinto.

Nell’udienza del 14 febbraio 2013 Veolia contesterà l'affermazione di Jean-Luc Touly che il gruppo gli avrebbe offerto un milione di euro per non pubblicare il  suo libro. Altri capi d’accusa riguardano i brani del film in cui si usa il termine "corruzione". Non sono quindi i fatti mostrati nel film che hanno portato alla denuncia, ma solo il fatto che li si sia chiamati "corruzione"!
Poco prima della gara d’appalto per il depuratore di Bruxelles Nord, parlamentari e alti funzionari governativi coinvolti nella procedura erano stati ospiti di grandi yacht a Saint Tropez.
Dopo di che  il testo del bando di gara è stato completato con l’inserimento del termine “ tecnica sperimentale” per consentire a Veolia di concorrere e ovviamente Veolia ha vinto la gara. Come chiamereste questo modo di procedere?
Inoltre, Veolia è lo sponsor principale della piattaforma tecnologica UE(**) per la fornitura di acqua e servizi igienico-sanitari. Sul libro paga di Veolia ci sono il vice-presidente e 2 altri membri del comitato incaricato di selezionare per conto della Commissione europea, progetti di ricerca…per i quali Veolia stessa chiede finanziamenti all’Unione Europea.
Come si può chiamare tutto questo? O la porta girevole mostrata nel film? E gli altri esempi citati?
Secondo la legge tedesca non è possibile denunciare il protagonista e il distributore del film ma solo i realizzatori, ma Veolia non ha osato farlo. Ora altri diventano capri espiatori. Jean-Luc Touly  e il distributore francese sono minacciati da ingenti richieste di risarcimento danni. E anche se saranno assolti, un gruppo come Veolia che guadagna fior di miliardi, potrebbe facilmente ricorrere nuovamente appellandosi in  tutti i gradi di giudizio.
Per evitare questo, abbiamo bisogno di
 - coinvolgere un pubblico quanto più grande possibile!
 - segnalare questi fatti sui mezzi di informazione, sia prima che dopo il processo
-  di seguire l'esempio di ARTE organizzando nuove proiezioni del film: è il modo migliore perché si discuta ovunque del caso nella settimana del processo e per informare il pubblico.
Contribuiamo tutti affinché il processo per il film "Water Makes Money" il 14 febbraio si svolga sotto l’occhio vigile di un pubblico il più ampio possibile.

Grazie.

L’equipe di “Water makes money”: Leslie Franke, Herdolor Lorenz, Christiane e Dobbler Lissi Hansen

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*Canale televisivo franco-tedesco
** Le piattaforme tecnologiche riuniscono imprese, centri di ricerca e organismi di ogni tipo allo scopo di definire, a livello europeo, un'agenda strategica di ricerca comune in grado di mobilitare importanti risorse, pubbliche e private, in ambito nazionale ed europeo.

Il cemento famelico

Un'autorevole conferma dei dati sulla devastante dimensione della sottrazioni di suolo alla naturalità, senza contare le altre forme di land grabbing. Quando tutela del paesaggio e urbanistica non s'incontrano.
di Salvatore Settis, La Repubblica, 8 febbraio 2013 (+postilla)
 
OTTO metri quadrati al secondo, per ciascun secondo degli ultimi cinque anni: questo il ritmo del forsennato consumo di suolo che sta consumando l’Italia. Questo dato, che colpisce come una mazzata, emerge dagli studi dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) che ricostruiscono l’andamento del consumo di suolo in Italia dal 1956 al 2010. Siamo passati da un consumo di suolo di 8.000 kmq nel 1956 a oltre 20.500 kmq nel 2010, come dire che nel 1956 ogni italiano aveva perso 170 mq, nel 2010 la cifra è salita a 340 mq pro capite. Tra i divoratori di suolo trionfa la Lombardia, seguita dal Veneto e dal Lazio. Cifre impressionanti, che trascinano l’Italia fuori dall’Europa, dove il consumo medio del suolo è del 2,8%, a fronte di un devastante 6,9 % per il nostro martoriato Paese. È come se ogni anno si costruissero due o tre città nuove, delle dimensioni di Milano e di Firenze, e questo in un Paese a incremento demografico zero.

