La
presenza militare Usa in America Latina rilancia la corsa agli armamenti e il
rischio di nuovi conflitti.
In
America Latina numerosi e importanti processi politici stanno determinando un
graduale calo del consenso neoliberale e pro-statunitense. Dal socialismo bolivariano di Chavez in
Venezuela al pragmatismo del Brasile
di Lula, sono sempre di più i governi dell’area che cercano uno spazio comune
di integrazione e una maggiore autonomia, anche grazie al recupero della piena
sovranità sulle risorse naturali ed energetiche. La via delle nazionalizzazioni seguita da alcuni governi, la diminuita
influenza del Fondo Monetario Internazionale sulle economie degli Stati, il
rifiuto dell’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe) stanno a
testimoniare come gli Stati Uniti, in appena dieci anni, abbiano perso buona
parte della loro leadership sul Nuovo
Continente. E per questo - c’è da temere - potrebbero affidarsi a strategie più
“efficaci”.
Anche
dopo l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca, la politica estera degli Usa
nei confronti dell’America Latina ha continuato a rivelarsi ottusa e
aggressiva, senza alcuna differenza sostanziale, se non nella forma, rispetto
alle tattiche guerrafondaie dell’era di G.W. Bush. Secondo il politologo
statunitense Noam Chomsky, “l’unica differenza tra le amministrazioni passate e
quella attuale, è lo stile retorico. Obama è politicamente corretto, si rivolge
agli altri governanti come a dei leaders, anche se nei fatti continua a
trattarli come dei vassalli degli Stati Uniti”.
Il
punto più criticabile della nuova “dottrina Obama” è lo sforzo per accelerare
una nuova militarizzazione nell’area latinoamericana, partendo dal
rafforzamento delle basi militari in Colombia (con il solito pretesto della
lotta al narcotraffico) e dal ripristino della IV Flotta, le cui unità da
guerra dall’anno scorso hanno ripreso ad incrociare nelle acque dei Caraibi e
dell’Atlantico dopo quasi 60 anni di inattività.
La
concessione di 7 basi militari colombiane all’esercito degli Stati Uniti ha trasformato
il presidente Uribe, il più fedele alleato della zona, in un luogotenente
imperiale. Non si deve dimenticare che questo Paese, nell’ambito del Plan
Colombia, ha già accumulato in soli dieci anni aiuti militari per più di 6
miliardi di dollari. Ora, in virtù dei nuovi accordi con la Colombia, il South
Command (che comprende tutte le forze statunitensi e congiunte nell’area
latinoamericana) può contare su 20 basi militari avanzate; inoltre i suoi
soldati godono della tutela di una giurisdizione speciale che non li rende
responsabili nei casi di lesa umanità o di abusi ai danni delle popolazione
civili.
Come
era naturale aspettarsi, alla rinnovata ingerenza militarista degli Usa ha
fatto seguito un coro di vibrate proteste da parte di Venezuela, Ecuador,
Bolivia, Paraguay, Nicaragua, Argentina, Uruguay e Brasile. Il presidente Lula
ha incolpato Uribe di aver trasformato le Ande in una polveriera pronta a
scoppiare da un momento all’altro; Correa (Ecuador) ha invece affermato – senza
mezzi termini – che il presidente colombiano “ha le mani sporche di sangue”
(alludendo all’incursione contro l’accampamento delle FARC, compiuta dalle
forze speciali colombiane a Sucumbios, in territorio ecuadoriano, lo scorso
anno). Gli altri mandatari si sono invece limitati a far osservare che
l’installazione di basi straniere nei loro territori equivale ad una grave
violazione della sovranità nazionale.
Di
fronte alla decisione nordamericana di rafforzare la presenza militare nella
regione andina, un po’ tutti i governi della zona hanno reagito aumentando, a
loro volta, le spese in armamenti. Negli ultimi 5 anni - oltre alla già citata
Colombia - Brasile, Ecuador, Cile e Venezuela sono stati i maggiori compratori
di armi e sistemi di difesa. Il Brasile, in particolare, è la nazione che da
sola investe in armamenti circa il 50% della spesa complessiva di tutta
l’America Latina. Ma se si analizza questo dato in rapporto al PIL, si scopre
che il vero primato spetta ad altri. Sono infatti Colombia e Cile a destinare
alle spese militari tra il 3 e il 4% del loro Prodotto Interno Lordo (secondi
solo agli Usa, con oltre il 4%); mentre il Venezuela chavista, che colombiani e
nordamericani considerano un pericolo per la pace e la stabilità della regione,
stanzia “solo” l’1,3% del PIL per la difesa del suo territorio.*
Nel
corso degli ultimi mesi la tensione tra Colombia (da una parte) e Venezuela ed
Ecuador (dall’altra) è salita alle stelle. Esiste il fondato sospetto che funzionari
statunitensi dei servizi di sicurezza cospirino per indebolire il governo di
Caracas mediante espedienti diplomatici e militari, come l’infiltrazione di
agenti segreti e di unità paramilitari nelle zone di frontiera.
Il
mese scorso le autorità venezuelane hanno annunciato la cattura di alcuni
agenti del DAS (Dipartimento Amministrativo di Sicurezza, il servizio segreto
colombiano), inviati nel Paese limitrofo ad effettuare operazioni di
ricognizione e di spionaggio sulle Forze Armate Nazionali Bolivariane del
Venezuela. Da parte colombiana (e statunitense), l’intento di queste operazioni
segrete potrebbe essere quello di saggiare le difese di confine per prepararsi
- all’occorrenza - a scatenare
un’offensiva militare contro il Venezuela e i suoi alleati dell’ALBA, la
pericolosa ”Alleanza Bolivariana per le Americhe”.
Andrea Necciai
* Fonte:
Istituto di Ricerca Internazionale per la Pace di Stoccolma (dati 2007/2008).