Ciao a tutti,
in tempi in cui sui giornali italiani (ed europei...) si parla solo di prostitute e festini di Berlusconi una tragedia come quella avvenuta a Baghdad, dove si é verificato il più importante attentato ai danni dei Cristiani dalla caduta di Saddam, rischia di passare rapidamente in secondo piano ed essere dimenticata.
Per avere un'idea della situazione vi mando questo reportage uscito poche settimane prima dell'attentato che evidenzia le condiziani di tragica precarietà in cui vivono i Cristani in Iraq e che, letto pochi giorni dopo l'attentato, mi ha fatto venire la pelle d'oca.
Lo
Tracce N.9, Ottobre 2010
CRISTIANI IN IRAQ
Noi, i martiri di Mosul
di Monica Maggioni e Gian Micalessin
Le bombe alle chiese. Il verduraio freddato in pieno giorno. Centinaia di famiglie in fuga... Reportage dall'Iraq, dove i cristiani sono perseguitati nell'indifferenza di tutti. Ma dove c'è chi ha scelto di continuare a vivere la fede
Bassam incomincia a parlare, si blocca, fa un cenno alla moglie, indicando i due bimbi. Lei ne piglia uno in braccio, l'altro se lo tira dietro per mano, e scompare nel chiostro del santuario. Bassam ricomincia. «Non voglio che sentano, non voglio farli crescere nella paura, non voglio che diventino come noi». Non ha fatto niente di male Bassam. A parte nascere cristiano. A parte vedere.
«Se non avessi visto con questi occhi, sarei ancora a casa mia. Ma ho visto e so... A Mosul non posso più vivere». Si fa il segno della croce. Sbircia i figli nel chiostro, i loro giochi lontani. «È successo a febbraio, davanti all'università, davanti alla bancarella di verdure di un cristiano. Era un brav'uomo, non dava fastidio a nessuno. All'improvviso arrivano quei due. Lo chiamano, gli chiedono i documenti. Lui ha paura, balbetta, alza le mani, allunga la carta d'identità. Allora penso: son poliziotti. Gliela restituiscono, tirano fuori una pistola, gli sparano in mezzo agli occhi. Hanno letto cristiano sul documento e hanno premuto il grilletto. Nessuno ha detto niente, nessuno ha mosso un dito. Neppure io. E chi aveva il coraggio? Siamo rimasti immobili, terrorizzati. Mentre quel poveretto agonizzava. Mentre gli assassini scappavano».
Bassam si aggiusta gli occhiali, ti mostra la cella del santuario. Letti e materassi uno sopra l'altro. Il respiro sommesso di una poppante avvinghiata al seno della madre, l'odore di cibo, di pignatte incrostate su un fornelletto arrugginito. L'unico per una stanza da dodici. La cella di un monastero diventato campo profughi. «Guarda come siamo messi... A Mosul vendevo condizionatori, non avevo problemi. Ma da quel giorno Mosul è paura, ansia, terrore. Meglio la miseria, meglio una vita da profughi, meglio perder tutto che rischiar la vita di mia moglie e dei miei figli».
Ai piedi dei monti. Bassam è uno dei tanti cristiani in fuga da Mosul. Vive da mesi tra le mura di pietra del monastero di Notre Dame, nel villaggio di Al Qosh. Da Mosul sono trenta chilometri, o poco più, ma questa strada alle porte del Kurdistan e alle pendici dei monti Bayhidhra, è uno dei sentieri dell'esodo cristiano. Da qui passa una delle vie di fuga di una comunità piegata, umiliata, perseguitata. Una comunità nata ai primordi del cristianesimo, ai piedi di queste montagne, in quella piana di Ninive dove l'apostolo san Tommaso piantò la croce. Da allora, Mosul è la sede del Patriarcato caldeo. Duemila anni dopo, la tradizione antica rischia di venir sradicata. Il primo a spiegartelo da Baghdad è monsignor Shlemon Warduni, il Patriarca vicario caldeo, testimone dalla sua chiesa - nel cuore della capitale - dall'inizio della persecuzione cristiana. «Negli anni Novanta, eravamo più di un milione ed eravamo felici e rispettati. Nel 2003, dopo l'invasione americana, incominciano l'odio, gli attacchi, i rapimenti, i tentativi di cacciarci, la fuga di 250mila persone. Nel quartiere di Doha, c'era una delle più importanti comunità caldee... Oggi non c'è più nessuno, li hanno espulsi a suon di sparatorie, rapimenti e assassinii. Poi sono iniziati gli attacchi alle chiese e la grande fuga da Baghdad. Molti speravano di trovar pace a Mosul o nella piana di Ninive, nelle terre dove abbiamo vissuto per millenni, ma si sbagliavano».