Dimensioni e natura del disastro non si colgono appieno senza un dato ulteriore: questa dissennata cementificazione si compie a danno dei più preziosi suoli agricoli (pianura padana, Campania un tempo felix, cioè feconda), colpendo al cuore l’agricoltura di qualità, coprendo i suoli con una spessa coltre di cemento (soil sealing) con perdita irreversibile delle funzioni ecologiche di sistema e fragilizzazione del territorio: cresce così la probabilità di frane e alluvioni, se ne rendono più gravi gli effetti. La morfologia del territorio italiano lo rende esposto a terremoti, eruzioni vulcaniche, alluvioni e altre calamità, il cui impatto cresce quando si alterano i già precari equilibri naturali.

Per chi dunque costruiamo, e perché? Da cinquant’anni trova credito in Italia la menzogna secondo cui l’edilizia (comprese le “grandi opere” pubbliche) sarebbe uno dei principali motori dell’economia. È per questo che si sono succeduti, da Craxi a Berlusconi, irresponsabili condoni dei reati contro il paesaggio. In nome di una cultura arcaica, l’investimento “nel mattone” continua ad attrarre investimenti, anche per “lavare” il denaro sporco delle mafie, stabilizzandolo nella rendita fondiaria. Sfugge a politici e imprenditori che la presente crisi economica nasce proprio dalla “bolla immobiliare” americana. Peggio, essi si tappano gli occhi per non vedere che la crisi che attanaglia l’Italia è dovuta, anche, alla mancanza di investimenti produttivi e di capacità di formazione. Si utilizza, invece, il nostro suolo come se fosse una risorsa passiva, una cava da fruttare spolpandola fino all’osso.

Che questo accada nel Paese che per primo al mondo ha posto la tutela del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato (articolo 9 della Costituzione) è un paradosso su cui riflettere. Se agli altissimi principi costituzionali corrispondono pessime pratiche quotidiane, è prima di tutto perché al boom post-bellico, con la sua fame di benessere, non è corrisposta una crescita culturale (né mai vi sarà finché la scuola pubblica viene trattata come un fastidioso optional, secondo la filosofia delle destre). Ma è anche per il peccato d’origine della normativa prebellica: alla legge Bottai sulla tutela del paesaggio (1939) seguì infatti la legge urbanistica del 1942, ma non fu creato fra le due il necessario raccordo, quasi che fosse possibile chiedere alle Soprintendenze di tutelare un paesaggio senza città, ai Comuni di gestire città senza paesaggio.

La Costituzione radicalizzò il contrasto, ponendo le competenze sul paesaggio in capo allo Stato e quelle sul territorio e l’urbanistica in capo alle Regioni (che di solito sub-delegano i Comuni), con una giungla di conflitti di competenza che coinvolge i ministeri dei Beni Culturali, dell’Ambiente e dell’Agricoltura, ma anche regioni, province e comuni. È negli interstizi di questa normativa deficitaria e barcollante che si insediano gli speculatori senza scrupoli, i divoratori del suolo, i nemici del pubblico bene.

Interrompere queste pratiche stolte, si sente ripetere, è impossibile perché vanno protette la manodopera e le imprese. Non è vero. Di lavoro per imprese e operai ve ne sarebbe di più e non di meno se solo si decidesse di dare priorità assoluta alla messa in sicurezza del territorio (il recente rapporto congiunto dell’Associazione nazionale costruttori edili e del Cresme-Centro di ricerche economiche e di mercato dell’edilizia fornisce dati impressionanti su necessità e inadempienze in merito). Se si decidesse di dare priorità al recupero degli edifici abbandonati, di abbattere gli orrori che assediano le nostre periferie sostituendoli con una nuova edilizia di qualità anziché catapultare grattacieli nel bel mezzo dei centri storici.

