Il sangue dei narcos
Messico:
la “guerra della droga” ha già provocato 30mila morti in quattro anni
Nel
2001, il Segretario di Stato Usa, Colin Powell, a proposito della lotta al
narcotraffico in America latina dovette riconoscere che il problema della droga,
che da decenni affligge la regione, non è endemico, bensì “dipende da ciò che
succede nelle strade di New York e nelle vie di tutte le nostre grandi città”.
In altre parole, il narcotraffico nell’area latinoamericana cresce e si
alimenta grazie alla domanda di stupefacenti che proviene, prevalentemente,
dagli Stati Uniti.
In
Messico dopo l’adozione del Plan Mérida, che prevede aiuti economici per 350
milioni di dollari all’anno, il governo panista
di Felipe Calderón aveva cominciato una vera e propria guerra contro i cartelli
della droga, mobilitando migliaia di
soldati tra effettivi dell’esercito, della marina militare e della polizia
federale. A distanza di qualche anno, i “risultati” raggiunti sono ora sotto
gli occhi di tutti: i massacri all’ordine del giorno, le operazioni di polizia
anticrimine degenerate in guerra civile e il Paese trasformato in un gigantesco,
orrendo, mattatoio.
In
teoria, e secondo gli accordi presi con i vicini nordamericani, la guerra ai
narcotrafficanti avrebbe dovuto impedire alla droga proveniente dal Sudamerica di
fare il suo ingresso in Messico, attraverso la frontiera con Guatemala e
Belize, per poi essere smistata verso gli Stati Uniti. Ma nei fatti, l’offensiva
poliziesco-militare non ha prodotto alcun effetto positivo. Anzi, nel sud del
Messico regna incontrastata la famigerata banda dei “Los Zetas” che si
arricchisce, oltre che con la droga, anche con il traffico dei migranti
centroamericani, in cerca di fortuna al nord, sfruttando questo enorme serbatoio
di mano d’opera a buon mercato nella prostituzione e nella schiavitù del lavoro
nei campi.
Secondo
molti analisti, i fautori di questa guerra inutile, il presidente Calderón e i
suoi mèntori nordamericani, continuano ad ignorare - o forse fanno finta di non
sapere - che per affrontare opportunamente la questione narcotraffico si
dovrebbe tener conto, anzitutto, di tre fattori fondamentali. E tutti e tre
riconducibili alla medesima matrice.
In
primo luogo, la maggiore richiesta di stupefacenti proviene dalla stessa nazione
che più si impegna a combattere la proliferazione del narcotraffico in tutta
l’America latina. Negli Stati Uniti, infatti, vivono milioni di consumatori di
droga che si servono di un terzo di tutta la cocaina prodotta nel mondo: un
giro d’affari gigantesco che fa gola un po’ a tutti, coinvolgendo anche le
banche statunitensi. Dalla XII Conferenza Internazionale sul Riciclaggio è
emerso che gli istituti di credito Usa, solo nell’ultimo decennio, avrebbero
accolto nei loro caveaux tra i 2,5 ed
i 5 trilioni di dollari, frutto di attività illecite come - appunto - il
narcotraffico.
Dunque,
meglio farebbero le autorità statunitensi a concentrarsi di più sugli aspetti legati
alla prevenzione del fenomeno (magari investendo più risorse in programmi sociali
per limitare il consumo di droghe nella popolazione), anziché insistere unicamente
sul versante della repressione manu
militari.
In
secondo luogo, dagli Stati Uniti arrivano anche le armi per i cartelli messicani, grazie ad una fitta
rete di “collaboratori”, tra funzionari di frontiera compiacenti e poliziotti
corrotti, e alle protezioni a livello politico-imprenditoriale di cui godono
gli stessi narcos.
Ed
infine, andrebbero esaminate più a fondo alcune tra le più disastrose conseguenze
del NAFTA, lo sciagurato accordo di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e
Messico, entrato in vigore a fine anni ’90. Il NAFTA, oltre a provocare
l’impoverimento progressivo di intere masse di popolazione, ha costretto
milioni di contadini svantaggiati ad abbandonare per sempre le loro terre, oppure
a dedicarsi a coltivazioni più redditizie, passando dal mais all’oppio (e/o
alla marijuana). Ciò risulta pure da un recente dossier pubblicato dal
periodico “La Jornada”,
che denuncia la presenza nel nord del Messico di grandi latifondi coltivati ad
oppiacei, molti dei quali sono addirittura sorvegliati dai militari. Secondo le
stime più ottimistiche, un quarto di tutta l’economia messicana sarebbe già
nelle mani dei narcos.
Per
molti Paesi dell’America latina, decidere di adottare la strategia
nordamericana di contrasto al narcotraffico, con i suoi metodi repressivi,
significa esporsi sempre di più all’ingerenza della Casa Bianca nei propri
affari interni, con il rischio di cadere - o ricadere - sotto il suo controllo
militare, economico e politico. Come nel caso messicano, in cui la sovranità
del Paese è stata consegnata agli Stati Uniti in cambio dell’adozione di una
politica antidroga cinica e spietata. Ed è ovvio che dietro il paravento della
lotta al crimine organizzato si nascondono soprattutto ingenti interessi
economici. Così, mentre il sangue di tanti messicani scorre a fiotti nelle
strade, pochi privilegiati si ingrassano con i lauti profitti della “narcoguerra”.
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