Da guardare con l'audio fino alla fine...
mercoledì 24 novembre 2010
martedì 23 novembre 2010
Acqua bene comune
ULTIMA ORA: la Corte Costituzionale ha bocciato i ricorsi che alcune regioni (Marche, Liguria, Puglia, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Piemonte) avevano opposto al Decreto Ronchi. La privatizzazione dei servizi idrici andrà avanti a tappe forzate. A questo punto i tre referendum per l'acqua pubblica previsti per la prossima primavera sono l'unica strada per salvare questo bene comune dalla speculazione e dalle logiche di mercato. Il Comitato Promotore dei referendum ribadisce la necessità di approvare un immediato provvedimento di moratoria sugli affidamenti dei servizi idrici previsti dal Decreto Ronchi perché il voto referendario sia uno strumento di reale partecipazione democratica.
lunedì 22 novembre 2010
Una frase che mi è piaciuta molto...
"Think global, work local, start at home!"
Woodrow Clark, premio Nobel per la Pace 2007
Macerie di democrazia
A quasi 20 mesi dal sisma, gli aquilani tornano in piazza per chiamare l'Italia.
Chiedono aiuto e soccorso, ma soprattutto giustizia per chi in quel disastro ha responsabilità penali a cui cerca di sfuggire. A rispondergli soltanto altri "disastrati" come loro: i No Tav piemontesi, i siciliani Anti Ponte sullo Stretto, le mamme vulcaniche di Terzigno. Anche i parenti delle vittime di Viareggio. Il messaggio è forte: "non siete soli". Ma solo da una parte: le istituzioni latitano. La sospensione delle tasse sta per scadere, le New Town sono un sogno consumato e l'economia resta sepolta nell'indifferenza..
LucaL'Aquila sotto l'acqua di novembre sembra ancora più spettrale. Grigio cielo sopra, cemento scoperto sotto. In Piazza D'Armi un grosso bruco multicolore, millepiedi, ricoperto di ombrelli si muove pigramente sotto la pioggia. Si stendono striscioni portati da bambini: i flash scattano di continuo, è ancora il momento di riconoscersi e di salutarsi. Sulla rotonda, al centro della piazza, una grossa lavatrice di cartapesta sforna panni appesi agli alberi: "ora venite a mettervi nei nostri panni", recita uno striscione.
Alle due e mezza il corteo parte, la testa non si vede già più dietro la curva di via Corrado IV.
Ad aprire il corteo dovrebbero esserci i gonfaloni delle città del cratere, invece no. Ne mancano molte. Pierluigi Biondi, primo cittadino di Villa Sant'Angelo, aveva annunciato già giovedì la sua decisione di non aderire alla manifestazione: "Non sono contrario agli obiettivi della manifestazione, ma qui verranno persone estranee al nostro territorio a protestare contro il Governo, non per L'Aquila. Ci useranno come pretesto, ed io di intrupparmi in una cosa del genere non ci penso neanche". Lo seguono i sindaci di Sant'Eusanio Forconese, San Demetrio ne Vestini, Fossa, Ocre, Barisciano, Poggio Picenze, Fagnano Alto, Fontecchio, Tione e Acciano. Nemmeno Donato Circi accetta di esserci, rifiutando una manifestazione politica e non
istituzionale. Ma farsi da parte non riduce la portata dell'evento, anzi lascia spazio ad altri politici. A metà corteo passeggia placido e grave Enrico Letta, vice segretario Pd, a portare un testimone di interesse dal
centrosinistra. Aderisce anche l'Api di Rutelli e l'UdC di Casini, ma non si rintracciano rappresentanti diretti nel serpentone di manifestanti.
Intanto il corteo avanza su via XX settembre. All'altezza della Casa dello Studente, il passo rallenta, il silenzio è più pesante. Molti scattano foto, il senso turistico della tragedia si è infine diffuso per il Paese: ma si prosegue, negli occhi ancora le facce degli Angeli della Casa dello Studente e del Convitto Nazionale. In piazza del Duomo i manifestanti arrivano alle quattro e mezza. Il comitato organizzatore annuncia dal palco il numero: "siamo in 25mila". La questura ridurrà la cifra a tredicimila. Ma non ci si ferma. Mentre il popolo delle carriole entra nella piazza, centinaia di persone affollano il tendone per la raccolta firme della legge di iniziativa
popolare sulla ricostruzione. Son troppe, i residenti dell'Aquila vengono spostati ai prossimi giorni per consentire ai sostenitori venuti da fuori di lasciare il loro contributo. Dal palco vengono ribaditi e spiegati i punti essenziali della legge.
No ai commissari straordinari: la governance spetta ai sindaci e alle istituzioni locali, son loro che conoscono il territorio e possono tradurne le istanze in interventi concreti. Partecipazione dei cittadini alle scelte di ricostruzione, che non possono calare dall'alto e basta. Più occupazione e rilancio dell'economia, perché non è possibile che nel cantiere più grande d'Italia si contino 16mila disoccupati. E infine creare il presupposto
indispensabile per la prevenzione di grandi rischi in futuro: un fondo da finanziare tassando i redditi più elevati. Per prevenire alluvioni (come a Vicenza), terremoti, smottamenti, inondazioni. "L'italia non può essere, come ha detto Bertolaso, un paese sempre in emergenza. È una logica da superare, soprattutto se pretendono di risolvere le emergenze uccidendo la democrazia", scandisce il comitato promotore della legge dal palco.
Al microfono si alternano cittadini e rappresentanti dei comitati: i No Tav fanno il conto dei loro "morti a rilento", le vittime dell'inquinamento dell'aria nella zona più contaminata da amianto dopo Monferrato, patria dell'Eternit. Un universitario elenca i "miracoli aquilani", dal mancato allarme del sisma al progetto case in crisi ("pochi costruttori hanno potuto mettere le mani su terreni enormi, hanno costruito strutture minime a 3mila euro al metro quadrato, hanno scavalcato in nome dell'emergenza tutte le leggi urbanistiche e ambientali con guadagni dell'ordine del 3-400%"). I parenti delle vittime di Viareggio, uccise dall'esplosione di una cisterna di Gpl non a norma, chiedono di "bucare il velo del silenzio" e di "consegnare alla giustizia i responsabili: sulla nostra carne hanno guadagnato risparmiando sulle norme di sicurezza, ora devono pagare". E le mamme vulcaniche accusano i media: "dicono che la monnezza è colpa nostra, non è vero, il nostro territorio sta pagando la mala gestione delle risorse pubbliche e lo sfruttamento per gli interessi delle industrie del Nord".
Alle due e mezza il corteo parte, la testa non si vede già più dietro la curva di via Corrado IV.
Ad aprire il corteo dovrebbero esserci i gonfaloni delle città del cratere, invece no. Ne mancano molte. Pierluigi Biondi, primo cittadino di Villa Sant'Angelo, aveva annunciato già giovedì la sua decisione di non aderire alla manifestazione: "Non sono contrario agli obiettivi della manifestazione, ma qui verranno persone estranee al nostro territorio a protestare contro il Governo, non per L'Aquila. Ci useranno come pretesto, ed io di intrupparmi in una cosa del genere non ci penso neanche". Lo seguono i sindaci di Sant'Eusanio Forconese, San Demetrio ne Vestini, Fossa, Ocre, Barisciano, Poggio Picenze, Fagnano Alto, Fontecchio, Tione e Acciano. Nemmeno Donato Circi accetta di esserci, rifiutando una manifestazione politica e non
istituzionale. Ma farsi da parte non riduce la portata dell'evento, anzi lascia spazio ad altri politici. A metà corteo passeggia placido e grave Enrico Letta, vice segretario Pd, a portare un testimone di interesse dal
centrosinistra. Aderisce anche l'Api di Rutelli e l'UdC di Casini, ma non si rintracciano rappresentanti diretti nel serpentone di manifestanti.
Intanto il corteo avanza su via XX settembre. All'altezza della Casa dello Studente, il passo rallenta, il silenzio è più pesante. Molti scattano foto, il senso turistico della tragedia si è infine diffuso per il Paese: ma si prosegue, negli occhi ancora le facce degli Angeli della Casa dello Studente e del Convitto Nazionale. In piazza del Duomo i manifestanti arrivano alle quattro e mezza. Il comitato organizzatore annuncia dal palco il numero: "siamo in 25mila". La questura ridurrà la cifra a tredicimila. Ma non ci si ferma. Mentre il popolo delle carriole entra nella piazza, centinaia di persone affollano il tendone per la raccolta firme della legge di iniziativa
popolare sulla ricostruzione. Son troppe, i residenti dell'Aquila vengono spostati ai prossimi giorni per consentire ai sostenitori venuti da fuori di lasciare il loro contributo. Dal palco vengono ribaditi e spiegati i punti essenziali della legge.
No ai commissari straordinari: la governance spetta ai sindaci e alle istituzioni locali, son loro che conoscono il territorio e possono tradurne le istanze in interventi concreti. Partecipazione dei cittadini alle scelte di ricostruzione, che non possono calare dall'alto e basta. Più occupazione e rilancio dell'economia, perché non è possibile che nel cantiere più grande d'Italia si contino 16mila disoccupati. E infine creare il presupposto
indispensabile per la prevenzione di grandi rischi in futuro: un fondo da finanziare tassando i redditi più elevati. Per prevenire alluvioni (come a Vicenza), terremoti, smottamenti, inondazioni. "L'italia non può essere, come ha detto Bertolaso, un paese sempre in emergenza. È una logica da superare, soprattutto se pretendono di risolvere le emergenze uccidendo la democrazia", scandisce il comitato promotore della legge dal palco.
