Tutti, da Monti a
Berlusconi a Prodi, dalla Confindustria ai sindacati, dai neoliberisti
ai neokeynesisti, invocano la crescita. Un mantra, un dogma
ossessionate, “il mito fondativo – scrive Franco Cassano in La mitezza del male, Laterza,
2011 – dell’ordine simbolico e dell’immaginario della modernità”. Il
rimedio universale alle crisi (finanziaria, produttiva, occupazionale,
ambientale, climatica, energetica, alimentare, idrica… sistemica) è la
crescita economica. Le differenze tra i diversi attori politici è sul come ottenerla, non sulla sua necessità. Ma domandiamoci cosa significa crescita oggi, nel contesto del market system, dei modi di produzione capitalistici e della competizione senza frontiere.
Semplice: crescita
significa aumentare il volume di denaro in circolazione da spendere poi
per salari, investimenti, servizi. Vale a dire, il fantomatico Pil. Il
denominatore con cui si misura deficit e debito e ogni altra performance
economica. L’usuale indicatore del benessere secondo politici ed
economisti.
I modi per ottenere la
crescita dei flussi monetari in circolazione sono tre (non mi pare ce ne
siano altri, ma sono pronto a imparare nuovi giochi di prestigio dagli
economisti): aumentare la produzione di merci commerciabili, stampare
moneta, ottenere prestiti. Per un paese periferico come l’Italia temo
che tutte tre queste strade siano precluse, che non vi siano più margini
di manovra. Per le aziende, produrre sempre di più a prezzi sempre più
bassi significherebbe vincere la competizione con le “fabbriche del
mondo” low cost di Cindia, da una parte, e con i giganteschi
complessi industriali e militari che più investono nell’innovazione
tecnologica e nella ricerca scientifica, dall’altra.
Creare artificialmente
liquidità (come fanno Stati Uniti e Gran Bretagna) non è possibile
perché, banalmente, non disponiamo più di una moneta e, se lo facesse
l’Unione Europea per noi con l’euro, la sua “divisa” verrebbe
inevitabilmente svalutata nelle transazioni internazionali. L’ultima
strada, l’indebitamento, ovvero quella percorsa fino ad oggi, non ci è
più consentita, semplicemente perché non c’è più nessun “investitore”
disposto a prestarci denari se non a interessi usurai e chiedendo in
pegno cespiti quali i beni demaniali, la gestione dei servizi pubblici e
qualsiasi altro “gioiello di famiglia” ancora non privatizzato.
Mi domando, domandiamoci:
vale la pena far lavorare di più e più a lungo un numero sempre minore
di persone per meno salario e con meno diritti, lasciando senza lavoro i
giovani, indebitando chi verrà dopo di noi per generazioni e svendere i
patrimoni pubblici per cercare di inseguire la crescita? Cerco di farmi
capire dagli economisti usando il loro linguaggio: il calcolo dei
costi/benefici generati dalla spirale debito/sacrifici/crescita è
palesemente negativo, contro produttivo e peggiora le condizioni di vita
della stragrande maggioranza della popolazione. Perseverare nel
progetto della crescita economica, cioè nel tentativo di aumentare i
flussi monetari dentro questo sistema di mercato, è mera follia
devastante, autodistruttiva.
Il tema, quindi, dovrebbe
essere non come inseguire la chimera della crescita, ma come prendere
atto con realismo e umiltà che siamo già entrati nella post growth economy,
in una economia-dopo-la-crescita, che non saranno mai più possibili
incrementi esponenziali permanenti (un tot all’anno) del Pil. Chi ce lo
fa credere ci inganna sapendo di mentire. Tenta solamente di tenerci
soggiogati, di spremerci fino all’ultimo centesimo. Il dramma sociale
della Grecia, con 100 mila aziende chiuse e un aumento del 40 per cento
dei suicidi nel primo semestre del 2011 rispetto allo stesso periodo
dell’anno precedente, funziona da monito.
Non c’è possibilità di
reversione in una economia governata dalle logiche dei mercati
finanziari. Da trent’anni siamo entrati nell’economia del debito che si
basa sulla anticipazione di flussi di cassa immaginari, ipotetici ma
irrealizzabili. Nel “primo mondo” atlantico, i rendimenti finanziari
superano quelli realizzati nell’economia reale. Le rendite superano e
surrogano i profitti. Scrive Maurizio Lazzarato (La fabrique de l’homme endetté. Essai sur le candition néolibérale.