A fartelo capire ci pensa padre Mazen Matoka, un prete di Mosul, parroco di Qaraqosh, a 15 chilometri dal capoluogo. «Qui il terrore è arrivato nel 2008. È incominciato con le bombe... Colpivano le chiese, le case, le scuole private. Settimana dopo settimana, abbiamo visto fuggire 700 famiglie. Adesso, qui a Mosul ne restano, sì e no, un migliaio». La famiglia di padre Mazen non è più tra quelle. Succede un pomeriggio dello scorso febbraio. Il parroco va a dir messa a Qaraqosh: ad attenderlo a Mosul restano la mamma, le due sorelle, papà Jeshu e i fratelli Mukhlas e Bassem. Mentre lui dice messa, arrivano i sicari. «Tirano fuori le pistole, chiedono i documenti, spingono in una stanza la mamma e le sorelle. Mamma offre dei soldi, ma loro rifiutano. Lei scappa sul balcone, urla, chiede aiuto, ma non arriva nessuno. Dopo un po', nell'altra stanza, incominciano a sparare. Mia madre corre dentro. Uno dei tre assassini trema, non riesce a premere il grilletto, ma gli altri non esitano... Ammazzano prima papà, poi Mukhlas e Bassem. Così - sospira il parroco - hanno distrutto la mia famiglia. Cosi uccidono i cristiani a Mosul». L'aspetto più inquietante di quella strage è l'indifferenza. «Da quando entrano in casa nostra a quando fuggono passa più di un'ora, i vicini sentono le urla, chiamano soldati e polizia. Eppure non arriva nessuno. Ancora oggi - ripete il parroco - nessuno mi sa spiegare il perché».
L'idea di un complotto, di una cospirazione messa in piedi per far fuggire i cristiani e impossessarsi delle loro terre, è quanto mai diffusa. Il centro petrolifero di Mosul è - assieme a quello più importante di Kirkuk - una delle due grandi città contese del Nord dell'Iraq, una città dove i curdi cercano l'egemonia ai danni delle tribù arabe sunnite. Secondo Gabriel Toma, quarant'anni, parroco caldeo del monastero di Al Qosh, quella lotta alimenta anche la persecuzione dei cristiani. «I gruppi fondamentalisti che uccidono o rapiscono i nostri fedeli sono solo il sintomo, la manifestazione del male. Ma bisogna chiedersi a chi giova uccidere i cristiani, a chi fa comodo cambiare la composizione territoriale della zona». Secondo questa interpretazione, le fazioni curde fingono di proteggere i cristiani, ma in realtà non muovono un dito. Dietro quest'atteggiamento ambiguo ci sarebbe il rancore per l'appoggio fornito dalla comunità cristiana al regime di Saddam, il ricordo del ruolo giocato all'interno del regime dal caldeo Tareq Aziz. Atheel al-Nujaifi, il governatore sunnita della provincia di Ninive, accusa esplicitamente i capi miliziani curdi e li indica come i veri istigatori delle violenze. «Far uccidere un cristiano è il mezzo migliore per diffondere paura e instabilità... Qui chi si oppone ai piani curdi viene perseguitato, minacciato, arrestato e spesso liquidato», accusa Nujaifi. E Bassem Bello, sindaco cristiano del villaggio di Tel Kaif, rilancia. «Ad ogni attacco, altre famiglie fuggono all'estero. Il piano è semplice, vogliono sloggiare i cristiani originari di queste zone per mettere le mani sulle nostre terre».