Al microfono si alternano cittadini e rappresentanti dei comitati: i No Tav fanno il conto dei loro "morti a rilento", le vittime dell'inquinamento dell'aria nella zona più contaminata da amianto dopo Monferrato, patria dell'Eternit. Un universitario elenca i "miracoli aquilani", dal mancato allarme del sisma al progetto case in crisi ("pochi costruttori hanno potuto mettere le mani su terreni enormi, hanno costruito strutture minime a 3mila euro al metro quadrato, hanno scavalcato in nome dell'emergenza tutte le leggi urbanistiche e ambientali con guadagni dell'ordine del 3-400%"). I parenti delle vittime di Viareggio, uccise dall'esplosione di una cisterna di Gpl non a norma, chiedono di "bucare il velo del silenzio" e di "consegnare alla giustizia i responsabili: sulla nostra carne hanno guadagnato risparmiando sulle norme di sicurezza, ora devono pagare". E le mamme vulcaniche accusano i media: "dicono che la monnezza è colpa nostra, non è vero, il nostro territorio sta pagando la mala gestione delle risorse pubbliche e lo sfruttamento per gli interessi delle industrie del Nord".
L'Aquila torna buia alle 8 di sera. Dopo che i pullman sono partiti per Roma, Firenze, Torino, Milano, Venezia e Napoli, solo tre lampioni restano accesi in via XX settembre. Un sabato sera di silenzio nella città delle macerie dimenticate.. [dirittodicronaca.com]
sabato 20 novembre 2010
Destra e Sinistra
Riporto di seguito gli elenchi di valori di sinistra e destra, così come enunciati da Pierluigi Bersani e Gianfranco Fini a "Vieni via con me", la trasmissione di Fazio e Saviano; anche perché a mio avviso si è fatto un gran parlare del contenitore, rischiando di non cogliere la bellezza del contenuto..
Luca
Valori della sinistra. Parla Pierluigi Bersani:
Elenco dei valori della destra. Parla Gianfranco Fini:
Luca
Valori della sinistra. Parla Pierluigi Bersani:
La sinistra è l’idea che se guardi il mondo con gli occhi dei più deboli, puoi fare davvero un mondo migliore per tutti.
Abbiamo la più bella costituzione del mondo, la si difende ogni giorno e il 25 aprile si fa festa.
Nessuno può star bene da solo: stai bene se anche gli altri stanno un po’ bene. Se pochi hanno troppo e troppi hanno poco, l’economia non gira, perché l’ingiustizia fa male all’economia.
Si vuole un mercato che funzioni, senza monopoli, corporazioni, posizioni di dominio, ma ci sono beni che non si possono affidare al mercato: la salute, l’istruzione, la sicurezza.
Il lavoro non è tutto, ma questo può dirlo solo chi un lavoro ce l’ha. Il lavoro è la dignità di una persona: sempre. E sopratutto quanto hai 30 anni e hai paura di passare la vita in panchina. Ma chiamare flessibilità una vita precaria è un insulto. E allora un’ora di lavoro precario non può costare meno di un’ora di lavoro stabile.
Chi non paga le tasse mette le mani nelle tasche di chi è più povero di lui. Se 100 euro di un operaio, di un pensionato, di un artigiano pagano di più dei 100 euro di uno speculatore, vuol dire che il mondo è capovolto.
Davanti ad un problema serio di salute non ci può essere né povero né ricco né calabrese, né lombardo, né marocchino: si fa con quel che si ha, ma si fa per tutti.
L’insegnante che insegue un ragazzo per tenerlo a scuola è l’eroe dei nostri tempi: indebolire la scuola pubblica vuol dire rubare il futuro ai più deboli.
La condizione alla donna è la misura della civiltà di un paese: calpestarne la dignità è l’umiliazione di un paese.
Dobbiamo lasciare il pianeta meglio di come l’abbiamo trovato perché non abbiamo il diritto di distruggere quello che non è nostro e l’energia va risparmiata e rinnovata sgombrando la testa da fanta-piani nucleari.
Il bambino figlio di immigrati che è nato oggi non è né immigrato né italiano. Dobbiamo dirgli chi è: lui è un italiano.
Se devo morire attaccano per mesi a 1000 mesi non può deciderlo il parlamento, perché un uomo resta un uomo con la sua dignità, anche nel momento della sofferenza e del distacco.
C’è un modo per difendere la fede di ciascuno, per garantire le convinzioni di ciascuno, per riconoscere la condizione di c iascuno. Questo modo, irrinunciabile, si chiama laicità.
Per guidare un’automobile – che è un fatto pubblico – ci vuole la patente – che è un fatto privato. Per governare – che è un fatto pubblico – bisogna essere persone per bene, che è un fatto privato.
Chi si ritiene di sinistra, chi si ritiene progressista deve tenere vivo il sogno di un mondo in pace senza ovvie violenze e deve combatterle contro la pena di morte, la tortura, ogni altra sopraffazione fisica o morale e ogni illegalità.
Essere progressisti significa combattere l’aggressività che ci abita dentro, quella del più forte sul più debole, dell’uomo sulla donna, di chi ha potere su chi non ne ha. E prendere la parte di chi ha meno forza e meno voce.
Qui finisce il mio tempo, ma non certo il mio elenco. Grazie.
Per la destra è bello, nonostante tutto, essere italiani. Perché è un piccolo privilegio, perché a Milano come a Palermo, la nostra patria ha un patrimonio paesaggistico e culturale che il mondo ci invidia. Anche per questo, anche nel 2010, essere di destra vuol dire innanzitutto amare l’Italia e aver fiducia negli italiani: nella loro capacità di sacrificarsi, di lavorare onestamente, di pensare senza egoismi al futuro dei propri figli, di essere solidali e generosi.
Perché per la destra sono innanzitutto generosi i militari che in Afghanistan ci difendono dal terrorismo, come lo sono le centinaia di migliaia di connazionali, donne e uomini, che ogni giorno – e gratis – fanno volontariato per aiutare gli anziani, gli ammalati, i più deboli.
E per la destra sono solidali e quindi meritevoli di apprezzamento le tante imprese e le tante famiglie che danno lavoro agli immigrati onesti i cui figli, domani, saranno anch’essi cittadini italiani, perché la patria – da qualche tempo non è più soltanto la Terra dei Padri.
Ma oggi, nel 2010, per crescere insieme, per essere davvero unito, per sentirsi una comunità nazionale, il nostro popolo non può contare solo sulla sua proverbiale, generosa laboriosità: gli italiani hanno bisogno di istituzioni politiche autorevoli, rispettate, giuste. Per questo destra vuol dire senso dello stato, etica pubblica, cultura dei doveri.
Per la destra lo stato deve essere efficiente, ma non invadente. Deve spendere bene il denaro pubblico, senza alimentare burocrazie e clientele.
Per la destra è lo stato – e solo lo stato – che deve garantire che la legge è davvero uguale per tutti, che deve combattere gli abusi, il malcostume, che deve valorizzare l’esempio degli italiani migliori.
Per questo, ad esempio, per la destra, si dovrebbe insegnare fin da scuola ai più giovani che due magistrati come Falcone e Borsellino sono davvero degli eroi, perché sarà grazie al sacrificio loro e di tanti umili servitori dello stato che un giorno la nostra Italia sarà più pulita, più libera, più bella. Perché sarà un’Italia più responsabile, più attenta al bene comune, più consapevole della necessità di garantire che chi sbaglia paga, prima o poi, e chi fa il proprio dovere viene premiato.
La destra sa che senza l’autorevolezza e il buon senso delle istituzioni, senza l’autorità della legge, senza una democrazia trasparente ed equilibrata nei suoi poteri, non c’è libertà, ma solo anarchia, prevalenza dell’arroganza e della furbizia, a tutto discapito dell’uguaglianza dei cittadini.
Per la destra l’uguaglianza dei cittadini deve essere garantita nel punto di partenza, al nord come al sud, per gli uomini come per le donne, per i figli degli imprenditori come per i figli degli impiegati e degli operai. Da questa vera uguaglianza, l’uguaglianza delle opportunità, la destra vuole costruire una società in cui il merito e le capacità siano i soli criteri per selezionare una classe dirigente.
La destra vuole un paese in cui chi lavora di più e meglio, viene pagato di più; un paese in cui chi studia va avanti; un paese in cui chi merita ottiene i maggiori riconoscimenti.
