L’Europa come
l’America latina degli anni 80-90
Il
Vecchio Continente alle prese con deficit statali e misure di austerità “anticrisi”.
Da
un po’ di tempo alcuni analisti economici hanno cominciato a parlare di
“latinoamericanizzazione” dell’Europa. Il riferimento è al programma di
risanamento dell’Unione Europea, basato su un pacchetto di riforme di stampo liberista
atte a contrastare l’attuale crisi economica. Si tratta, in realtà, di un déjà-vu di deregolamentazione, misure di
aggiustamento strutturale e tagli allo stato sociale che rievoca il dramma dell’America
latina degli anni ottanta e novanta: un intero continente sottomesso al FMI, al
“Consenso di Washington” e al suo capitalismo cannibale.
Per comprendere appieno l’origine di questa crisi economica, occorre fare un
passo indietro agli anni dell’esplosione negli Stati Uniti delle bolle speculative, quelle che hanno
messo in ginocchio l’intero sistema finanziario internazionale. La deregulation applicata a questo settore,
che aveva già evidenziato nel corso degli anni un enorme flusso di speculazione
sfrenata, ha prodotto come conseguenza un’invasione di “titoli spazzatura”. Sono
stati questi fondi il detonatore della crisi del 2008, nel momento in cui negli
Usa molti contraenti non sono più riusciti a pagare le rate dei prestiti e dei
mutui. E solo a quel punto tutti hanno tentato di disfarsi al più presto dei
“titoli spazzatura”: una massa di prodotti finanziari che fino a poco tempo
prima erano stati valutati come “sicuri” dalle agenzie di rating, ma che ancora
oggi circolano per le Borse come mine vaganti “intossicando” il sistema
finanziario.
Le banche salve, gli Stati in pericolo.
Una volta scoppiato il cataclisma conseguente al crollo delle Borse, i
governi e le banche centrali - in Europa come negli Usa - si sono precipitati
al capezzale delle banche e dei moribondi enti finanziari e, a furia di iniezioni
di milioni di euro e di dollari pubblici, ne hanno scongiurato la bancarotta
(ma chissà per quanto tempo ancora). Sorte peraltro già toccata a decine di
istituti di credito dall’inizio della crisi.
Però ora, sono gli Stati a rischiare il fallimento. Lo stallo economico derivante
dalla crisi finanziaria ha fatto diminuire le entrate statali (flessione del
gettito fiscale) e ha - viceversa - enormemente aumentato la spesa pubblica, a
causa della disoccupazione dilagante e dell’attuazione delle riforme per la
riattivazione dell’economia. Da qui il deficit
strutturale che ha ridotto sul lastrico la Grecia e ha messo nei guai
altre nazioni europee ad alto indebitamento, come il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna e - non ultima - la
nostra Italia. Su tutte si moltiplicano le voci di “rischio default”.
Di fronte alla seria minaccia di bancarotta di interi Stati europei, le grandi
istituzioni economico-finanziarie (FMI, Banca Mondiale ed Unione Europea) rispondono
con le solite ricette neoliberiste a base di tagli allo stato sociale e di aggiustamenti
strutturali: “arnesi” vecchi di decenni che hanno prodotto solo fallimenti e disastri,
come nel caso dell’America latina degli anni 80 e 90.
Come in America latina venti anni fa.
Gli “aggiustamenti strutturali” propinati dal Fondo Monetario Internazionale
e dalla sorella Banca mondiale nascono, infatti, proprio alla metà degli anni 80,
“una risposta per porre rimedio alla prima crisi del debito, in Messico nel
1982. Ricette pure neo-liberiste che includono privatizzazione degli enti
pubblici, liberalizzazione dei mercati di capitali, merci e servizi, drastica
riduzione delle spese sociali, il tutto per ottenere moneta pregiata e ripagare
i pesanti debiti contratti negli anni '60 e '70 e poi schizzati alle stelle
dopo la rottura del sistema monetario internazionale voluta dalla Casa Bianca. L'America
latina è la regione che per prima applica scientificamente le ricette del
Fondo, arrivando ad estremi senza paragoni. Sotto la scure del Fondo passano i
sistemi sanitari e quelli previdenziali, ma soprattutto si verifica la svendita
di proprietà nazionali. Dopo le nuove crisi del debito di inizio anni '90, il
controllo dell'inflazione in paesi fragili che devono ancora intraprende un
processo di accumulazione e di sviluppo diventa ossessivo, ed il costo del
denaro è così alto da non permettere nessun investimento locale, mentre le
banche ed i risparmi locali sono tutti ormai sotto il controllo straniero.
Emblematico il caso brasiliano degli anni '90, con la moneta ancorata
decisamente al dollaro. Si arriva persino alla completa «dollarizzazione»
dell'Ecuador alla fine del 1999 con devastanti impatti sociali, e quindi alla
crisi Argentina alla fine del 2001, ovvero il paese modello in assoluto del Fondo
sotto la presidenza Menem, che collassa poco dopo. […]”*
E adesso, chi paga il conto?
In Europa, dopo il salvataggio di molti istituti di credito con fondi
pubblici, sono ora gli Stati nazionali a soffrire forti crisi di indebitamento,
le quali hanno, e continueranno ad avere in futuro, drammatiche ripercussioni
sulla tenuta del welfare e sul tenore
di vita delle popolazioni. Ma la vera questione riguarda, piuttosto, chi dovrà
continuare a pagare tutti questi deficit:
saranno le banche, le stesse che li hanno generati, oppure - come al solito - i
lavoratori e i contribuenti degli Stati membri con i loro sacrifici? La
risposta sembra fin troppo scontata.
Per nulla memori dei disastri economico-sociali già provocati in America
latina a partire dagli anni 80, i governi della Vecchia Europa, tutti ancora
devotissimi al neoliberismo, possono solo promettere ai loro cittadini riforme “lacrime
e sangue”, in linea con la regola prima del capitalismo liberista: “privatizzare
i profitti e socializzare le perdite”.
Andrea Chile Necciai
Note: *
“FMI e Banca mondiale, vent'anni di ricatti e disastri”, 10/10/2007, di Antonio
Tricarico.
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