di Antonia Battaglia (MicroMega, 16 aprile 2014)
Ci sono due opere del filosofo Zygmunt Baumann, “Il mondo liquido” e “Danni Collaterali”, che sono, a mio avviso, fondamentali per capire le sfide portentose che la politica italiana ed europea sta affrontando in questo momento storico, che vede contrapporsi drammi sociali molto ampi e risposte governative molto deboli. Taranto,ancora una volta, ne è il banco di prova.
Quando si parla di società, se ne misura la qualità complessiva in base al livello medio delle parti che la compongono: si studiano reddito, standard di vita, longevità, condizioni sociali. Ma queste misurazioni prendono in considerazione molto difficilmente la differenza che intercorre tra le sue parti opposte, tra le parti più distanti tra di loro: la diseguaglianza, infatti, viene percepita in termini prettamente economici, senza considerare le conseguenze ed i rischi che le differenze sociali comportano su tutti gli aspetti della esistenza umana.
Il premio nobel per l’economia Amartya Sen scriveva, già nel 1998, che non è possibile basare sulla felicità (intesa in senso utilitaristico) una teoria etica (pensiamo a Bentham) che consacri come assoluta una visione ristretta del benessere umano, costruita su considerazioni e valutazioni esclusivamente individuali. Perché le valutazioni in merito alla felicità sono soggette a effetti di adattamento, aspettativa, a circostanze molto diverse che possono portare a trarre conclusioni politico-economiche e sociali distanti dalla realtà alla quale tali conclusioni devono applicarsi. Il tema che affronta Sen è noto come “la questione dello schiavo felice”: una persona molto svantaggiata dal punto di vista sociale potrà dirsi ad un certo momento della propria vita felice della propria sorte, meno drammatica di quella di altri, ma certamente non tanto positiva da essere presa a modello politico.
Gli indicatori dello stato di una società non possono basarsi esclusivamente sulla metrica utilitaristica, perché le grandi incertezze dei contesti sociali contemporanei rendono impossibile il successo di un modello che ponga al centro della vita collettiva un’ idea di continuo adeguamento per la sopravvivenza, attraverso il quale si possano giustificare distorsioni e politiche di deprivazione, che sacrifichino l’individuo al benessere generale.
Ci sono due opere del filosofo Zygmunt Baumann, “Il mondo liquido” e “Danni Collaterali”, che sono, a mio avviso, fondamentali per capire le sfide portentose che la politica italiana ed europea sta affrontando in questo momento storico, che vede contrapporsi drammi sociali molto ampi e risposte governative molto deboli. Taranto,ancora una volta, ne è il banco di prova.
Quando si parla di società, se ne misura la qualità complessiva in base al livello medio delle parti che la compongono: si studiano reddito, standard di vita, longevità, condizioni sociali. Ma queste misurazioni prendono in considerazione molto difficilmente la differenza che intercorre tra le sue parti opposte, tra le parti più distanti tra di loro: la diseguaglianza, infatti, viene percepita in termini prettamente economici, senza considerare le conseguenze ed i rischi che le differenze sociali comportano su tutti gli aspetti della esistenza umana.
Il premio nobel per l’economia Amartya Sen scriveva, già nel 1998, che non è possibile basare sulla felicità (intesa in senso utilitaristico) una teoria etica (pensiamo a Bentham) che consacri come assoluta una visione ristretta del benessere umano, costruita su considerazioni e valutazioni esclusivamente individuali. Perché le valutazioni in merito alla felicità sono soggette a effetti di adattamento, aspettativa, a circostanze molto diverse che possono portare a trarre conclusioni politico-economiche e sociali distanti dalla realtà alla quale tali conclusioni devono applicarsi. Il tema che affronta Sen è noto come “la questione dello schiavo felice”: una persona molto svantaggiata dal punto di vista sociale potrà dirsi ad un certo momento della propria vita felice della propria sorte, meno drammatica di quella di altri, ma certamente non tanto positiva da essere presa a modello politico.
Gli indicatori dello stato di una società non possono basarsi esclusivamente sulla metrica utilitaristica, perché le grandi incertezze dei contesti sociali contemporanei rendono impossibile il successo di un modello che ponga al centro della vita collettiva un’ idea di continuo adeguamento per la sopravvivenza, attraverso il quale si possano giustificare distorsioni e politiche di deprivazione, che sacrifichino l’individuo al benessere generale.