Insomma, la destra vuole un’Italia che ha fiducia nel futuro, perché – a ben vedere – ha fiducia in se stessa. E non la dobbiamo costruire dal nulla: questa Italia migliore c’è già. Dobbiamo soltanto far sentire la sua voce, la sua voce profonda. E anche questo è il compito della destra.
mercoledì 17 novembre 2010
Il tempo dell'acqua sta per scadere
ANTEFATTO: oltre un milione e quattrocentomila donne e uomini di questo Paese hanno firmato i tre quesiti referendari promossi dal Forum italiano dei Movimenti per l'acqua e appoggiati da una grandissima coalizione. Ma le scadenze imposte dall'art. 23 bis della Legge n. 133/2008 e successive modificazioni (31 dicembre 2010 in alcune situazioni e 31 dicembre 2011 per altre), e quelle previste dalla Legge 42/2010 sulla soppressione delle ATO, come organi di decisione da parte dei Comuni sui modelli di affidamento,
rischiano di far accelerare i processi di privatizzazione in corso e vanno di conseguenza posticipate a dopo il referendum. E' possibile informarsi sui siti dei comitati per l'acqua pubblica di ogni città, sulle iniziative pubbliche (la prossima, nazionale, il 4 dicembre) e firmare la petizione "il tempo dell'acqua sta per scadere" su:
http://www.acquabenecomune.org/
Luca
COMUNICATO STAMPA
Roma, 12 novembre 2011
Luca Faenzi
Ufficio Stampa Comitato Referendum Acqua Pubblica
ufficiostampa@acquabenecomune.org
+39 338 83 64 299
Skype: lucafaenzi
Via di S. Ambrogio n.4 - 00186 Roma
Tel. 06 6832638; Fax. 06 68136225 Lun.-Ven. 10:00-19:00
rischiano di far accelerare i processi di privatizzazione in corso e vanno di conseguenza posticipate a dopo il referendum. E' possibile informarsi sui siti dei comitati per l'acqua pubblica di ogni città, sulle iniziative pubbliche (la prossima, nazionale, il 4 dicembre) e firmare la petizione "il tempo dell'acqua sta per scadere" su:
http://www.acquabenecomune.org/
Luca
COMUNICATO STAMPA
Il Comitato Promotore dei Referendum sull'acqua chiede una moratoria immediata sulle scadenze della Legge Ronchi e si prepara alla mobilitazione nazionale del 4 dicembre
Moratoria subito, stop ai processi di privatizzazione e alla soppressione degli ATO in attesa dei referendum sull'acqua della prossima primavera. Questa la richiesta che Comitato Promotore dei Referendum ha avanzato oggi durante una conferenza stampa e che sarà al centro della giornata di mobilitazione del 4 dicembre, quando nelle città italiane saranno organizzate centinaia di iniziative di sensibilizzazione sull'acqua pubblica e sui referendum. "Mentre siamo in attesa di sapere quando si voterà per i 3 referendum - ha detto Simona Savini del Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua - assistiamo ad una accelerazione dei processi di privatizzazione, una moratoria che congeli le scadenze della Legge Ronchi è un atto di civiltà e di rispetto nei confronti del milione e 400mila cittadini che hanno sottoscritto i quesiti referendari. Indipendentemente da come i partiti la pensino sui referendum chiediamo il sostegno per un atto in difesa della democrazia".
Alessio Ciacci, Assessore all'ambiente del comune di Capannori, ha presentato la delibera predisposta dal coordinamento degli Enti Locali per l'Acqua Pubblica, che può essere adottata da comuni, province e comunità montane per aderire alla campagna di moratoria. Hanno poi preso la parola i rappresentanti dei comitati territoriali. Luciano D'Antonio (Toscana) ha evidenziato come il processo di privatizzazione stia marciando a tappe forzate, in Toscana come nel resto d'Italia; Evasio Ciocci (Marche) ha raccontato di come una mobilitazione territoriale forte sia riuscita a interrompere il processo di privatizzazione nella regione; Vincenzo Forte (Napoli) ha portato la testimonianza del Comitato Partenopeo che si è attivato per fare di Napoli la capitale italiana dell'acqua pubblica, a partire dal percorso legislativo avviato al Comune. Ha concluso Marica Di Pierri, per portare una testimonianza di quanto il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua sta facendo in vista del vertice mondiale sul clima di Cancun che prenderà il via il prossimo 20 novembre. La richiesta di Moratoria può essere sottoscritta sul sito
www.acquabenecomune.orgRoma, 12 novembre 2011
Luca Faenzi
Ufficio Stampa Comitato Referendum Acqua Pubblica
ufficiostampa@acquabenecomune.org
+39 338 83 64 299
Skype: lucafaenzi
Via di S. Ambrogio n.4 - 00186 Roma
Tel. 06 6832638; Fax. 06 68136225 Lun.-Ven. 10:00-19:00
lunedì 15 novembre 2010
finanziaria
Mi pare interessante divulgare questo articolo di Tito Boeri pubblicato alcuni giorni fa su lavoce.info
beppe
IL MAXIEMENDAMENTO ELETTORALE
di Tito Boeri
Rigore sì, sviluppo no. Questo, in sintesi, il giudizio sin qui prevalso tra molti commentatori sulla politica economica del Governo. Ma siamo davvero sicuri che si possa parlare di rigore? Il dubbio affiora guardando al maxiemendamento alla legge di stabilità e ai dati sulle entrate tributarie. Il maxiemendamento prevede maggiori spese per circa 5,8 miliardi, non poche di natura strutturale, finanziate in gran parte con entrate una tantum.
LE SPESE IN PIÙ
Partiamo dalle spese aggiuntive. I capitoli più importanti sono un allentamento al patto di stabilità dei Comuni che vale circa 500 milioni, trasferimenti alle Regioni per sanità, trasporti locali e politiche sociali per quasi un miliardo, un altro miliardo per l'università (800 milioni di finanziamento del FFO e 200 per concorsi di associati), 750 milioni per il rifinanziamento per sei mesi delle missioni internazionali, un miliardo e mezzo per gli ammortizzatori in deroga, 100 milioni di voucher per le imprese che finanziano la ricerca e una serie di altri interventi, tra cui spiccano i 245 milioni per le scuole private e rivoli di altri interventi del valore di 375 milioni che saranno gestiti direttamente dalla presidenza del Consiglio durante la campagna elettorale (sono previsti
stanziamenti fino a giugno). In non pochi casi si tratta di incrementi di spesa destinati a rimanere nel tempo. Pensiamo agli ammortizzatori sociali in deroga: sono soldi dati per finanziare riduzioni di orario in imprese che non pagano contributi a fronte delle prestazioni di cassa integrazione. È un rubinetto destinato a non chiudersi, dato che permette consistenti riduzioni del costo del lavoro per le imprese beneficiarie. Del resto le ore di cassa in deroga continuano ad aumentare nonostante si sia superata la fase più critica della crisi. Oppure le missioni internazionali: c'è un piano che ci fa ritenere che queste spese si interromperanno a giugno 2011? E ancora, come si fa ritenere una tantum i 200 milioni dati per i concorsi di associato nelle università?
MA COME VERRANNO FINANZIATE?
I finanziamenti sono invece rappresentati per lo più da entrate una tantum o aleatorie. Il piatto forte è rappresentato dai 2,4 miliardi che dovrebbero provenire dall'asta per le frequenze delle Tv digitali, chiaramente una fonte di entrate temporanea. Altre entrate dovrebbero venire dall'intensificazione delle misure contro l'evasione. Non si capisce come si potrebbero addirittura aumentare le entrate dalla lotta all'evasione quando mancano all'appello, come riconosciuto dalla stessa Decisione di finanza pubblica a pagina 29 e dalla stessa relazione del ministero sulle entrate tributarie, circa 3 miliardi di entrate preventivate. Mentre il Centro studi Confindustria, a pagina 37 del rapporto denuncia un forte incremento del lavoro sommerso, aumentato di più del 20 per cento in un anno.
CLIMA DA CAMPAGNA ELETTORALE
Ci sono poi poste che trasferiscono oneri sugli esercizi futuri, come l'allentamento dei vincoli al prepensionamento di lavoratori che esauriscono la cassa integrazione. Si continua anche a chiudere un occhio sulla pratica di trasformare i tagli alle università in maggiore spesa pensionistica. Gli atenei mandano i docenti in pensione e offrono loro contratti temporanei. I docenti interessati, che sono ancora nel sistema retributivo, ci guadagnano: tra pensione e contratto hanno redditi più alti di prima. Gli atenei riducono il costo del lavoro, dato che pagano solo il contratto e non più lo stipendio pieno. Chi paga è il contribuente che si ritrova alla fine a sborsare, tra contratto e pensione, più di prima. Basterebbe una norma per cancellare questa pratica.
Insomma ci sembra un maxiemendamento pre-elettorale. Che, senza sviluppo, toglie ulteriormente al rigore. E rischiamo di vederne di peggio con il "milleproroghe" di fine anno, nonostante i dati deludenti sulla crescita nel terzo trimestre ci dicano che le previsioni del Governo sulle entrate sono troppo ottimistiche: se il Pil quest'anno crescesse solo dello 0,9 per cento come acquisito sin qui, avremmo un altro miliardo e mezzo di entrate in meno. Ma le elezioni incombono.
venerdì 12 novembre 2010
B. visto da Abraham
Un famoso psichiatra e sessuologo esamina Berlusconi: nella sua brama erotica, dice, c'è l'ansia di un uomo scontento. E lo mette in guardia..
Luca
'Silvio, così ti autodistruggi'
di Enrico Arosio, L'Espresso
Di Berlusconi, questa la tesi, ce ne sono due: un "Silvio della notte" che determina l'agire del "Silvio diurno". Il Silvio intero fatica a concretizzarsi: è un leader di 74 anni più solo di quanto non si creda, che ha un problema "con se stesso e col piacere", e in cui l'attività erotica ha assunto un carattere drammatico. La tesi, severa, è di Giorgio Abraham, psichiatra e sessuologo che da anni insegna e pratica a Ginevra. Al professor Abraham, 83 anni, che ha avuto (come Berlusconi) cinque figli da due mogli, abbiamo chiesto di dare consiglio a Silvio come se fosse un fratello minore.