Armi alla porta. Qualcuno però ha deciso di continuare a pregar Cristo. Anche a costo di farlo con la spada al fianco. O il kalashnikov. Per capirlo, basta puntare verso il santuario di Santa Barbara, nel villaggio cristiano di Karamlis. Lì, sulla strada per Mosul, un gruppo di uomini armati blocca il traffico, ispeziona le auto, controlla documenti e passeggeri. Più in là, un altro gruppetto è pronto a dare man forte. Tra gli archi e le sacrestie del sacrario, uno stuolo di parroci e prelati saluta il vescovo di Mosul, monsignor Amel Nuna. Ci viene incontro con un sorriso. E tante scuse. «Mi dispiace per le armi alla porta, ma dovete capire». Per capirlo basta conoscere la storia di Paulos Farai Rakha, il suo predecessore ritrovato cadavere - due anni fa - dopo esser stato rapito da un gruppo fondamentalista. «Qui se porti questa al collo rischi di non tornare vivo», spiega, accarezzando la croce dorata: «Per questo, in alcune zone i nostri fedeli devono difendersi da soli».
Il quartier generale dei miliziani di Karamlis è di fronte alla chiesa di Sant'Adday nel centro del villaggio. Un "colonnello" e un "capitano", circondati da un gruppo di fedelissimi con kalashnikov e ricetrasmittente, fanno la guardia all'ex ufficio postale trasformato in posto di comando. Da lì, organizzano la difesa di 5mila cristiani sotto scacco. Dietro i gradi militari - ricordo di una carriera nei ranghi di Saddam - ci sono Shaker Banjamin e Latif Issa, due ex ufficiali di 48 anni, che si sono ritrovati, dopo la caduta del dittatore, senza un lavoro e una paga. «Fino al 2003, noi e gli altri cristiani di questo villaggio eravamo gente felice - racconta il "colonnello" Shaker -, poi all'improvviso è cambiato tutto: io e Latif ci siamo ritrovati in strada, mentre il villaggio è diventato un obbiettivo per tutti i curdi e i musulmani dei dintorni. Così nel 2003, dopo le prime minacce, io e Latif abbiamo messo su una guardia civica disarmata per controllare il centro abitato». Due anni dopo, quel primo embrione di milizia non basta più. «Tutt'intorno, Al Qaeda e altri gruppi estremisti mettevano bombe e uccidevano i civili. Così abbiamo chiesto agli americani il permesso di organizzare una guardia civile con divise, armi, radio e posti di blocco. Ora anche il governo e l'esercito iracheno hanno riconosciuto ufficialmente il nostro ruolo».
Guardia civile. Oggi i 5mila abitanti cristiani di Karmalis possono contare su una vera milizia "crociata", forte di 243 uomini guidati da 10 ex ufficiali saddamisti. La presenza della "guardia civile" ha già risparmiato brutte sorprese. «I miei uomini sono tutti volontari. Vivono con i contributi tirati su grazie alle offerte in chiesa, ma hanno già fermato molti estremisti pronti ad attaccarci. Lavorano per difendere le proprie famiglie, per questo sono molto più efficienti di un vero esercito. Ma non serve sparare. Per eliminare la minaccia basta la loro presenza. A Mosul uccidono i cristiani perché la polizia non muove un dito. Qui non osano entrare. Sanno che non potrebbero mai farla franca».
«Se non avessi visto con questi occhi, sarei ancora a casa mia. Ma ho visto e so... A Mosul non posso più vivere». Si fa il segno della croce. Sbircia i figli nel chiostro, i loro giochi lontani. «È successo a febbraio, davanti all'università, davanti alla bancarella di verdure di un cristiano. Era un brav'uomo, non dava fastidio a nessuno. All'improvviso arrivano quei due. Lo chiamano, gli chiedono i documenti. Lui ha paura, balbetta, alza le mani, allunga la carta d'identità. Allora penso: son poliziotti. Gliela restituiscono, tirano fuori una pistola, gli sparano in mezzo agli occhi. Hanno letto cristiano sul documento e hanno premuto il grilletto. Nessuno ha detto niente, nessuno ha mosso un dito. Neppure io. E chi aveva il coraggio? Siamo rimasti immobili, terrorizzati. Mentre quel poveretto agonizzava. Mentre gli assassini scappavano».
Bassam si aggiusta gli occhiali, ti mostra la cella del santuario. Letti e materassi uno sopra l'altro. Il respiro sommesso di una poppante avvinghiata al seno della madre, l'odore di cibo, di pignatte incrostate su un fornelletto arrugginito. L'unico per una stanza da dodici. La cella di un monastero diventato campo profughi. «Guarda come siamo messi... A Mosul vendevo condizionatori, non avevo problemi. Ma da quel giorno Mosul è paura, ansia, terrore. Meglio la miseria, meglio una vita da profughi, meglio perder tutto che rischiar la vita di mia moglie e dei miei figli».