Se si verificassero i dati sulle proiezioni di crescita demografica prima di autorizzare nuove edificazioni. È falso che vi siano da una parte i “modernizzatori” che cementificano all’impazzata e dall’altra i “conservatori” che non costruirebbero più una casa e condannerebbero alla disoccupazione gli operai. La vera lotta è un’altra: fra chi vuole uno sviluppo in armonia con il bene pubblico e la Costituzione, e chi vede nel suolo italiano solo una risorsa da saccheggiare a proprio vantaggio.

Postilla
I risultati delle analisi dell’autorevole Ispra confermano i dati quantitativi sul consumo effettivo di suolo degli ultimi anni misurati in più sedi . Il trend a livello nazionale (i mediatici 8 mq al secondo) calcolato dall’Istituto conferma l’ordine di grandezza di grandezza delle valutazioni compiute localmente in varie parti d’Italia (la Toscana, l’Emilia-Romagna, la Lombardia): circa 35mila ettari vengono sottratti al territorio ogni anno rurale (agricolo + naturale). Non si tratta più di valutazioni approssimative fondate sulle statistiche della riduzione della superficie delle aziende agricole, ma di dati che misurano l’effettiva trasformazione di terreni porosi e in vario modo caratterizzati da “naturalità” in terreni laterizzati: la “repellente crosta di cemento e asfalto”, per dirla con Antonio Cederna, che sigilla il suolo (soil sealing) tagliando una delle radici che legano la città dell’uomo dalla vita del pianeta. Chi promosse nel 2005, l’edizione della Scuola di eddyburg dedicata a questo innaturale fenomeno, allora ignorato alle istituzioni della cultura e della politica, può oggi essere soddisfatto almeno per la presenza di dati quantitativi attendibili e per l’attenzione dell’opinione pubblica. Siamo però ancora lontani non solo da provvedimenti efficaci per contrastare il fenomeno, ma perfino dalla generale consapevolezza del carattere radicale delle soluzioni necessarie.
 

mercoledì 6 febbraio 2013

La pari dignità dei figli di Dio



di Vito Mancuso (Repubblica, 5 febbraio 2013)

In carica dalla fine di giugno, il nuovo presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia è laureato, oltre che in teologia e filosofia, anche in pedagogia, e si vede. Nella sua prima conferenza stampa da responsabile vaticano per la famiglia monsignor Vincenzo Paglia ha infatti pronunciato parole che, in Vaticano, sull’argomento spinosissimo dei diritti civili delle coppie gay, io non ricordo siano mai state pronunciate.
Naturalmente, nelle sue parole al primo posto non poteva non esserci la difesa del primato della famiglia tradizionale, come è giusto che sia nell’impostazione cattolica e non solo cattolica, visto che il primato della famiglia tradizionale è un’impostazione condivisa da tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità, sia religiose sia filosofiche, che non hanno mai conosciuto un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ma non può non sorprendere il fatto che monsignor Paglia abbia parlato di un necessario riconoscimento dei diritti civili delle coppie di fatto, includendo esplicitamente tra queste, oltre alle coppie eterosessuali, anche quelle omosessuali. «I diritti individuali vanno garantiti », ha detto, aggiungendo che vanno trovate «soluzioni di diritto privato», «all’interno del codice di diritto privato», per tenere conto anche degli aspetti «patrimoniali ».
È la prima volta che un ministro vaticano riconosce esplicitamente e pubblicamente l’esistenza delle coppie omosessuali rendendole soggetto di diritti? A me pare di sì, e non posso non salutare questa affermazione come un significativo passo in avanti. Ricordo infatti che la Santa Sede si è espressa sempre in modo contrario rispetto alla tutela delle coppie omosessuali anche a livello di diritto privato: in Italia tutti ricordano la ferma opposizione contro il progetto del governo Prodi a proposito dei cosiddetti “dico”, mentre nel 2008 l’osservatore permanente della Santa Sede all’Onu, monsignor Celestino Migliore, si espresse contro un progetto della Francia che chiedeva la depenalizzazione universale dell’omosessualità, contrarietà ribadita nel 2011 dall’osservatore permanente della Santa Sede presso l’ufficio dell’Onu a Ginevra monsignor Silvano Tomasi. Ieri invece, in Vaticano, monsignor Paglia ha dichiarato che «un conto è il tema del matrimonio gay, sul quale è nota la nostra posizione, un altro sono le discriminazioni. Nel mondo ci sono forse 25 Paesi dove l’omosessualità è reato. Mi augurerei che come Chiesa combatteremo tutto questo».
Una sterzata abbastanza netta rispetto all’intransigenza esibita finora, anche in considerazione del fatto che alla fine del 2012 papa Benedetto XVI in un’udienza pubblica aveva ricevuto una politica ugandese di nome Rebecca Kadaga, promotrice di azioni legislative particolarmente dure contro la convivenza degli omosessuali. Monsignor Paglia ha detto invece che occorre riaffermare «la pari dignità di tutti i figli di Dio, tutti in questo senso sono santi, perché hanno il sigillo di Dio, nessuno non ce l’ha; e dunque tutti sono intoccabili », parole che hanno fatto risentire un po’ di profumo evangelico nelle sale del potere vaticano.
Il cardinal Martini aveva espresso una posizione analoga. Dopo aver sottolineato che «Dio ci ha creati uomo e donna, e perciò la dottrina morale tradizionale conserva delle buone ragioni» di modo che «la coppia omosessuale in quanto tale non potrà mai essere equiparata in tutto al matrimonio», aveva aggiunto: «Sono pronto ad ammettere il valore di un’amicizia duratura e fedele tra due persone dello stesso sesso », quindi «non è male che due persone abbiano una certa stabilità e in questo lo Stato potrebbe anche favorirli; non condivido la posizione di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili». Fino a ieri la posizione di chi se la prende con le unioni civili era ampiamente maggioritaria nella Chiesa cattolica. Dopo le aperture del nuovo Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia le cose sono cambiate?