La prima cosa che gli direbbe?
"Silvio, sii prudente. Mi sembri uno che sta recuperando in età avanzata ciò che non ebbe da giovane. E ti devo dire che, da quel che leggo, il tuo profilo ricorda quello di un soggetto sex addicted".
Sex addiction, dipendenza da sesso?
"Il profilo è quello. Non è così raro. In tanti vanno in clinica a curarsi, anche se in genere sono più giovani. Sua moglie parla di un uomo che ha bisogno di aiuto. La Chiesa di un malato che non si controlla più, forse per salvarlo. Io non la metto sul piano morale, lo scandalo, la vergogna. Io direi: Silvio, tu hai un problema con te stesso. Hai un problema con il piacere. Guardati dentro: lo hai conosciuto o no il piacere vero, profondo, duraturo, legato alla persona?".
Come aiuterebbe un fratello in crisi?
"Gli direi: Silvio, raccontami i tuoi sogni".
Torniamo al Freud del 1900...
"No. Noi studiamo l'erotizzazione dei sogni con la scienza di oggi. E qui c'è un homo diurnus, il Silvio diurno, alle prese con la crisi di governo, Fini, Bossi, il danno all'immagine internazionale dell'Italia. E un homo nocturnus, il Silvio della notte, che solo la notte ha l'appuntamento vero con se stesso. Berlusconi è prigioniero dei suoi sogni; spesso noi eseguiamo di giorno ciò che i sogni ci hanno dettato. Ma nella sua brama erotica c'è l'ansia. C'è l'uomo scontento. A cui si somma il problema della malattia".
La questione si fa delicata.
"Mi attengo ai fatti. Oggi leggo i racconti dei festini, delle ragazze invitate in villa a gruppi. Ma io ricordo bene quando Berlusconi dichiarò che aveva avuto un tumore alla prostata. Quando disse: "Ho vinto il cancro, non solo i miei avversari". Quando annunciò, al San Raffaele: "Insieme vinceremo il cancro". E osservo che in un operato di prostata di 74 anni si possono escludere certe presunte performance sessuali. I problemi erettili sono frequenti. Anche ricorrendo all'ausilio farmacologico, restano inverosimili certi racconti tipo l'harem del sultano".
Domanda inevitabile: come ci è arrivato?
"La sua è la storia di un self made man di grande successo, prima negli affari, poi in politica. Ora in politica è in sofferenza. È un uomo logorato. È in ansia per l'eredità delle sue ricchezze. E allora il successo erotico passa avanti, diventa la meta numero uno. Ma sappiamo bene che, con il tempo, la sessualità diventa banale, meno stimolante. In certi casi si può fare ricorso a droghe o a forme di peversione soft. Il che comporta qualche rischio".
Diceva il Zarathustra di Nietzsche: "Ogni piacere vuole miele, vuole feccia, vuole mezzanotte ebbra". Ma qui il cercatore di piacere è un Senex che rifiuta la senescenza.
"Nella tradizione conosciamo seduttori compulsivi di varia statura, ma per Don Giovanni la preda più ambita era quella di un certo valore. Prima della conquista c'era la lotta, e solo alla fine la vittoria della penetrazione. Se Silvio fosse mio fratello gli direi: tu vai con la ragazza giovane, ma sei certo che lei desideri te? O desidera la vicinanza al potere? Non le dai l'assegno in mano, magari, ma la paghi indirettamente: è una forma lussuosa di prostituzione. Come può un uomo del tuo successo
credere a un'attrazione così fasulla?".
credere a un'attrazione così fasulla?".
Gli dia un consiglio da sessuologo.
"Cerchi una donna interessante sui 45 anni. È molto più ragionevole".
Berlusconi è una personalità trasgressiva?
"L'anziano è sempre trasgressivo. Io stesso pratico ancora il karate. Non è quello...
giovedì 11 novembre 2010
AlReves: El Salvador
“Hasta el tope”
Novembre
1989, l’offensiva finale del FMLN: quando la guerra scese dalle montagne alle
città
L’11
novembre di ventuno anni fa il Frente Farabundo Martì para la Liberacion Nacional
(FMLN), l’organizzazione guerrigliera salvadoregna, dava il via ad una vasta
azione militare diretta all’occupazione delle aree urbane di San Salvador e dei
maggiori centri abitati del Paese. Cominciava così l’offensiva finale, battezzata
in seguito come “Hasta el tope”, uno degli ultimi e tragici atti della
sanguinosa guerra civile (1980-1992) che avrebbe portato, da lì a tre anni, le
due parti in lotta a negoziare una pace definitiva.
L’anniversario
dell’Offensiva finale è stato celebrato
in tutto El Salvador con il ricordo delle migliaia di vittime civili e di caduti
su ambo i fronti, pur rappresentando un evento significativo e cruciale soprattutto
per il FMLN, da poco convertito in partito di governo dopo aver
sorprendentemente vinto le elezioni presidenziali del 2009.
Nel
1989, attraverso l’offensiva “Hasta el tope”, lo stato maggiore del FMLN decise
di intensificare gli attacchi all’esercito salvadoregno con lo scopo ultimo di
costringere il governo a sedersi, in via definitiva, al tavolo del dialogo. A
quel punto, in verità, dopo quasi dieci anni di lotta senza quartiere e di logoramento,
la guerra era giunta ad un punto di stallo e tutti e due i contendenti
cominciarono a rendersi conto dell’impossibilità di prevalere sull’avversario.
In
una congiuntura internazionale piuttosto sfavorevole alle forze rivoluzionarie
di sinistra - che stavano lottando in tutta l’America latina per le riforme
sociali -, conseguenza del crollo imminente del blocco socialista in Europa e
delle preoccupazioni per una possibile sconfitta elettorale dei sandinisti in
Nicaragua, i capi del FMLN presero - alla fine - la fatale decisione. Fu diramato
l’ordine a tutte le unità ribelli di prendere posizione per l’Offensiva finale.
Joaquin
Villalobos, l’allora comandante dell’ERP (una formazione guerrigliera
integrante il FMLN), spiegò in seguito quale fosse il reale intento politico e
propagandistico di quell’attacco: “l’obiettivo che cercavamo era quello di
penetrare nelle città e di fortificarci nei quartieri popolari così, quando
l’esercito fosse intervenuto, non sarebbe riuscito facilmente a snidarci”.
Queste azioni eclatanti e mai tentate prima di allora nei centri urbani
“avrebbero suscitato un tale impatto sulla CNN, sui media e sull’opinione
pubblica internazionale da provocare - così credevamo - un intervento immediato
dell’ONU. Tutto ciò avrebbe presto favorito una negoziazione per mettere fine
al conflitto armato”.
L’Offensiva
finale cominciò con l’impiego di quasi 3.000 miliziani del FMLN. Nella capitale
San Salvador i guerriglieri, appena scesi dalle montagne, venivano ospitati e
nascosti dalla popolazione in centinaia di abitazioni, mentre gli attacchi
andavano estendendosi rapidamente anche nelle città di Santa Ana, Zacatecoluca,
San Miguel e Chalatenango.
L’esercito
salvadoregno, preso in contropiede, decretò in tutto il paese lo stato
d’assedio e reagì ovunque con veemenza, arrivando ad impiegare l’aviazione per
bombardare i settori urbani in mano ai guerriglieri. Ma l’escalation della barbarie fu raggiunto la mattina del 16 novembre,
quando un commando del famigerato
battaglione “Atlacatl” - un reparto speciale dell’esercito già noto per essersi
macchiato di numerosi crimini di guerra - fece irruzione nei locali dell’UCA
(Università Centroamericana José Canas) trucidando i sei rettori gesuiti,
accusati di attività sovversive ed ormai “bollati” come nemici dello Stato.
Intanto,
anche nel resto della capitale gli scontri si andavano intensificando senza neppure
risparmiare la zona nordovest di San Salvador, il simbolo del potere economico
dell’epoca con i suoi quartieri più ricchi: San Benito, Campestre, Lomas Verdes
ed Escalon. A seguire, il 19 novembre, con un blitz da manuale militare un gruppo di guerriglieri si impadronì
della torre “Vip” dell’Hotel Sheraton, prendendo in ostaggio per diverse ore il
segretario dell’OSA, Baena Soares, insieme ad alcuni marines e giornalisti statunitensi, tutti quanti rilasciati il
giorno stesso grazie ad una tregua pattuita.
Alla
fine dell’offensiva, quando la guerriglia cominciò a ritirarsi dalle città per
ritornare ai più sicuri rifugi sui monti, dopo un mese di feroci combattimenti
sul terreno rimasero quasi 5.000 morti (tra soldati, guerriglieri e civili),
senza che nessuna delle due parti potesse prendere il sopravvento sull’altra. Fu
una vittoria strategica per il Frente, un successo tattico dell’esercito, o
piuttosto un’inutile carneficina?
Nel
Salvador odierno, 21 anni dopo, le parti si sono invertite. Ora a governare il piccolo
paese centroamericano è il FMLN, pur tra fragili equilibri interni e con le
destre ridotte all’opposizione ma sempre pronte a complottare per rovesciare il
governo farabundista. Solo qualche
mese fa sono circolati rumors di un
possibile - ed imminente - colpo di stato, sullo stile di quello attuato in Honduras
(2008) dall’oligarchia locale con la consueta complicità degli Stati Uniti.
giovedì 4 novembre 2010
B. visto da Severgnini
Trovo illuminante come Beppe Severgnini abbia descritto questo periodo storico in italia e gli faccio pubblicità volentieri.