Editions Amsterdam, 2001. Traduzione in “Alfabeta2”, n.15) che il
capitalismo finanziario, il sistema del credito è una vera e propria fabbrica dell’uomo indebitato:
“La successione delle crisi finanziarie ha fatto emergere violentemente
una figura soggettiva che era già presente, ma che occupa ormai
l’insieme dello spazio pubblico: l’uomo debitore”.
Il governo attraverso il
ricatto del debito (onora i tuoi impegni o perderai tutto) crea
dipendenza, intossica la società e funziona come dispositivo di
schiavizzazione.. Le élites al potere economico-finanziario sono così in
grado di dettare la loro legge ai parlamenti: remunerare i capitali,
pagare i possessori dei titoli del debito, gli investitori, i
proprietari dei capitali finanziari.
L’estorsione del valore
del lavoro non avviene più fabbrica per fabbrica, ma attraverso il
gigantesco, planetario gioco dei mercati obbligazionari: il “Grande
Creditore Universale” che manovra un flusso di denaro dalle 8 alle 12
volte maggiore del Pil mondiale. Le regole si sono rovesciate: sono i
crediti a fare i depositi; è la moneta (in eccesso) che drena il
risparmio.
Tutti siamo diventati
debitori, anche chi non ha il mutuo o non usa la carta di credito, a
causa del debito pubblico contratto dallo Stato, dal Comune,
dall’istituto di previdenza, dalla azienda municipalizzata, dalla
azienda sanitaria, dalla scuola dove va a studiare il figlio e così via.
O paghi (riduzione dei salari, delle pensioni e tagli al welfare) o default;
niente lavoro, niente servizi. Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e
Italia insieme devono al resto del mondo 3.000 miliardi di euro. Solo
l’Italia dovrà vendere più di 30 miliardi di euro di nuovi titoli di
stato entro la fine di gennaio per rifinanziare i propri debiti. Non c’è
nessuna crescita che possa ripagare questi debiti.
E’ giusto mettere in discussione il rapporto di forza e di potere asimmetrico creditore/debitore (audit
e rinegoziazione con congelamento dei debiti, moratoria dei rimborsi,
“default controllato”, titoli sovrani riallocati nelle riserve bancarie ope legis,
ecc.) fino a rivendicare il “diritto all’insolvenza” a fronte della
esosità dei creditori e gridare – come fanno i movimenti degli indignati
in tutto il mondo – “non paghiamo noi i vostri debiti”. Ma serve anche
mettere in campo una idea di società post-crescita e post-debito, che
possa cioè fare a meno di indebitarsi per investire, per produrre, per
lavorare, per usufruire di servizi.
Una società che riesca a
liberarsi definitivamente dagli strozzini, dall’intermediazione
finanziaria parassitaria priva di scrupoli e di rischi è una società che
riesce a superare l’economia debitoria. Una società che riconosca anche
nel denaro un bene comune, un bene strumentale neutro. La moneta deve
tornare ad essere un mezzo tecnico di servizio utile a facilitare gli
scambi equi e fiduciari tra le persone, non una merce con cui ci si
possa arricchire ai danni dei produttori. Una società in cui anche i
mercati tornino ad essere costruzioni sociali, non templi della
religione del dio denaro, nient’affatto “liberi” e meno che mai
“naturali”. Vanno sottoposti continuamente a regole che ne finalizzino
la funzione al bene delle popolazioni, non il contrario.
Non è vero che non
esistono alternative. Forme e modalità di relazioni economiche
alternative, fuori mercato, possono essere pensate e già ve ne sono.
Basti pensare al lavoro domestico e di cura, all’economia informale in
tanta parte del sud del mondo e all’autoproduzione, agli ecosystem service
che ci vengono donati gratuitamente dalla natura, alla fruizione
collettiva, condivisa e compartecipe dei beni comuni. Serve un benessere
senza crescita, un’economia del bastevole che sappia soddisfare i
bisogni e i desideri di ciascuno con ciò che si ha a disposizione, senza
l’assillo dell’accumulazione, dell’accaparramento delle risorse, senza
cadere nelle fauci dei detentori dei titoli di credito.
Fonte: Paolo Cacciari
http://www.democraziakmzero.org/2011/12/12/riflessioni-di-un-antieconomico/
http://www.democraziakmzero.org/2011/12/12/riflessioni-di-un-antieconomico/