Ai piedi dei monti. Bassam è uno dei tanti cristiani in fuga da Mosul. Vive da mesi tra le mura di pietra del monastero di Notre Dame, nel villaggio di Al Qosh. Da Mosul sono trenta chilometri, o poco più, ma questa strada alle porte del Kurdistan e alle pendici dei monti Bayhidhra, è uno dei sentieri dell'esodo cristiano. Da qui passa una delle vie di fuga di una comunità piegata, umiliata, perseguitata. Una comunità nata ai primordi del cristianesimo, ai piedi di queste montagne, in quella piana di Ninive dove l'apostolo san Tommaso piantò la croce. Da allora, Mosul è la sede del Patriarcato caldeo. Duemila anni dopo, la tradizione antica rischia di venir sradicata. Il primo a spiegartelo da Baghdad è monsignor Shlemon Warduni, il Patriarca vicario caldeo, testimone dalla sua chiesa - nel cuore della capitale - dall'inizio della persecuzione cristiana. «Negli anni Novanta, eravamo più di un milione ed eravamo felici e rispettati. Nel 2003, dopo l'invasione americana, incominciano l'odio, gli attacchi, i rapimenti, i tentativi di cacciarci, la fuga di 250mila persone. Nel quartiere di Doha, c'era una delle più importanti comunità caldee... Oggi non c'è più nessuno, li hanno espulsi a suon di sparatorie, rapimenti e assassinii. Poi sono iniziati gli attacchi alle chiese e la grande fuga da Baghdad. Molti speravano di trovar pace a Mosul o nella piana di Ninive, nelle terre dove abbiamo vissuto per millenni, ma si sbagliavano».
A fartelo capire ci pensa padre Mazen Matoka, un prete di Mosul, parroco di Qaraqosh, a 15 chilometri dal capoluogo. «Qui il terrore è arrivato nel 2008. È incominciato con le bombe... Colpivano le chiese, le case, le scuole private. Settimana dopo settimana, abbiamo visto fuggire 700 famiglie. Adesso, qui a Mosul ne restano, sì e no, un migliaio». La famiglia di padre Mazen non è più tra quelle. Succede un pomeriggio dello scorso febbraio. Il parroco va a dir messa a Qaraqosh: ad attenderlo a Mosul restano la mamma, le due sorelle, papà Jeshu e i fratelli Mukhlas e Bassem. Mentre lui dice messa, arrivano i sicari. «Tirano fuori le pistole, chiedono i documenti, spingono in una stanza la mamma e le sorelle. Mamma offre dei soldi, ma loro rifiutano. Lei scappa sul balcone, urla, chiede aiuto, ma non arriva nessuno. Dopo un po', nell'altra stanza, incominciano a sparare. Mia madre corre dentro. Uno dei tre assassini trema, non riesce a premere il grilletto, ma gli altri non esitano... Ammazzano prima papà, poi Mukhlas e Bassem. Così - sospira il parroco - hanno distrutto la mia famiglia. Cosi uccidono i cristiani a Mosul». L'aspetto più inquietante di quella strage è l'indifferenza. «Da quando entrano in casa nostra a quando fuggono passa più di un'ora, i vicini sentono le urla, chiamano soldati e polizia. Eppure non arriva nessuno. Ancora oggi - ripete il parroco - nessuno mi sa spiegare il perché».
