Ay pobre Mexico…
Una
nazione in bilico tra crisi economica e violenza diffusa
Nell’anno del Centenario di una
delle rivoluzioni più importanti della storia del ventesimo secolo, il Messico
è sprofondato in una crisi economica senza precedenti, mentre si registra un’escalation di violenza alimentata dalla
delinquenza e dalla piaga del narcotraffico, ma anche dallo stesso Stato
Federale.
Negli ultimi quattro anni la
povertà si è enormemente diffusa tra la popolazione. Secondo i dati del Coneval
(il Consiglio nazionale di valutazione delle politiche sociali), le persone con
redditi inferiori a 65 dollari mensili, cioè in condizioni di estrema indigenza,
hanno raggiunto in poco tempo i 20 milioni. Se a questi si sommano altri 31 milioni
di cittadini con redditi che non consentono il soddisfacimento dei bisogni essenziali
(come la casa o l’assistenza socio-sanitaria), si deve concludere che oggi la
metà dei messicani sono poveri. Un oltraggio per un paese che nei “mitici anni
novanta” si candidava ad entrare trionfalmente nel Primo Mondo per la porta
principale.
Erano quelli i tempi del NAFTA, l’accordo
sul libero commercio siglato con gli Stati Uniti e il Canada, che secondo i
governanti e le classi dirigenti di allora avrebbe consentito al Messico una rapida
crescita economica e sociale, proiettandolo verso l’eldorado delle nazioni più sviluppate. E in effetti, il progetto
liberista prese decisamente il volo nell’ultimo ventennio, attraversato dal
declino dei governi priisti - gli eredi
della Rivoluzione, al potere in Messico per più di 80 anni - e dall’avvento di
quelli panisti della destra
nazionalista, senz’altro più “adattabile” alla modernità capitalista e ai suoi
processi di globalizzazione.
Ma la costruzione di uno Stato nazionale,
egemonizzato da una borghesia meticcia che “parla spagnolo pensando in inglese,
ha il suo cuore negli Stati Uniti e svolge il ruolo assegnatole dall’attuale
trans-nazionalizzazione dello Stato”*, non ha fin qui prodotto i benefici
promessi - a suo tempo - a tutti i messicani (né sul piano economico, tanto
meno su quello sociale).
La gestione della crisi economica
da parte del governo in carica - retto da Felipe Calderon, che guadagnò la Presidenza nel 2006
ricorrendo a clamorosi brogli elettorali - è stata condotta in modo pessimo. Per
lo meno questo è il giudizio di molti esperti di economia, tra i quali anche il
Premio Nobel Joseph Stiglitz che ha criticato a più riprese l’operato del
governo panista affermando che
“l’eccesso di austerità che pretende di imporre potrebbe contribuire ad
indebolire ulteriormente l’economia”, mentre l’introduzione di una “fiscalità
più equa” e la tassazione delle transazioni e delle rendite finanziarie
risolverebbe molti problemi di bilancio, oltre che scoraggiare la speculazione.
Più che del disastro economico e
sociale, i vertici dello Stato sembrano più preoccupati (ed occupati) a non
deludere il potente vicino del nord. La visita di Stato di Calderon a
Washington del mese scorso era diretta soprattutto ad ottenere il “timbro di
approvazione” di Obama sulla condotta del governo messicano.
Pare che il timbro, alla fine, sia
stato apposto, nonostante le polemiche suscitate dalla richiesta - da parte
messicana - di abrogare la legge-scandalo dell’Arizona sull’immigrazione e di
proibire la vendita di armi pesanti nelle zone di confine. Richiesta legittima
anche quest’ultima, per tentare di ostacolare i potentissimi cartelli messicani
della droga che, grazie alle oltre 7.000 armerie disseminate sulla frontiera, sono
facilmente in grado di ingrossare i loro arsenali.
La guerra (mal concepita) che lo
Stato messicano da 3 anni ha ingaggiato contro i cartelli della droga ha già
provocato più di 23.000 morti, aumentando a dismisura il livello della violenza
in tutto il paese.
La “mano dura” del governo non è
solo rivolta alla repressione dei fenomeni di criminalità. E’ bene ricordare
che in Messico esiste anche un altro tipo di violenza: quella praticata dalle
stesse istituzioni nei confronti dei movimenti popolari. Fino ad un’epoca
recente, essa veniva esercitata con i sequestri, la tortura e la repressione;
ora “si applica anche nei processi giuridici contro gli oppositori, come nel
caso degli attivisti di Atenco condannati a pene maggiori rispetto a quelle
comminate a qualsiasi narcotrafficante o assassino comune.”**
A Città del Messico, la grande
piazza dello Zocalo è diventata teatro della protesta civile di centinaia di
membri del sindacato degli elettricisti (SME), da un mese in sciopero della
fame. Lamentano la perdita del loro posto di lavoro, in seguito al fallimento
dell’azienda parastatale “Luz y Fuerza” che ha portato al licenziamento di
43.000 sindacalisti ed addetti. La strategia del governo di Calderon, simile
del resto a quella dei suoi predecessori, è fin troppo evidente: provocare la
bancarotta delle aziende statali per aprirle alle privatizzazioni, senza badare
alle conseguenze sociali. A pochi metri di distanza, i presidi degli insegnanti
provenienti dallo stato di Oaxaca, in rivolta dal 2006 per ottenere condizioni
di vita e di lavoro più dignitose; la loro comunità continua a subire la
prepotenza delle bande paramilitari controllate dal governo statale del PRI.
Per questi e per molti altri casi
di “violenza istituzionale”, il Centenario della Rivoluzione sarà ricordato in
Messico come l’anno del trionfo – forse definitivo – della Controrivoluzione.
Andrea Necciai
Note:
* ”La Contrarrevolucion
en el poder”, di Gilberto Lopez y Rivas – La Jornada.
**
”Intervista alla giornalista Laura Castellanos”, di Luis Martinez Andrade – El
Columnista.
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