Nonostante questa situazione, comunque, non mi arrendo e continuerò a combattere questo decadimento (pensate, se ne è accorto anche Bossi, non certo un fine interprete della nostra realtà), di cui purtroppo molti cattolici sonno correi per aver accettato compromessi su poche cose (ad es. scuola privata, legge sulla fecondazione assistita, ici sulle parrocchie), che sono un hic et nunc che non rende merito alla grande tradizione di idee, etica, speranza della tradizione cattolica. Un pallido disagio si sta affermando, ma è ancora insufficiente.
beppe
Il libro di Severgnini si preannuncia interessante, anche se a mio parere l'autore ha la tendenza a dare troppo importanza alla componente mediatica nel successo berlusconiano (la richiama praticamente in tutti i punti...).
Hai ragione Beppe quando dici che siamo in una fase di decadimento e quel che é peggio é che non se ne vede la via d'uscita. Il fattore più emblematico della situazione italiana é senza dubbio il punto 9 della lista di Sevegnini: "There Is No Alternative". Ad una sinistra che non resiste al potere più di qualche mese (passando peraltro il tempo a litigare) e che quando si parlava di elezioni a settembre é andata nel panico e non sapeva più cosa fare (Bersani inesistente, Veltroni che progettava scissioni e cosi via) si preferisce Berlusconi sperando che, tra una legge ad-personam ed uno scandalo sessuale, faccia passare anche qualche legge utile per il paese. Questo é il vero problema della politica italiana: di fronte ad un governo poco credibile si trova un'opposizione ancora meno credibile... Speriamo la situazione migliori e salti fuori qualcuno che sappia incarnare davvero quella "grande tradizione di idee, etica, speranza della tradizione cattolica" di cui parli.
LoLa pancia degli italiani – Berlusconi spiegato ai posteri
Fonte: Corriere Della Sera"La pancia degli italiani – Berlusconi spiegato ai posteri"- pubblicato da Rizzoli - è l'ultimo libro del giornalista e scrittore Beppe Severgnini.
Perché la maggioranza degli italiani ha appoggiato e/o sopportato Silvio Berlusconi per tanti anni? Non ne vede gli appetiti, i limiti e i metodi?
"Spiegare Silvio Berlusconi agli italiani è una perdita di tempo. Ciascuno di noi ha un'idea, raffinata in anni di indulgenza o idiosincrasia, e non la cambierà. Ogni italiano si ritiene depositario dell'interpretazione autentica: discuterla è inutile. Utile è invece provare a spiegare il personaggio ai posteri e, perché no?, agli stranieri. I primi non ci sono ancora, ma si chiederanno cos'è successo in Italia. I secondi non capiscono, e vorrebbero. Qualcosa del genere, infatti, potrebbe accadere anche a loro.[...] Se B. ha dominato la vita pubblica italiana per quasi vent'anni, c'è un motivo. Anzi, ce ne sono dieci."Proprio così, l'autore ha diviso il libro in ben 10 fattori per spiegare Berlusconi.
1. Fattore umano
Cosa pensa la maggioranza degli italiani? «Ci somiglia, è uno di noi». E chi non lo pensa, lo teme. B. vuole bene ai figli, parla della mamma, capisce di calcio, sa fare i soldi, ama le case nuove, detesta le regole, racconta le barzellette, dice le parolacce, adora le donne, le feste e la buona compagnia. È un uomo dalla memoria lunga capace di amnesie tattiche. È arrivato lontano alternando autostrade e scorciatoie. È un anticonformista consapevole dell'importanza del conformismo. Loda la Chiesa al mattino, i valori della famiglia al pomeriggio e la sera si porta a casa le ragazze. L'uomo è spettacolare, e riesce a farsi perdonare molto. Tanti italiani non si curano dei conflitti d'interesse (chi non ne ha?), dei guai giudiziari (meglio gli imputati dei magistrati), delle battute inopportune (è così spontaneo!). Promesse mancate, mezze verità, confusione tra ruolo pubblico e faccende private? C'è chi s'arrabbia e chi fa finta di niente. I secondi, apparentemente, sono più dei primi.
2. Fattore divino
B. ha capito che molti italiani applaudono la Chiesa per sentirsi meno colpevoli quando non vanno in chiesa, ignorano regolarmente sette comandamenti su dieci. La coerenza tra dichiarazioni e comportamenti non è una qualità che pretendiamo dai nostri leader. L'indignazione privata davanti all'incoerenza pubblica è il movente del voto in molte democrazie. Non in Italia. B. ha capito con chi ha a che fare: una nazione che, per evitare delusioni, non si fa illusioni. In Vaticano – non nelle parrocchie – si accontentano di una legislazione favorevole, e non si preoccupano dei cattivi esempi. Movimenti di ispirazione religiosa come Comunione e Liberazione preferiscono concentrarsi sui fini – futuri, quindi mutevoli e opinabili – invece che sui metodi utilizzati da amici e alleati. Per B. quest'impostazione escatologica è musica. Significa spostare il discorso dai comportamenti alle intenzioni.
3. Fattore Robinson
Ogni italiano si sente solo contro il mondo. Be', se non proprio contro il mondo, contro i vicini di casa. La sopravvivenza – personale, familiare, sociale, economica – è motivo di orgoglio e prova d'ingegno. Molto è stato scritto sull'individualismo nazionale, le sue risorse, i suoi limiti e le sue conseguenze. B. è partito da qui: prima ha costruito la sua fortuna, accreditandosi come un uomo che s'è fatto da sé; poi ha costruito sulla sfiducia verso ciò che è condiviso, sull'insofferenza verso le regole, sulla soddisfazione intima nel trovare una soluzione privata a un problema pubblico. In Italia non si chiede – insieme e con forza – un nuovo sistema fiscale, più giusto e più equo. Si aggira quello esistente. Ognuno di noi si sente un Robinson Crusoe, naufrago in una penisola affollata.
4. Fattore Truman
Quanti quotidiani si vendono ogni giorno in Italia, se escludiamo quelli sportivi? Cinque milioni. Quanti italiani entrano regolarmente in libreria? Cinque milioni. Quanti sono i visitatori dei siti d'informazione? Cinque milioni. Quanti seguono Sky Tg24 e Tg La7? Cinque milioni. Quanti guardano i programmi televisivi d'approfondimento in seconda serata? Cinque milioni, di ogni opinione politica. Il sospetto è che siano sempre gli stessi. Chiamiamolo Five Million Club. È importante? Certo, ma non decide le elezioni. La televisione – tutta, non solo i notiziari – resta fondamentale per i personaggi che crea, per i messaggi che lancia, per le suggestioni che lascia, per le cose che dice e soprattutto per quelle che tace. E chi possiede la Tv privata e controlla la Tv pubblica, in Italia? Come nel Truman Show, il capolavoro di Peter Weir, qualcuno ci ha aiutato a pensare.
5. Fattore Hoover
La Hoover, fondata nel 1908 a New Berlin, oggi Canton, Ohio (Usa), è la marca d'aspirapolveri per antonomasia, al punto da essere diventata un nome comune: in inglese, «passare l'aspirapolvere» si dice to hoover. I suoi rappresentanti (door-to-door salesmen) erano leggendari: tenaci, esperti, abili psicologi, collocatori implacabili della propria merce. B. possiede una capacità di seduzione commerciale che ha ereditato dalle precedenti professioni – edilizia, pubblicità, televisione – e ha applicato alla politica. La consapevolezza che il messaggio dev'essere semplice, gradevole e rassicurante. La convinzione che la ripetitività paga. La certezza che l'aspetto esteriore, in un Paese ossessionato dall'estetica, resta fondamentale (tra una bella figura e un buon comportamento, in Italia non c'è partita).
6. Fattore Zelig
Immedesimarsi negli interlocutori: una qualità necessaria a ogni politico. La capacità di trasformarsi in loro è più rara. Il desiderio di essere gradito ha insegnato a B. tecniche degne di Zelig, camaleontico protagonista del film di Woody Allen. Padre di famiglia coi figli (e le due mogli, finché è durata). Donnaiolo con le donne. Giovane tra i giovani. Saggio con gli anziani. Nottambulo tra i nottambuli. Lavoratore tra gli operai. Imprenditore tra gli imprenditori. Tifoso tra i tifosi. Milanista tra i milanisti. Milanese con i milanesi. Lombardo tra i lombardi. Italiano tra i meridionali. Napoletano tra i napoletani (con musica). Andasse a una partita di basket, potrebbe uscirne più alto.
7. Fattore harem
L'ossessione femminile, ben nota in azienda e poi nel mondo politico romano, è diventata di pubblico dominio nel 2009, dopo l'apparizione al compleanno della diciottenne Noemi Letizia e le testimonianze sulle feste a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli. B. dapprima ha negato, poi ha abbozzato («Sono fedele? Frequentemente»), alla fine ha accettato la reputazione («Non sono un santo»). Le rivelazioni non l'hanno danneggiato: ha perso la moglie, ma non i voti. Molti italiani preferiscono l'autoindulgenza all'autodisciplina; e non negano che lui, in fondo, fa ciò che loro sognano. Non c'è solo l'aspetto erotico: la gioventù è contagiosa, lo sapevano anche nell'antica Grecia (dove veline e velini, però, ne approfittavano per imparare). Un collaboratore sessantenne, fedele della prima ora, descrive l'insofferenza di B. durante le lunghe riunioni: «È chiaro: teme che gli attacchiamo la vecchiaia».
