sabato 11 settembre 2010

AlReves: USA


La dottrina del “potere intelligente”
La nuova strategia militare Usa e il ruolo delle “Forze Speciali”

In un suo recente discorso il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha spiegato che in fatto di politica estera gli Stati Uniti adotteranno un programma ispirato al principio dello smart power (o “potere intelligente”).

Ciò segnerebbe il passaggio “da un esercizio diretto del potere”, come quello adottato dai falchi repubblicani di Bush , “ad un’applicazione dello stesso più sofisticata, che implica una delicata combinazione di influenza ed uso della forza (…) e che richiede pazienza e perseveranza poiché l’esercizio indiretto del potere ha bisogno di molto tempo”. (Hillary Clinton, 2010).

Lo smart power si configura quindi come una giusta miscela tra soft power (la capacità di influire nel mondo attraverso la diplomazia e la propaganda culturale) e hard power, l’uso diretto della forza militare alla quale gli Usa hanno fatto ricorso ripetutamente dal conflitto in Vietnam fino alle più recenti Guerre del Golfo.

A prima vista, il nuovo approccio potrebbe significare un sostanziale cambiamento di rotta rispetto al passato verso una politica estera finalmente più morbida e “multilaterale”: meno interventi militari e più impegno nell’azione diplomatica per risolvere la controversie internazionali, il tutto condito dal sorriso rassicurante del presidente Obama.

Secondo le informazioni pubblicate da numerose fonti nordamericane (tra cui il New York Times), una “direttiva segreta” del Pentagono in particolare, quella del dicembre 2009 firmata dal Generale Petraeus, conterrebbe indicazioni illuminanti per comprendere il nuovo orientamento della neonata dottrina militare Usa.

In perfetta continuità con l’”era Bush”, la politica estera del governo Obama assegna un ruolo cruciale all’intervento militare in tutti quei paesi che, pur non trovandosi in stato di guerra con gli Usa, risultano strategici per i loro interessi oppure potenzialmente pericolosi per la loro “Sicurezza Nazionale”. In prima fila, tra i paesi considerati “ostili”, ci sono Cuba (vittima da decenni di un embargo assurdo ed anacronistico) e il Venezuela chavista con il suo ambizioso progetto di integrazione regionale antistatunitense (ALBA).

Secondo le stesse fonti citate, l’intervento militare nei paesi “non allineati” vedrà un coinvolgimento sempre maggiore delle “forze speciali” (corpi d’elite, contractors, agenti segreti).

Si tratta di unità addestrate nello svolgere compiti nell’ambito della guerra psicologica e delle “operazioni coperte”, sullo stile di quelle che in passato provocarono l’abbattimento dei governi progressisti di Abenz (Guatemala), Goulart (Brasile) ed Allende (Cile). Tutto ciò non deve sorprendere se si considera che le tattiche di guerra non convenzionali sono proprio alla base delle operazioni svolte dalle “forze speciali”.

Un altro compito assegnato alle “forze speciali” consiste nel raccogliere informazioni [lavoro di intelligence] e nel costruire legami con le forze di sicurezza locali. Fino ad oggi è stata la CIA ad occuparsi di queste “delicate” funzioni. Si può citare come esempio il “Piano Condor” - messo in atto dalle dittature del Sudamerica nel corso degli anni 70 per “liquidare la sovversione” - in cui l’agenzia Usa svolse un ruolo determinante nel “consigliare” e coordinare i servizi di intelligence della regione. Questo tipo di cooperazione rese anche possibile lo scambio di informazioni, il trasferimento dei prigionieri e l’esecuzione di operazioni “congiunte”, quali il sequestro, la tortura e l’omicidio di centinaia di persone in Cile, Argentina e Uruguay.

Negli Stati Uniti, uno dei dubbi che si nutrono nei confronti delle “forze speciali”, sottoposte al Dipartimento della Difesa, riguarda il fatto che “le loro operazioni non necessitano dell’approvazione del Presidente, né il Congresso ha la facoltà di essere informato sulle loro attività”*. Ciò conferisce all’Esercito un’autonomia che va al di là dell’azione di controllo da parte delle autorità civili, circostanza di per sé estremamente pericolosa in qualunque democrazia.

Considerando il calo d’immagine e di consenso che gli Stati Uniti hanno subito di recente, non solo in America Latina ma un po’ in tutto il mondo, il governo Obama sta cercando di stanziare più fondi da investire nell’attuazione dei programmi per la sua politica estera.

Il Segretario alla Difesa, Robert Gates, ha chiesto all’amministrazione del suo governo più soldi e più sforzi per il soft power (la diplomazia, l’assistenza economica e la propaganda attraverso i mezzi di comunicazione), “poiché i militari non possono da soli difendere gli interessi degli Stati Uniti d’America in tutto il mondo. Ha inoltre sottolineato che la spesa militare ammonta a circa mezzo trilione di dollari all’anno, a fronte di un bilancio complessivo del Dipartimento di Stato di 36 miliardi di dollari.”**

Il mantenimento della “Pax Americana” in tutto il pianeta, anche mediante il “potere intelligente”, continua a rivelarsi un affare molto costoso.

Andrea Necciai
 
Note:
* “Poder Inteligente, discurso de la Pax Americana en el gobierno de Obama: continuidades y discontinuidades”,
di Silvina Maria Romano e Gian Carlo Delgado Ramos – “Rebelión”.
** ”Smart Power, un nuovo approccio della politica estera statunitense”, di Joseph S. Nye Jr.