domenica 3 febbraio 2013

Acqua: Consiglio di Stato boccia le bollette, aumenti non coerenti con referendum


Saranno restituite ai cittadini le cifre legate ai maggiori esborsi pagati tra il 21 luglioe il 31 dicembre 2011. Forum dei movimenti per l'acqua: "Abbiamo vinto"

Toccherà ora all'Autorità per l'energia decidere il criterio per rimborsare ai cittadini le cifre in più pagate e, a quanto pare, è probabile che invece del conguaglio, ci sarà una restituzione secca. "Abbiamo vinto, non si possono fare profitti sull'acqua - afferma il Forum dei movimenti per l'acqua commentando il parere -. Questa volta a darci ragione è il parere del Consiglio di Stato sulla tariffa: le bollette che i gestori consegnano ai cittadini sono illegittimamente gonfiate e non rispettano la volontà referendaria espressa da 27 milioni di persone". L'Autorità per l'energia "incaricata di formulare la nuova tariffa all'indomani del Referendum, aveva chiesto un parere al Consiglio di Stato sulla remunerazione del capitale investito, ovvero il profitto garantito del 7% presente nelle bollette". La risposta ha confermato "quanto precedentemente affermato dalla Corte Costituzionale: dal 21 luglio 2011, data di proclamazione della vittoria referendaria, la remunerazione del capitale investito doveva cessare di essere calcolata in bolletta". Per questo "quello che i cittadini hanno pagato è illegittimo e i soggetti gestori non hanno più alibi: devono ricalibrare le bollette". Quanto scritto dal Consiglio di Stato - osserva ancora il Forum - "delegittima le scelte che hanno guidato l'Authority nella formulazione della nuova tariffa, emessa un mese fa, in cui la remunerazione del capitale investito viene reintrodotta sotto mentite spoglie".