8. Fattore Medici
La Signoria – insieme al Comune – è l'unica creazione politica originale degli italiani. Tutte le altre – dal feudalesimo alla monarchia, dal totalitarismo al federalismo fino alla democrazia parlamentare – sono importate (dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Germania, dalla Spagna o dagli Stati Uniti). In Italia mostrano sempre qualcosa di artificiale: dalla goffaggine del fascismo alla rassegnazione del Parlamento attuale. La Signoria risveglia, invece, automatismi antichi. L'atteggiamento di tanti italiani di oggi verso B. ricorda quello degli italiani di ieri verso il Signore: sappiamo che pensa alla sua gloria, alla sua famiglia e ai suoi interessi; speriamo pensi un po' anche a noi. «Dall'essere costretti a condurre vita tanto difficile», scriveva Giuseppe Prezzolini, «i Signori impararono a essere profondi osservatori degli uomini». Si dice che Cosimo de' Medici, fondatore della dinastia fiorentina, fosse circospetto e riuscisse a leggere il carattere di uno sconosciuto con uno sguardo. Anche B. è considerato un formidabile studioso degli uomini. Ai quali chiede di ammirarlo e non criticarlo; adularlo e non tradirlo; amarlo e non giudicarlo.
9. Fattore T.I.N.A.
T.I.N.A., There Is No Alternative. L'acronimo, coniato da Margaret Thatcher, spiega la condizione di molti elettori. L'alternativa di centrosinistra s'è rivelata poco appetitosa: coalizioni rissose, proposte vaghe, comportamenti ipocriti. L'ascendenza comunista del Partito democratico è indiscutibile, e B. non manca di farla presente. Il doppio, sospetto e simmetrico fallimento di Romano Prodi – eletto nel 1996 e 2006, silurato nel 1998 e 2008 – ha un suo garbo estetico, ma si è rivelato un'eredità pesante. Gli italiani sono realisti. Prima di scegliere ciò che ritengono giusto, prendono quello che sembra utile. Alcune iniziative di B. piacciono (o almeno dispiacciono meno dell'alternativa): abolizione dell'Ici sulla prima casa, contrasto all'immigrazione clandestina, lotta alla criminalità organizzata, riforma del codice della strada. Se queste iniziative si dimostrano un successo, molti media provvedono a ricordarlo. Se si rivelano un fallimento, c'è chi s'incarica di farlo dimenticare. Non solo: il centrodestra unito rassicura, almeno quanto il centrosinistra diviso irrita. Se l'unico modo per tenere insieme un'alleanza politica è possederla, B. ne ha presto calcolato il costo (economico, politico, nervoso). Senza conoscerlo, ha seguito il consiglio del presidente Lyndon B. Johnson il quale, parlando del direttore dell'Fbi J. Edgar Hoover, sbottò: «It's probably better to have him inside the tent pissing out, than outside the tent pissing in», probabilmente è meglio averlo dentro la tenda che piscia fuori, piuttosto di averlo fuori che piscia dentro. Così si spiega l'espulsione e il disprezzo verso Gianfranco Fini, cofondatore del Popolo della libertà. Nel 2010, dopo sedici anni, l'alleato ha osato uscire dalla tenda: e non è ben chiaro quali intenzioni abbia.
10. Fattore Palio
Conoscete il Palio di Siena? Vincerlo, per una contrada, è una gioia immensa. Ma esiste una gioia altrettanto grande: assistere alla sconfitta della contrada rivale. Funzionano così molte cose, in Italia: dalla geografia all'industria, dalla cultura all'amministrazione, dalle professioni allo sport (i tifosi della Lazio felici di perdere con l'Inter pur di evitare lo scudetto alla Roma). La politica non poteva fare eccezione: il tribalismo non è una tattica, è un istinto. Pur di tener fuori la sinistra, giudicata inaffidabile, molti italiani avrebbero votato il demonio. E B. sa essere diabolico. Ma il diavolo, diciamolo, ha un altro stile.
mercoledì 3 novembre 2010
Cristiani a Baghdad
Ciao a tutti,
in tempi in cui sui giornali italiani (ed europei...) si parla solo di prostitute e festini di Berlusconi una tragedia come quella avvenuta a Baghdad, dove si é verificato il più importante attentato ai danni dei Cristiani dalla caduta di Saddam, rischia di passare rapidamente in secondo piano ed essere dimenticata.
Per avere un'idea della situazione vi mando questo reportage uscito poche settimane prima dell'attentato che evidenzia le condiziani di tragica precarietà in cui vivono i Cristani in Iraq e che, letto pochi giorni dopo l'attentato, mi ha fatto venire la pelle d'oca.
Lo
Tracce N.9, Ottobre 2010
CRISTIANI IN IRAQ
Noi, i martiri di Mosul
di Monica Maggioni e Gian Micalessin
Le bombe alle chiese. Il verduraio freddato in pieno giorno. Centinaia di famiglie in fuga... Reportage dall'Iraq, dove i cristiani sono perseguitati nell'indifferenza di tutti. Ma dove c'è chi ha scelto di continuare a vivere la fede
Bassam incomincia a parlare, si blocca, fa un cenno alla moglie, indicando i due bimbi. Lei ne piglia uno in braccio, l'altro se lo tira dietro per mano, e scompare nel chiostro del santuario. Bassam ricomincia. «Non voglio che sentano, non voglio farli crescere nella paura, non voglio che diventino come noi». Non ha fatto niente di male Bassam. A parte nascere cristiano. A parte vedere.
«Se non avessi visto con questi occhi, sarei ancora a casa mia. Ma ho visto e so... A Mosul non posso più vivere». Si fa il segno della croce. Sbircia i figli nel chiostro, i loro giochi lontani. «È successo a febbraio, davanti all'università, davanti alla bancarella di verdure di un cristiano. Era un brav'uomo, non dava fastidio a nessuno. All'improvviso arrivano quei due. Lo chiamano, gli chiedono i documenti. Lui ha paura, balbetta, alza le mani, allunga la carta d'identità. Allora penso: son poliziotti. Gliela restituiscono, tirano fuori una pistola, gli sparano in mezzo agli occhi. Hanno letto cristiano sul documento e hanno premuto il grilletto. Nessuno ha detto niente, nessuno ha mosso un dito. Neppure io. E chi aveva il coraggio? Siamo rimasti immobili, terrorizzati. Mentre quel poveretto agonizzava. Mentre gli assassini scappavano».
Bassam si aggiusta gli occhiali, ti mostra la cella del santuario. Letti e materassi uno sopra l'altro. Il respiro sommesso di una poppante avvinghiata al seno della madre, l'odore di cibo, di pignatte incrostate su un fornelletto arrugginito. L'unico per una stanza da dodici. La cella di un monastero diventato campo profughi. «Guarda come siamo messi... A Mosul vendevo condizionatori, non avevo problemi. Ma da quel giorno Mosul è paura, ansia, terrore. Meglio la miseria, meglio una vita da profughi, meglio perder tutto che rischiar la vita di mia moglie e dei miei figli».
Ai piedi dei monti. Bassam è uno dei tanti cristiani in fuga da Mosul. Vive da mesi tra le mura di pietra del monastero di Notre Dame, nel villaggio di Al Qosh. Da Mosul sono trenta chilometri, o poco più, ma questa strada alle porte del Kurdistan e alle pendici dei monti Bayhidhra, è uno dei sentieri dell'esodo cristiano. Da qui passa una delle vie di fuga di una comunità piegata, umiliata, perseguitata. Una comunità nata ai primordi del cristianesimo, ai piedi di queste montagne, in quella piana di Ninive dove l'apostolo san Tommaso piantò la croce. Da allora, Mosul è la sede del Patriarcato caldeo. Duemila anni dopo, la tradizione antica rischia di venir sradicata. Il primo a spiegartelo da Baghdad è monsignor Shlemon Warduni, il Patriarca vicario caldeo, testimone dalla sua chiesa - nel cuore della capitale - dall'inizio della persecuzione cristiana. «Negli anni Novanta, eravamo più di un milione ed eravamo felici e rispettati. Nel 2003, dopo l'invasione americana, incominciano l'odio, gli attacchi, i rapimenti, i tentativi di cacciarci, la fuga di 250mila persone. Nel quartiere di Doha, c'era una delle più importanti comunità caldee... Oggi non c'è più nessuno, li hanno espulsi a suon di sparatorie, rapimenti e assassinii. Poi sono iniziati gli attacchi alle chiese e la grande fuga da Baghdad. Molti speravano di trovar pace a Mosul o nella piana di Ninive, nelle terre dove abbiamo vissuto per millenni, ma si sbagliavano».
