giovedì 14 luglio 2005

AlReves: El Salvador [2]


Gli squadroni di D’Aubuisson (Seconda parte)

L’escalation della violenza.
Quando ARENA - diretto da D’Aubuisson e dal suo Capo della Sicurezza, Hector Antonio Regalado - vincendo le elezioni prese possesso dell’Assemblea Legislativa (1982), la “cupola” capì che quella era un’occasione unica per collocare i gruppi paramilitari in uno spazio in cui non potevano avere accesso le forze dell’ordine nazionali (polizia e vigilantes), né tantomeno gli altri partiti politici.
Al secondo piano dell’Assemblea Legislativa fu insediato una specie di centro operativo in cui erano custodite armi, munizioni ed equipaggiamenti militari. Da qui agenti fidati, usando la copertura del personale di sicurezza dell’Assemblea, uscivano per compiere le loro missioni omicide e terroristiche. E non sempre si trattava di missioni di natura “politica”. Da un certo momento in poi fu messo in atto un nuovo tipo di “pulizia sociale”, diretta anche all’eliminazione di delinquenti comuni e di nemici personali dei capi dell’organizzazione.
Le prove raccolte a suffragio di queste tesi sono schiaccianti: testimoni oculari che parteciparono direttamente alle “operazioni”, documenti di vari gruppi politici, informative dei servizi di intelligence statunitensi e il dossier della “Commissione della Verità” (presentato nel dopoguerra) dimostrano che il Parlamento salvadoregno fu la vera sede degli squadroni della morte, almeno finché ARENA non perse le elezioni del 1984.
Lo stesso D’Aubuisson, in più di un’intervista alla stampa straniera, ammise che il suo personale operò dall’Assemblea Legislativa per effettuare operazioni di guerra sporca. Ed aggiunse anche che quelle azioni “si rendevano necessarie, dal momento che l’estrema sinistra progettava di distruggere ARENA e stava minacciando seriamente la sicurezza dello Stato”.
  
“Ti insegneremo come torturare…”
René Hurtado è lo pseudonimo di un ex agente della “Policia de Hacienda”, oggi vive a Minneapolis. In un’intervista rilasciata ad un quotidiano statunitense, raccontò che la “Polizia de Hacienda” con una certa frequenza sequestrava, interrogava, torturava ed assassinava “elementi politici sospetti”. Confessò di aver partecipato a varie sedute di tortura e compilò anche una relazione dettagliata sulle tecniche più utilizzate. Secondo Hurtado, elementi dei servizi segreti statunitensi impartivano lezioni di intelligence agli ufficiali della “Polizia de Hacienda”; i percorsi formativi includevano anche un addestramento sui “metodi di tortura fisica e psicologica” dei prigionieri. Riportiamo, qui di seguito, un frammento della relazione di Hurtado.