AlReves: Messico


Ay pobre Mexico…
Una nazione in bilico tra crisi economica e violenza diffusa

Nell’anno del Centenario di una delle rivoluzioni più importanti della storia del ventesimo secolo, il Messico è sprofondato in una crisi economica senza precedenti, mentre si registra un’escalation di violenza alimentata dalla delinquenza e dalla piaga del narcotraffico, ma anche dallo stesso Stato Federale.

Negli ultimi quattro anni la povertà si è enormemente diffusa tra la popolazione. Secondo i dati del Coneval (il Consiglio nazionale di valutazione delle politiche sociali), le persone con redditi inferiori a 65 dollari mensili, cioè in condizioni di estrema indigenza, hanno raggiunto in poco tempo i 20 milioni. Se a questi si sommano altri 31 milioni di cittadini con redditi che non consentono il soddisfacimento dei bisogni essenziali (come la casa o l’assistenza socio-sanitaria), si deve concludere che oggi la metà dei messicani sono poveri. Un oltraggio per un paese che nei “mitici anni novanta” si candidava ad entrare trionfalmente nel Primo Mondo per la porta principale.

Erano quelli i tempi del NAFTA, l’accordo sul libero commercio siglato con gli Stati Uniti e il Canada, che secondo i governanti e le classi dirigenti di allora avrebbe consentito al Messico una rapida crescita economica e sociale, proiettandolo verso l’eldorado delle nazioni più sviluppate. E in effetti, il progetto liberista prese decisamente il volo nell’ultimo ventennio, attraversato dal declino dei governi priisti - gli eredi della Rivoluzione, al potere in Messico per più di 80 anni - e dall’avvento di quelli panisti della destra nazionalista, senz’altro più “adattabile” alla modernità capitalista e ai suoi processi di globalizzazione.

Ma la costruzione di uno Stato nazionale, egemonizzato da una borghesia meticcia che “parla spagnolo pensando in inglese, ha il suo cuore negli Stati Uniti e svolge il ruolo assegnatole dall’attuale trans-nazionalizzazione dello Stato”*, non ha fin qui prodotto i benefici promessi - a suo tempo - a tutti i messicani (né sul piano economico, tanto meno su quello sociale).

La gestione della crisi economica da parte del governo in carica - retto da Felipe Calderon, che guadagnò la Presidenza nel 2006 ricorrendo a clamorosi brogli elettorali - è stata condotta in modo pessimo. Per lo meno questo è il giudizio di molti esperti di economia, tra i quali anche il Premio Nobel Joseph Stiglitz che ha criticato a più riprese l’operato del governo panista affermando che “l’eccesso di austerità che pretende di imporre potrebbe contribuire ad indebolire ulteriormente l’economia”, mentre l’introduzione di una “fiscalità più equa” e la tassazione delle transazioni e delle rendite finanziarie risolverebbe molti problemi di bilancio, oltre che scoraggiare la speculazione.

Più che del disastro economico e sociale, i vertici dello Stato sembrano più preoccupati (ed occupati) a non deludere il potente vicino del nord. La visita di Stato di Calderon a Washington del mese scorso era diretta soprattutto ad ottenere il “timbro di approvazione” di Obama sulla condotta del governo messicano.

Pare che il timbro, alla fine, sia stato apposto, nonostante le polemiche suscitate dalla richiesta - da parte messicana - di abrogare la legge-scandalo dell’Arizona sull’immigrazione e di proibire la vendita di armi pesanti nelle zone di confine. Richiesta legittima anche quest’ultima, per tentare di ostacolare i potentissimi cartelli messicani della droga che, grazie alle oltre 7.000 armerie disseminate sulla frontiera, sono facilmente in grado di ingrossare i loro arsenali.
La guerra (mal concepita) che lo Stato messicano da 3 anni ha ingaggiato contro i cartelli della droga ha già provocato più di 23.000 morti, aumentando a dismisura il livello della violenza in tutto il paese.

La “mano dura” del governo non è solo rivolta alla repressione dei fenomeni di criminalità. E’ bene ricordare che in Messico esiste anche un altro tipo di violenza: quella praticata dalle stesse istituzioni nei confronti dei movimenti popolari. Fino ad un’epoca recente, essa veniva esercitata con i sequestri, la tortura e la repressione; ora “si applica anche nei processi giuridici contro gli oppositori, come nel caso degli attivisti di Atenco condannati a pene maggiori rispetto a quelle comminate a qualsiasi narcotrafficante o assassino comune.”**   

A Città del Messico, la grande piazza dello Zocalo è diventata teatro della protesta civile di centinaia di membri del sindacato degli elettricisti (SME), da un mese in sciopero della fame. Lamentano la perdita del loro posto di lavoro, in seguito al fallimento dell’azienda parastatale “Luz y Fuerza” che ha portato al licenziamento di 43.000 sindacalisti ed addetti. La strategia del governo di Calderon, simile del resto a quella dei suoi predecessori, è fin troppo evidente: provocare la bancarotta delle aziende statali per aprirle alle privatizzazioni, senza badare alle conseguenze sociali. A pochi metri di distanza, i presidi degli insegnanti provenienti dallo stato di Oaxaca, in rivolta dal 2006 per ottenere condizioni di vita e di lavoro più dignitose; la loro comunità continua a subire la prepotenza delle bande paramilitari controllate dal governo statale del PRI.

Per questi e per molti altri casi di “violenza istituzionale”, il Centenario della Rivoluzione sarà ricordato in Messico come l’anno del trionfo – forse definitivo – della Controrivoluzione.

Andrea Necciai

Note:
* ”La Contrarrevolucion en el poder”, di Gilberto Lopez y Rivas – La Jornada.
** ”Intervista alla giornalista Laura Castellanos”, di Luis Martinez Andrade – El Columnista.