A fartelo capire ci pensa padre Mazen Matoka, un prete di Mosul, parroco di Qaraqosh, a 15 chilometri dal capoluogo. «Qui il terrore è arrivato nel 2008. È incominciato con le bombe... Colpivano le chiese, le case, le scuole private. Settimana dopo settimana, abbiamo visto fuggire 700 famiglie. Adesso, qui a Mosul ne restano, sì e no, un migliaio». La famiglia di padre Mazen non è più tra quelle. Succede un pomeriggio dello scorso febbraio. Il parroco va a dir messa a Qaraqosh: ad attenderlo a Mosul restano la mamma, le due sorelle, papà Jeshu e i fratelli Mukhlas e Bassem. Mentre lui dice messa, arrivano i sicari. «Tirano fuori le pistole, chiedono i documenti, spingono in una stanza la mamma e le sorelle. Mamma offre dei soldi, ma loro rifiutano. Lei scappa sul balcone, urla, chiede aiuto, ma non arriva nessuno. Dopo un po', nell'altra stanza, incominciano a sparare. Mia madre corre dentro. Uno dei tre assassini trema, non riesce a premere il grilletto, ma gli altri non esitano... Ammazzano prima papà, poi Mukhlas e Bassem. Così - sospira il parroco - hanno distrutto la mia famiglia. Cosi uccidono i cristiani a Mosul». L'aspetto più inquietante di quella strage è l'indifferenza. «Da quando entrano in casa nostra a quando fuggono passa più di un'ora, i vicini sentono le urla, chiamano soldati e polizia. Eppure non arriva nessuno. Ancora oggi - ripete il parroco - nessuno mi sa spiegare il perché».
L'idea di un complotto, di una cospirazione messa in piedi per far fuggire i cristiani e impossessarsi delle loro terre, è quanto mai diffusa. Il centro petrolifero di Mosul è - assieme a quello più importante di Kirkuk - una delle due grandi città contese del Nord dell'Iraq, una città dove i curdi cercano l'egemonia ai danni delle tribù arabe sunnite. Secondo Gabriel Toma, quarant'anni, parroco caldeo del monastero di Al Qosh, quella lotta alimenta anche la persecuzione dei cristiani. «I gruppi fondamentalisti che uccidono o rapiscono i nostri fedeli sono solo il sintomo, la manifestazione del male. Ma bisogna chiedersi a chi giova uccidere i cristiani, a chi fa comodo cambiare la composizione territoriale della zona». Secondo questa interpretazione, le fazioni curde fingono di proteggere i cristiani, ma in realtà non muovono un dito. Dietro quest'atteggiamento ambiguo ci sarebbe il rancore per l'appoggio fornito dalla comunità cristiana al regime di Saddam, il ricordo del ruolo giocato all'interno del regime dal caldeo Tareq Aziz. Atheel al-Nujaifi, il governatore sunnita della provincia di Ninive, accusa esplicitamente i capi miliziani curdi e li indica come i veri istigatori delle violenze. «Far uccidere un cristiano è il mezzo migliore per diffondere paura e instabilità... Qui chi si oppone ai piani curdi viene perseguitato, minacciato, arrestato e spesso liquidato», accusa Nujaifi. E Bassem Bello, sindaco cristiano del villaggio di Tel Kaif, rilancia. «Ad ogni attacco, altre famiglie fuggono all'estero. Il piano è semplice, vogliono sloggiare i cristiani originari di queste zone per mettere le mani sulle nostre terre».
Armi alla porta. Qualcuno però ha deciso di continuare a pregar Cristo. Anche a costo di farlo con la spada al fianco. O il kalashnikov. Per capirlo, basta puntare verso il santuario di Santa Barbara, nel villaggio cristiano di Karamlis. Lì, sulla strada per Mosul, un gruppo di uomini armati blocca il traffico, ispeziona le auto, controlla documenti e passeggeri. Più in là, un altro gruppetto è pronto a dare man forte. Tra gli archi e le sacrestie del sacrario, uno stuolo di parroci e prelati saluta il vescovo di Mosul, monsignor Amel Nuna. Ci viene incontro con un sorriso. E tante scuse. «Mi dispiace per le armi alla porta, ma dovete capire». Per capirlo basta conoscere la storia di Paulos Farai Rakha, il suo predecessore ritrovato cadavere - due anni fa - dopo esser stato rapito da un gruppo fondamentalista. «Qui se porti questa al collo rischi di non tornare vivo», spiega, accarezzando la croce dorata: «Per questo, in alcune zone i nostri fedeli devono difendersi da soli».
Il quartier generale dei miliziani di Karamlis è di fronte alla chiesa di Sant'Adday nel centro del villaggio. Un "colonnello" e un "capitano", circondati da un gruppo di fedelissimi con kalashnikov e ricetrasmittente, fanno la guardia all'ex ufficio postale trasformato in posto di comando. Da lì, organizzano la difesa di 5mila cristiani sotto scacco. Dietro i gradi militari - ricordo di una carriera nei ranghi di Saddam - ci sono Shaker Banjamin e Latif Issa, due ex ufficiali di 48 anni, che si sono ritrovati, dopo la caduta del dittatore, senza un lavoro e una paga. «Fino al 2003, noi e gli altri cristiani di questo villaggio eravamo gente felice - racconta il "colonnello" Shaker -, poi all'improvviso è cambiato tutto: io e Latif ci siamo ritrovati in strada, mentre il villaggio è diventato un obbiettivo per tutti i curdi e i musulmani dei dintorni. Così nel 2003, dopo le prime minacce, io e Latif abbiamo messo su una guardia civica disarmata per controllare il centro abitato». Due anni dopo, quel primo embrione di milizia non basta più. «Tutt'intorno, Al Qaeda e altri gruppi estremisti mettevano bombe e uccidevano i civili. Così abbiamo chiesto agli americani il permesso di organizzare una guardia civile con divise, armi, radio e posti di blocco. Ora anche il governo e l'esercito iracheno hanno riconosciuto ufficialmente il nostro ruolo».
Guardia civile. Oggi i 5mila abitanti cristiani di Karmalis possono contare su una vera milizia "crociata", forte di 243 uomini guidati da 10 ex ufficiali saddamisti. La presenza della "guardia civile" ha già risparmiato brutte sorprese. «I miei uomini sono tutti volontari. Vivono con i contributi tirati su grazie alle offerte in chiesa, ma hanno già fermato molti estremisti pronti ad attaccarci. Lavorano per difendere le proprie famiglie, per questo sono molto più efficienti di un vero esercito. Ma non serve sparare. Per eliminare la minaccia basta la loro presenza. A Mosul uccidono i cristiani perché la polizia non muove un dito. Qui non osano entrare. Sanno che non potrebbero mai farla franca».
«Se non avessi visto con questi occhi, sarei ancora a casa mia. Ma ho visto e so... A Mosul non posso più vivere». Si fa il segno della croce. Sbircia i figli nel chiostro, i loro giochi lontani. «È successo a febbraio, davanti all'università, davanti alla bancarella di verdure di un cristiano. Era un brav'uomo, non dava fastidio a nessuno. All'improvviso arrivano quei due. Lo chiamano, gli chiedono i documenti. Lui ha paura, balbetta, alza le mani, allunga la carta d'identità. Allora penso: son poliziotti. Gliela restituiscono, tirano fuori una pistola, gli sparano in mezzo agli occhi. Hanno letto cristiano sul documento e hanno premuto il grilletto. Nessuno ha detto niente, nessuno ha mosso un dito. Neppure io. E chi aveva il coraggio? Siamo rimasti immobili, terrorizzati. Mentre quel poveretto agonizzava. Mentre gli assassini scappavano».
Bassam si aggiusta gli occhiali, ti mostra la cella del santuario. Letti e materassi uno sopra l'altro. Il respiro sommesso di una poppante avvinghiata al seno della madre, l'odore di cibo, di pignatte incrostate su un fornelletto arrugginito. L'unico per una stanza da dodici. La cella di un monastero diventato campo profughi. «Guarda come siamo messi... A Mosul vendevo condizionatori, non avevo problemi. Ma da quel giorno Mosul è paura, ansia, terrore. Meglio la miseria, meglio una vita da profughi, meglio perder tutto che rischiar la vita di mia moglie e dei miei figli».
Ai piedi dei monti. Bassam è uno dei tanti cristiani in fuga da Mosul. Vive da mesi tra le mura di pietra del monastero di Notre Dame, nel villaggio di Al Qosh. Da Mosul sono trenta chilometri, o poco più, ma questa strada alle porte del Kurdistan e alle pendici dei monti Bayhidhra, è uno dei sentieri dell'esodo cristiano. Da qui passa una delle vie di fuga di una comunità piegata, umiliata, perseguitata. Una comunità nata ai primordi del cristianesimo, ai piedi di queste montagne, in quella piana di Ninive dove l'apostolo san Tommaso piantò la croce. Da allora, Mosul è la sede del Patriarcato caldeo. Duemila anni dopo, la tradizione antica rischia di venir sradicata. Il primo a spiegartelo da Baghdad è monsignor Shlemon Warduni, il Patriarca vicario caldeo, testimone dalla sua chiesa - nel cuore della capitale - dall'inizio della persecuzione cristiana. «Negli anni Novanta, eravamo più di un milione ed eravamo felici e rispettati. Nel 2003, dopo l'invasione americana, incominciano l'odio, gli attacchi, i rapimenti, i tentativi di cacciarci, la fuga di 250mila persone. Nel quartiere di Doha, c'era una delle più importanti comunità caldee... Oggi non c'è più nessuno, li hanno espulsi a suon di sparatorie, rapimenti e assassinii. Poi sono iniziati gli attacchi alle chiese e la grande fuga da Baghdad. Molti speravano di trovar pace a Mosul o nella piana di Ninive, nelle terre dove abbiamo vissuto per millenni, ma si sbagliavano».