La “vita buona” di Aristotele misurava l’esistenza umana in base alle
sue qualità, anche etiche e morali, e non in base ad indicatori del
benessere prettamente economico: la riduzione della valutazione di una
società al solo aspetto del suo PIL non può, per forza di cose, che
fallire. L’obiettivo primario di una collettività non dovrebbe essere
indirizzato alla realizzazione della felicità del segmento più favorito
dal punto di vista delle condizioni economico-sociali di partenza,
piuttosto dovrebbe tendere a ridurre gli ostacoli sociali di fondo che
impediscono la crescita omogenea. Il rilancio dell’economia dovrebbe
essere basato su una azione di sviluppo di un benessere collettivo
comprensivo dei valori della salute fisica, di quella mentale, della
qualità della vita quotidiana, dell’ambiente, del grado di
partecipazione dei cittadini alla vita politica.
Anche da questo punto di vista, Taranto è “all’avanguardia” perché rappresenta l’incarnazione estrema della deriva di una politica il cui solo obiettivo pare essere quello di voler piegare la realtà ad un modello di “promozione” delle disuguaglianze sociali.
L’abisso che separa Taranto dalla media italiana non è relativo esclusivamente ai dati del PIL e della distribuzione della ricchezza – dati, peraltro, negativi e testimoni di una profonda ed avanzata condizione di crisi – ma tocca anche quelle altre qualità che la vita dovrebbe avere, per essere definita,come la definisce Sen, vivibile e felice.
Taranto è un esperimento politico costituito da diverse fasi che tendono ad un unico obiettivo: l’oblio. La prima è costituita dall’azione di rimozione: l’operazione di cancellazione della questione ILVA e del conseguente dramma di una città depredata dalla politica nazionale, ansiosa di proteggere la produzione dell’acciaio e il profitto di un singolo. Il programma va avanti lasciando la città fuori da azioni politiche concrete e risolutive.
Il filosofo Baumann parla della creazione di una “sottoclasse”, nella quale la politica aggressiva dell’utilitarismo relega quella parte della società non riconosciuta come centrale. I diritti di questa sottoclasse, se non esistessero, sarebbe meglio per tutti, perché solo fonte di fastidi.
Taranto è trattata dai governi regionale e nazionale come terra di nessuno, espressione della sottoclasse baumiana, corpo estraneo e per il quale non vale la pena di elaborare soluzioni.
Anche da questo punto di vista, Taranto è “all’avanguardia” perché rappresenta l’incarnazione estrema della deriva di una politica il cui solo obiettivo pare essere quello di voler piegare la realtà ad un modello di “promozione” delle disuguaglianze sociali.
L’abisso che separa Taranto dalla media italiana non è relativo esclusivamente ai dati del PIL e della distribuzione della ricchezza – dati, peraltro, negativi e testimoni di una profonda ed avanzata condizione di crisi – ma tocca anche quelle altre qualità che la vita dovrebbe avere, per essere definita,come la definisce Sen, vivibile e felice.
Taranto è un esperimento politico costituito da diverse fasi che tendono ad un unico obiettivo: l’oblio. La prima è costituita dall’azione di rimozione: l’operazione di cancellazione della questione ILVA e del conseguente dramma di una città depredata dalla politica nazionale, ansiosa di proteggere la produzione dell’acciaio e il profitto di un singolo. Il programma va avanti lasciando la città fuori da azioni politiche concrete e risolutive.
Il filosofo Baumann parla della creazione di una “sottoclasse”, nella quale la politica aggressiva dell’utilitarismo relega quella parte della società non riconosciuta come centrale. I diritti di questa sottoclasse, se non esistessero, sarebbe meglio per tutti, perché solo fonte di fastidi.
Taranto è trattata dai governi regionale e nazionale come terra di nessuno, espressione della sottoclasse baumiana, corpo estraneo e per il quale non vale la pena di elaborare soluzioni.
Esistevano dei limiti naturali alla disuguaglianza che “Il capitale” di
Marx poteva tollerare, perché si doveva evitare che le disuguaglianze
diventassero troppo estreme: a Taranto, invece, nella disuguaglianza, si
è andati oltre.