La guerriglia dell’acqua

di Stefano Rodotà, da Repubblica, 31 gennaio 2013

Sarebbe opportuno che, impegnati troppo spesso in tenzoni sul nulla o in scambi di contumelie, i partecipanti alla campagna elettorale diano pure un’occhiata a un parere del Consiglio di Stato appena pubblicato, che riguarda la fissazione delle tariffe del servizio idrico. Si tratta di un nuovo episodio della lunga guerriglia ingaggiata dai molti interessati che cercano di cancellare i risultati dei referendum del 12 e 13 giugno del 2011, quando ventisette milioni di cittadini dissero no alla privatizzazione forzata dell’acqua e al criterio della «adeguatezza della remunerazione del capitale investito». Venivano allora poste le basi perché l’acqua potesse essere concretamente attratta nella categoria dei «beni comuni».
Nella discussione pubblica irrompeva così un grande e ineludibile tema, rispetto al quale vi sono impegnative prese di posizione internazionali, prima tra tutte quella dell’Assemblea generale dell’Onu che ha definito l’accesso all’acqua un «diritto fondamentale di ogni persona ». Ma una interessata disattenzione ha fatto distogliere lo sguardo della politica da una questione di tanto rilievo, lasciando il campo libero a disinvolte scorrerie, a manovre antireferendarie.

L’obbligo dell’integrale rispetto dei risultati dei referendum era stato ribadito con particolare chiarezza da una importantissima sentenza della Corte costituzionale del luglio dell’anno scorso. Ora il Consiglio di Stato si muove nella medesima direzione. Il suo parere, tecnicamente assai bene costruito, era stato richiesto dall’Autorità dell’energia elettrica e del gas, alla quale spetta appunto il compito di fissare le tariffe. L’Autorità sosteneva che gli effetti del referendum non fossero immediati, sì che i gestori dei servizi idrici avrebbero potuto continuare a ricevere una remunerazione del 7% anche dopo il 21 luglio 2011, data indicata dal decreto che proclamava i risultati referendari. Contro questa pretesa si era mosso il movimento per l’acqua pubblica, con una campagna di “obbedienza civile” che invitava i cittadini a non versare quella parte della tariffa cancellata dal loro voto. Ora il Consiglio di Stato conferma la giustezza di questa tesi, sì che i gestori non potranno trattenere quello che hanno incassato illegittimamente.
Le acrobazie dialettiche dell’Autorità sono state spazzate via con una severa lezione basata su precisi richiami a quali siano gli effetti complessivi dei referendum, che potevano essere facilmente desunti da altre precedenti sentenze della Corte costituzionale, sì che l’atteggiamento finora tenuto dall’Autorità non può essere in alcun modo giustificato. Risulta evidente anzi, che essa non ha adempiuto alla funzione di garanzia che le compete.

Ma la guerriglia non è finita perché, con nuove acrobazie e forzature delle norme, sempre l’Autorità dell’energia elettrica e del gas ha fissato un nuovo sistema tariffario che, battezzandola come «costo della risorsa finanziaria», reintroduce proprio quella remunerazione del capitale del 7% cancellata dal referendum. Questa delibera verrà impugnata dal movimento per l’acqua pubblica e, dopo il parere di ieri, è presumibile che ne venga dichiarata l’illegittimità. Ma è ammissibile il comportamento di una Autorità che gioca la sua partita contro la volontà dei cittadini?
Il richiamo iniziale alla campagna elettorale e ai suoi protagonisti, allora, è tutt’altro che retorico, o d’occasione. Nelle pieghe del dibattito compaiono generici riferimenti ai beni comuni e dichiarazioni che, all’opposto, disconoscono proprio il risultato referendario, definendolo, con improntitudine pari all’ignoranza, solo una «indicazione ». È indispensabile che si esca dalla genericità e si avvii una discussione in primo luogo rispettosa della legalità, dunque dei risultati referendari, che non lasciano spazio a rivincite più o meno interessate. Questi risultati devono essere poi inquadrati in un contesto generale che riguardi, da una parte, una revisione generale della disciplina della proprietà pubblica, dando spazio adeguato alla nuova categoria dei beni comuni. E, d’altra parte, consideri l’insieme dei servizi pubblici in un’ottica costituzionale. Non dimentichiamo che l’articolo 43 della Costituzione italiana prevede che la gestione dei «servizi pubblici essenziali » possa essere affidata, oltre che allo Stato e ad enti pubblici, anche «a comunità di lavoratori o di utenti». Una linea, questa, riecheggiata dall’articolo 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove si «riconosce e rispetta l’accesso ai servizi d’interesse economico generale».