A fartelo capire ci pensa padre Mazen Matoka, un prete di Mosul, parroco di Qaraqosh, a 15 chilometri dal capoluogo. «Qui il terrore è arrivato nel 2008. È incominciato con le bombe... Colpivano le chiese, le case, le scuole private. Settimana dopo settimana, abbiamo visto fuggire 700 famiglie. Adesso, qui a Mosul ne restano, sì e no, un migliaio». La famiglia di padre Mazen non è più tra quelle. Succede un pomeriggio dello scorso febbraio. Il parroco va a dir messa a Qaraqosh: ad attenderlo a Mosul restano la mamma, le due sorelle, papà Jeshu e i fratelli Mukhlas e Bassem. Mentre lui dice messa, arrivano i sicari. «Tirano fuori le pistole, chiedono i documenti, spingono in una stanza la mamma e le sorelle. Mamma offre dei soldi, ma loro rifiutano. Lei scappa sul balcone, urla, chiede aiuto, ma non arriva nessuno. Dopo un po', nell'altra stanza, incominciano a sparare. Mia madre corre dentro. Uno dei tre assassini trema, non riesce a premere il grilletto, ma gli altri non esitano... Ammazzano prima papà, poi Mukhlas e Bassem. Così - sospira il parroco - hanno distrutto la mia famiglia. Cosi uccidono i cristiani a Mosul». L'aspetto più inquietante di quella strage è l'indifferenza. «Da quando entrano in casa nostra a quando fuggono passa più di un'ora, i vicini sentono le urla, chiamano soldati e polizia. Eppure non arriva nessuno. Ancora oggi - ripete il parroco - nessuno mi sa spiegare il perché».
L'idea di un complotto, di una cospirazione messa in piedi per far fuggire i cristiani e impossessarsi delle loro terre, è quanto mai diffusa. Il centro petrolifero di Mosul è - assieme a quello più importante di Kirkuk - una delle due grandi città contese del Nord dell'Iraq, una città dove i curdi cercano l'egemonia ai danni delle tribù arabe sunnite. Secondo Gabriel Toma, quarant'anni, parroco caldeo del monastero di Al Qosh, quella lotta alimenta anche la persecuzione dei cristiani. «I gruppi fondamentalisti che uccidono o rapiscono i nostri fedeli sono solo il sintomo, la manifestazione del male. Ma bisogna chiedersi a chi giova uccidere i cristiani, a chi fa comodo cambiare la composizione territoriale della zona». Secondo questa interpretazione, le fazioni curde fingono di proteggere i cristiani, ma in realtà non muovono un dito. Dietro quest'atteggiamento ambiguo ci sarebbe il rancore per l'appoggio fornito dalla comunità cristiana al regime di Saddam, il ricordo del ruolo giocato all'interno del regime dal caldeo Tareq Aziz. Atheel al-Nujaifi, il governatore sunnita della provincia di Ninive, accusa esplicitamente i capi miliziani curdi e li indica come i veri istigatori delle violenze. «Far uccidere un cristiano è il mezzo migliore per diffondere paura e instabilità... Qui chi si oppone ai piani curdi viene perseguitato, minacciato, arrestato e spesso liquidato», accusa Nujaifi. E Bassem Bello, sindaco cristiano del villaggio di Tel Kaif, rilancia. «Ad ogni attacco, altre famiglie fuggono all'estero. Il piano è semplice, vogliono sloggiare i cristiani originari di queste zone per mettere le mani sulle nostre terre».
Armi alla porta. Qualcuno però ha deciso di continuare a pregar Cristo. Anche a costo di farlo con la spada al fianco. O il kalashnikov. Per capirlo, basta puntare verso il santuario di Santa Barbara, nel villaggio cristiano di Karamlis. Lì, sulla strada per Mosul, un gruppo di uomini armati blocca il traffico, ispeziona le auto, controlla documenti e passeggeri. Più in là, un altro gruppetto è pronto a dare man forte. Tra gli archi e le sacrestie del sacrario, uno stuolo di parroci e prelati saluta il vescovo di Mosul, monsignor Amel Nuna. Ci viene incontro con un sorriso. E tante scuse. «Mi dispiace per le armi alla porta, ma dovete capire». Per capirlo basta conoscere la storia di Paulos Farai Rakha, il suo predecessore ritrovato cadavere - due anni fa - dopo esser stato rapito da un gruppo fondamentalista. «Qui se porti questa al collo rischi di non tornare vivo», spiega, accarezzando la croce dorata: «Per questo, in alcune zone i nostri fedeli devono difendersi da soli».
Il quartier generale dei miliziani di Karamlis è di fronte alla chiesa di Sant'Adday nel centro del villaggio. Un "colonnello" e un "capitano", circondati da un gruppo di fedelissimi con kalashnikov e ricetrasmittente, fanno la guardia all'ex ufficio postale trasformato in posto di comando. Da lì, organizzano la difesa di 5mila cristiani sotto scacco. Dietro i gradi militari - ricordo di una carriera nei ranghi di Saddam - ci sono Shaker Banjamin e Latif Issa, due ex ufficiali di 48 anni, che si sono ritrovati, dopo la caduta del dittatore, senza un lavoro e una paga. «Fino al 2003, noi e gli altri cristiani di questo villaggio eravamo gente felice - racconta il "colonnello" Shaker -, poi all'improvviso è cambiato tutto: io e Latif ci siamo ritrovati in strada, mentre il villaggio è diventato un obbiettivo per tutti i curdi e i musulmani dei dintorni. Così nel 2003, dopo le prime minacce, io e Latif abbiamo messo su una guardia civica disarmata per controllare il centro abitato». Due anni dopo, quel primo embrione di milizia non basta più. «Tutt'intorno, Al Qaeda e altri gruppi estremisti mettevano bombe e uccidevano i civili. Così abbiamo chiesto agli americani il permesso di organizzare una guardia civile con divise, armi, radio e posti di blocco. Ora anche il governo e l'esercito iracheno hanno riconosciuto ufficialmente il nostro ruolo».
Guardia civile. Oggi i 5mila abitanti cristiani di Karmalis possono contare su una vera milizia "crociata", forte di 243 uomini guidati da 10 ex ufficiali saddamisti. La presenza della "guardia civile" ha già risparmiato brutte sorprese. «I miei uomini sono tutti volontari. Vivono con i contributi tirati su grazie alle offerte in chiesa, ma hanno già fermato molti estremisti pronti ad attaccarci. Lavorano per difendere le proprie famiglie, per questo sono molto più efficienti di un vero esercito. Ma non serve sparare. Per eliminare la minaccia basta la loro presenza. A Mosul uccidono i cristiani perché la polizia non muove un dito. Qui non osano entrare. Sanno che non potrebbero mai farla franca».
martedì 2 novembre 2010
Movimenti per l'acqua
**L'appello dell'Assemblea dei movimenti per l'acqua**
Noi donne e uomini dei movimenti sociali territoriali, della cittadinanza attiva, del mondo dell'associazionismo laico e religioso, delle forze sociali, sindacali e politiche, del mondo della scuola, della ricerca e dell'Università, del mondo della cultura e dell'arte, del mondo agricolo, delle comunità laiche e religiose
che in questi anni e in tutti i territori
abbiamo contrastato la privatizzazione del servizio idrico, perché sottrae alle collettività un diritto essenziale alla vita;
abbiamo promosso e partecipato, nel Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua o in altri percorsi, a iniziative ed azioni, socializzando i saperi e le esperienze, rafforzandoci reciprocamente, allargando la sensibilizzazione e il consenso;
abbiamo promosso con oltre 400.000 firme una legge d'iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell'acqua e la sua gestione partecipativa;
abbiamo promosso mobilitazioni territoriali, manifestazioni nazionali e appuntamenti internazionali per riappropriarci di ciò che a tutti appartiene, per garantire a tutte e tutti un diritto universale, per preservare un bene comune per le future generazioni, per tutelare una risorsa naturale fondamentale;
abbiamo promosso una campagna referendaria che si è conclusa con lo straordinario risultato di oltre un milione e quattrocentomila firme raccolte;
consapevoli del fatto che
il voto referendario apre una stagione decisiva per l'affermazione dell'acqua bene comune e della sua gestione pubblica e partecipativa;
la battaglia dell'acqua è assieme una battaglia contro il pensiero unico del mercato e per una nuova idea di democrazia;
la privatizzazione e la mercificazione dell'acqua e del servizio idrico è incompatibile con conservazione della risorsa acqua, degli ecosistemi e più in generale dell'ambiente;
una vittoria ai referendum della prossima primavera potrà aprire nuove speranze per un diverso modello economico e sociale, basato sui diritti, sui beni comuni e sulla partecipazione diretta delle persone;
facciamo appello
a tutte le donne e gli uomini di questo paese
perché, in questi mesi che ci porteranno al referendum si apra una grande stagione di sensibilizzazione sociale sul tema dell'acqua, e si produca, ciascuno nella sua realtà e con le sue attitudini e potenzialità, uno straordinario sforzo di comunicazione sull'importanza della vertenza in corso e sulla necessità del
coinvolgimento di tutto il popolo italiano, con l'obiettivo di arrivare all'affermazione dei tre referendum abrogativi.
Tutte e tutti assieme possiamo affermare l'acqua come bene comune, sottrarla alle logiche del mercato, restituirla alla gestione partecipativa delle comunità locali.
Tutte e tutti assieme siamo coinvolti nel problema e possiamo divenire parte della soluzione.
Il tempo è ora. Perché si scrive acqua e si legge democrazia.
Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua
Comitato Promotore dei referendum per l'Acqua Pubblica
Firenze, 18-19 Settembre 2010
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