“Per prima cosa, si comincia a torturare il prigioniero psicologicamente. Se è un marxista o un rivoluzionario non sarà facile farlo parlare, perciò è necessario “smontarlo psicologicamente”. Se si tratta di qualche personaggio importante – diciamo, per esempio, di un giornalista, di un professore, di un dirigente di un movimento studentesco, di un sindacalista o di un dirigente politico che è in possesso di informazioni per noi interessanti – almeno all’inizio non deve essere trattato crudelmente. Gli parlerai come ad un amico, tentando di convincerlo gli dirai che, in qualche modo, sei in grado di comprendere il suo idealismo.
Gli potresti chiedere: “Chi sono i tuoi compagni, perché ci uccidono? Quante persone hai ucciso?”. E subito dopo: “Non essere ingenuo. Questi cornuti vogliono fregarti, ti stanno usando. Noi potremmo ammazzarti qui all’istante, ma non siamo degli assassini, non siamo tuoi nemici. Se collaborerai con noi, ti faremo uscire dal paese.” “Dove ti piacerebbe andare? In Europa, in Spagna, in Inghilterra? Ti possiamo mandare in uno qualsiasi di questi paesi. Ti daremo del denaro. Ma devi parlare, perché se non lo fai sarà peggio per te”.
Quando conduci il primo interrogatorio, sforzati di apparire una persona sensibile e decente - non certo un assassino. Confessa al detenuto di non essere un cornuto come gli altri agenti che fanno gli interrogatori. Puoi offrirgli una gazzosa oppure qualcosa da mangiare. Gli domandi dove vivono i suoi genitori, chiedi di sua moglie e dei suoi figli. L’effetto su di lui sarà davvero devastante quando gli dirai che i suoi figli sono stati catturati, ma purtroppo non sai dove si trovano. E dopo questo approccio iniziale, a distanza di qualche giorno o settimana, devi cominciare a rivolgerti a lui con parole e modi più bruschi… fino a passare gradualmente alla tortura “fisica”.
Per prima cosa, rinchiudi il prigioniero in una stanza molto piccola e priva di luce, impedendogli di dormire. Lo metti a sedere, nudo, sul bordo di un letto e lo lasci così per una settimana - senza dormire e con la stanza piena di escrementi ed orina dei detenuti precedenti -, affinché i suoi nervi crollino quando comincerai a torturarlo.
Esistono diversi metodi di tortura fisica: staccare al prigioniero brandelli di pelle, bruciarlo con mozziconi di sigaretta, oppure colpirlo ripetutamente sulle mani e nel ventre… Ma ci sono anche tecniche più “sofisticate” come, per esempio, colpire il detenuto nello stomaco in modo tale da procurargli più dolore possibile, ma senza lasciare traccia di lesioni esterne visibili.
Se dopo uno o più di questi “trattamenti” il prigioniero ancora non parla, puoi utilizzare un secchio pieno di escrementi. Immergi la sua testa nel secchio per trenta secondi o più, ripetendo l’operazione più volte…
Infine, lo ripulisci ben bene e lo conduci nella stanza dell’elettrochoc. Nella sede della “Policia de Hacienda” c’è una camera di tortura “speciale”, nella quale ha accesso solo il personale della “Seccion de Inteligencia”; nessun’altra persona in uniforme ha il permesso di entrarci. La stanza è stata isolata acusticamente, in modo tale che dall’esterno non sia possibile sentire alcun rumore.
A questo punto, si tratta di imparare ad applicare le scosse elettriche nello stomaco, nel cervello, o in altre parti del corpo. Per far questo usiamo un aggeggio che somiglia vagamente ad un vecchio telefono, e che si alimenta continuando a girare una manovella con una mano. Ma ne esiste anche un altro più sofisticato, lungo circa 15 centimetri, che ha l’aspetto di una radio con degli elettrodi collegati. E’ di marca “General Electric”.
Alcune macchine possono generare 20 volt, altre 40. A seconda dell’intensità e della potenza della scossa, si possono produrre sul corpo di una persona effetti più o meno seri…
Devi posizionare gli elettrodi nelle parti vitali del prigioniero, vale a dire tra i denti, nel pene o nella vagina. L’effetto è maggiore se i prigionieri tengono i piedi nell’acqua e sono seduti su oggetti metallici. Inoltre, se prima di dargli la scossa spruzzi sui loro corpi dell’acqua minerale, il risultato che si ottiene può essere addirittura “mortale”.
In genere dopo tutti questi trattamenti, il prigioniero viene in ogni caso eliminato, poiché si suppone che non sia più possibile lasciarlo in vita. Se lo affidassimo ad un giudice, lo lascerebbero libero in poco tempo e ciò implica doverlo catturare un’altra volta. Per giunta, in presenza di un clima di forte pressione da parte di Amnesty International o di qualsiasi altra organizzazione umanitaria straniera, saremmo comunque costretti a liquidarlo.
Bene, a questo punto non rimane che abbandonare il cadavere - con addosso un manifesto di “Mano Blanca”, della “ESA” o della “Brigata Maximiliano Hernandez Martinez” [le sigle più usate dagli squadroni della morte n.d.r.] - in qualche vicolo o strada.”  **

Conclusioni.
Le attività dei paramilitari non furono una casualità, e neppure si può affermare che essi agissero fuori dal controllo dell’estrema destra. Usufruirono anzi dell’appoggio di importanti settori dello Stato e dell’Esercito, poiché erano parte integrante di una guerra durata molti anni e costata decine di migliaia di vittime, soprattutto tra i civili.
In secondo luogo, gli Stati Uniti accettarono tacitamente l’esistenza di questi gruppi eversivi, dal momento che il loro interesse prioritario era combattere il “comunismo internazionale”. Fu solo dopo molti anni, quando a questi gruppi “sfuggì di mano la situazione”, che Reagan si vide obbligato a prenderne le distanze e a far pressioni sugli alleati affinché “moderassero il loro comportamento”. A quel punto, però, gli squadroni della morte avevano già compiuto la loro missione di seminare il terrore tra la popolazione, passando dalla violenza indiscriminata alle esecuzioni selezionate con sistemi più disciplinati, ma pur sempre efficaci.
Negare oggi l’esistenza di questi gruppi e dei loro dirigenti, scagionando gli Usa dalle loro pesanti responsabilità, è il modo più meschino per tentare di riscrivere - o peggio di manipolare - la vera storia del conflitto armato salvadoregno.

Andrea “Chile” Necciai


Dedicato a tutti coloro che furono assassinati dagli “squadroni della morte”, a tutti i figli che rimasero senza genitori, a tutti i genitori che persero i loro figli, a tutti i coniugi che persero la persona da loro amata, a tutti i familiari di quelli che “uscirono un giorno di casa e non tornarono mai più”. E a tutti quelli che ancora oggi si impegnano, a loro rischio, perché la memoria non ceda all’oblio e all’indifferenza, e affinché sia finalmente resa piena giustizia alle vittime della repressione “squadrista”.



 
Note:
* “Dietro agli squadroni della morte” di Douglas Farah, giornalista e scrittore statunitense, collaboratore di "Raíces desde El Salvador".

** Dal “The Progressive” (maggio 1984), articolo di Allan Nairn, traduzione a cura di A.N.

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