L'idea di un complotto, di una cospirazione messa in piedi per far fuggire i cristiani e impossessarsi delle loro terre, è quanto mai diffusa. Il centro petrolifero di Mosul è - assieme a quello più importante di Kirkuk - una delle due grandi città contese del Nord dell'Iraq, una città dove i curdi cercano l'egemonia ai danni delle tribù arabe sunnite. Secondo Gabriel Toma, quarant'anni, parroco caldeo del monastero di Al Qosh, quella lotta alimenta anche la persecuzione dei cristiani. «I gruppi fondamentalisti che uccidono o rapiscono i nostri fedeli sono solo il sintomo, la manifestazione del male. Ma bisogna chiedersi a chi giova uccidere i cristiani, a chi fa comodo cambiare la composizione territoriale della zona». Secondo questa interpretazione, le fazioni curde fingono di proteggere i cristiani, ma in realtà non muovono un dito. Dietro quest'atteggiamento ambiguo ci sarebbe il rancore per l'appoggio fornito dalla comunità cristiana al regime di Saddam, il ricordo del ruolo giocato all'interno del regime dal caldeo Tareq Aziz. Atheel al-Nujaifi, il governatore sunnita della provincia di Ninive, accusa esplicitamente i capi miliziani curdi e li indica come i veri istigatori delle violenze. «Far uccidere un cristiano è il mezzo migliore per diffondere paura e instabilità... Qui chi si oppone ai piani curdi viene perseguitato, minacciato, arrestato e spesso liquidato», accusa Nujaifi. E Bassem Bello, sindaco cristiano del villaggio di Tel Kaif, rilancia. «Ad ogni attacco, altre famiglie fuggono all'estero. Il piano è semplice, vogliono sloggiare i cristiani originari di queste zone per mettere le mani sulle nostre terre».
Armi alla porta. Qualcuno però ha deciso di continuare a pregar Cristo. Anche a costo di farlo con la spada al fianco. O il kalashnikov. Per capirlo, basta puntare verso il santuario di Santa Barbara, nel villaggio cristiano di Karamlis. Lì, sulla strada per Mosul, un gruppo di uomini armati blocca il traffico, ispeziona le auto, controlla documenti e passeggeri. Più in là, un altro gruppetto è pronto a dare man forte. Tra gli archi e le sacrestie del sacrario, uno stuolo di parroci e prelati saluta il vescovo di Mosul, monsignor Amel Nuna. Ci viene incontro con un sorriso. E tante scuse. «Mi dispiace per le armi alla porta, ma dovete capire». Per capirlo basta conoscere la storia di Paulos Farai Rakha, il suo predecessore ritrovato cadavere - due anni fa - dopo esser stato rapito da un gruppo fondamentalista. «Qui se porti questa al collo rischi di non tornare vivo», spiega, accarezzando la croce dorata: «Per questo, in alcune zone i nostri fedeli devono difendersi da soli».
Il quartier generale dei miliziani di Karamlis è di fronte alla chiesa di Sant'Adday nel centro del villaggio. Un "colonnello" e un "capitano", circondati da un gruppo di fedelissimi con kalashnikov e ricetrasmittente, fanno la guardia all'ex ufficio postale trasformato in posto di comando. Da lì, organizzano la difesa di 5mila cristiani sotto scacco. Dietro i gradi militari - ricordo di una carriera nei ranghi di Saddam - ci sono Shaker Banjamin e Latif Issa, due ex ufficiali di 48 anni, che si sono ritrovati, dopo la caduta del dittatore, senza un lavoro e una paga. «Fino al 2003, noi e gli altri cristiani di questo villaggio eravamo gente felice - racconta il "colonnello" Shaker -, poi all'improvviso è cambiato tutto: io e Latif ci siamo ritrovati in strada, mentre il villaggio è diventato un obbiettivo per tutti i curdi e i musulmani dei dintorni. Così nel 2003, dopo le prime minacce, io e Latif abbiamo messo su una guardia civica disarmata per controllare il centro abitato». Due anni dopo, quel primo embrione di milizia non basta più. «Tutt'intorno, Al Qaeda e altri gruppi estremisti mettevano bombe e uccidevano i civili. Così abbiamo chiesto agli americani il permesso di organizzare una guardia civile con divise, armi, radio e posti di blocco. Ora anche il governo e l'esercito iracheno hanno riconosciuto ufficialmente il nostro ruolo».
Guardia civile. Oggi i 5mila abitanti cristiani di Karmalis possono contare su una vera milizia "crociata", forte di 243 uomini guidati da 10 ex ufficiali saddamisti. La presenza della "guardia civile" ha già risparmiato brutte sorprese. «I miei uomini sono tutti volontari. Vivono con i contributi tirati su grazie alle offerte in chiesa, ma hanno già fermato molti estremisti pronti ad attaccarci. Lavorano per difendere le proprie famiglie, per questo sono molto più efficienti di un vero esercito. Ma non serve sparare. Per eliminare la minaccia basta la loro presenza. A Mosul uccidono i cristiani perché la polizia non muove un dito. Qui non osano entrare. Sanno che non potrebbero mai farla franca».
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