di Emiliano Germani (DirittoDiCritica)
“Non esiste neutralità di fronte ad un
assassino. Non fare nulla per fermarlo è già una scelta, non è essere
neutrale”. È una delle frasi più significative del film “No man’s land”,
che con ironia e intelligenza ha raccontato l’orrore della guerra in
Bosnia e la frequente inerzia della diplomazia internazionale e delle
cosiddette “forze di pace” dell’ONU di fronte ad una violenza tanto
ottusa quanto inutile.
Una follia etnica. Srebrenica
è il nome di una cittadina dell’ex Jugoslavia, oggi parte di quella
assurda entità geografica nata dalle sue ceneri la Bosnia Erzegovina.
Una sorta di stato inter-etnico, nato da anni di massacri tra bosniaci
serbi ortodossi, bosniaci croati cattolici e bosniaci musulmani. Persone
che, dopo aver vissuto per anni come vicini di casa, colleghi, spesso
addirittura come parenti, all’improvviso hanno trovato nel delirio
nazionalistico una ragione per odiarsi, farsi del male, uccidersi e
depredarsi.
Il massacro. Srebrenica
dista da Roma poco più di 600 km in linea d’aria. Come Bolzano,
pressappoco. Eppure molti italiano non sanno che poco più di 19 anni –
l’anniversario è caduto in questi giorni – lì furono uccise circa 8mila
persone. Anche se i calcoli sull’effettivo numero dei morti è reso
difficile dal fatto che i corpi sono stati prima ammassati in fosse
comuni, poi dissepolti e spostati, per paura che qualcuno un giorno
potesse trovarli. Ad oggi, sono stati identificate 6mila persone. Ma
quelle che mancano all’appello sono molte, molte di più.
L’Onu immobile. A
difendere Srebrenica 11 anni fa c’era un contingente ONU olandese. Le
persone di Srebrenica vedevano nei caschi blu la garanzia della loro
salvezza. Ma quando i miliziani serbi si presentarono alle porte della
città, l’Onu non li fermò. Quando i miliziani serbi chiesero che le
migliaia di bosniaci rifugiati nella loro base uscissero, i caschi blu
olandesi acconsentirono. E quando i serbi entrarono in città, 8mila
bambini, uomini e vecchi dai 12 ai 77 anni sparirono nel nulla, mentre
le donne e le bambine rimaste sole divennero preda dello stupro etnico.
La sentenza. Oggi, il
Tribunale dell’Aja, a cui si erano rivolti i parenti delle vittime, ha
ritenuto il governo di Amsterdam “civilmente responsabile” per la morte
di 300 persone deportate dai serbi bosniaci dal compound olandese di
Potocari, alle porte di Sebrenica. Il governo olandese dovrà quindi
risarcire le famiglie delle vittime. Tuttavia, al tempo stesso, il
tribunale ha sancito che lo stato olandese non può essere giudicato
responsabile complessivamente della strage perché anche se la avesse
denunciato direttamente alle Nazioni Unite, ciò “non avrebbe comportato
un intervento militare diretto dell’Onu” e non avrebbe perciò impedito
il genocidio.
Fare i conti con l’inadeguatezza militare. Difficile
e forse ingiusto giudicare i militari olandesi che all’epoca si
trovavano a Srebrenica. La maggior parte di loro eseguiva semplicemente
degli ordini e anche gli ufficiali si trovarono a fare i conti non solo
con una evidente inadeguatezza militare (poche centinaia di olandesi
contro migliaia di serbi bene armati), ma anche con le pastoie
burocratiche dell’Onu e della diplomazia internazionale. Tra l’altro,
molti di quei soldati, tornati in patria, hanno sofferto per anni di
stress post-traumatico, molto probabilmente legato anche all’orrore di
Srebrenica. L’Olanda, dal canto suo, ha affrontato la questione sia dal
punto di vista politico (nel 2002 la pubblicazione di un report che
denunciava i limiti organizzativi e militari del contingente inviato in
Bosnia causò una crisi di governo), sia dal punto di vista giudiziario,
come dimostra la sentenza appena emessa. Certo, tempi lunghi,
lunghissimi.
In ogni caso, a distanza di anni, rimane
lo sgomento per l’orrore della guerra e per come, nel pieno cuore
dell’Europa, l’Onu si sia trovata ad essere spesso spettatore passivo
delle sofferenze di persone che doveva proteggere.
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