Nella seconda fase si cercar di far passare il problema come una questione di mero ordine pubblico. Ovvero,il gruppo vittima della disuguaglianza viene dipinto come un manipolo di ribelli, polemici, facinorosi, adepti della criminalità e dell’uso diffamatorio delle immagini di fumi e polveri in fuoriuscita dall’industria del padrone. Siamo alla reiscrizione della realtà, ovvero al tentativo di far passare il cittadino attivo e cosciente come un delinquente propenso alla ribellione sociale.
L’ultima fase dell’operazione consiste nel ridurre il ribelle ad un semplice criminale di borgata, ad un attore sociale che si muove in una realtà locale oscura e poco attraente, agitato da ripicche tra clans e contento di perdere tempo in vane azioni diffamatorie.
Una volta sminuita la portata della lotta sociale intrapresa da questa terra di nessuno, che la filosofia moderna definisce come vittima della “modernità liquida” nascente dalla globalizzazione, si passa alla fase della distruzione finale, al danno collaterale.
Nel lessico militare si parla di “perdite o danni collaterali” allorché si vogliono descrivere gli effetti di incidenti inaspettati, tuttavia molto prevedibili, delle azioni militari. Definire “collaterali” gli esiti devastanti delle operazioni belliche lascia supporre che questi danni fossero stati tuttavia presi in considerazione al momento dell’inizio delle campagne, e che quindi fossero considerati come possibili e non evitabili.
I danni collaterali in una società moderna non sono prerogativa esclusiva delle guerre, ma rappresentano tutte le emarginazioni e le disuguaglianze che caratterizzano la società stessa. Taranto è il danno collaterale dell’Italia, insieme alla Terra dei Fuochi, a Brindisi, a Vado Ligure, alla Val di Susa.
L’invisibilità endemica delle vittime collaterali è la conseguenza di una strategia ben precisa, messa a punto dai poteri dominanti per impedire modelli sociali nuovi, inclusivi delle sottoclassi e delle disuguaglianze.
Taranto è un “ danno collaterale”: il dramma sanitario, ambientale, occupazionale dei tarantini è cosa marginale, opinabile, non rientrante in nessuna ,o quasi, agenda politica.
Nella seconda fase si cercar di far passare il problema come una questione di mero ordine pubblico. Ovvero,il gruppo vittima della disuguaglianza viene dipinto come un manipolo di ribelli, polemici, facinorosi, adepti della criminalità e dell’uso diffamatorio delle immagini di fumi e polveri in fuoriuscita dall’industria del padrone. Siamo alla reiscrizione della realtà, ovvero al tentativo di far passare il cittadino attivo e cosciente come un delinquente propenso alla ribellione sociale.
L’ultima fase dell’operazione consiste nel ridurre il ribelle ad un semplice criminale di borgata, ad un attore sociale che si muove in una realtà locale oscura e poco attraente, agitato da ripicche tra clans e contento di perdere tempo in vane azioni diffamatorie.
Una volta sminuita la portata della lotta sociale intrapresa da questa terra di nessuno, che la filosofia moderna definisce come vittima della “modernità liquida” nascente dalla globalizzazione, si passa alla fase della distruzione finale, al danno collaterale.
Nel lessico militare si parla di “perdite o danni collaterali” allorché si vogliono descrivere gli effetti di incidenti inaspettati, tuttavia molto prevedibili, delle azioni militari. Definire “collaterali” gli esiti devastanti delle operazioni belliche lascia supporre che questi danni fossero stati tuttavia presi in considerazione al momento dell’inizio delle campagne, e che quindi fossero considerati come possibili e non evitabili.
I danni collaterali in una società moderna non sono prerogativa esclusiva delle guerre, ma rappresentano tutte le emarginazioni e le disuguaglianze che caratterizzano la società stessa. Taranto è il danno collaterale dell’Italia, insieme alla Terra dei Fuochi, a Brindisi, a Vado Ligure, alla Val di Susa.
L’invisibilità endemica delle vittime collaterali è la conseguenza di una strategia ben precisa, messa a punto dai poteri dominanti per impedire modelli sociali nuovi, inclusivi delle sottoclassi e delle disuguaglianze.
Taranto è un “ danno collaterale”: il dramma sanitario, ambientale, occupazionale dei tarantini è cosa marginale, opinabile, non rientrante in nessuna ,o quasi, agenda politica.
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